Capitolo 18
Nora seguiva con lo sguardo i battitori più avanti che tentavano di stanare il cinghiale. Dame e cavalieri parlottavano tra di loro, sfoggiando abiti e capelli. Lorenzo Colonna se ne stava alle spalle del principe del Galles e di Carolina di Brandeburgo, un sorriso compiaciuto sulle labbra e un tricorno dalle piume chiare che svolazzavano al vento.
In quel momento, il cinghiale lasciò la boscaglia per iniziare la sua folle corsa lungo il prato e verso la salvezza. I cani e i battitori gli stavano dietro, per accerchiarlo e portarlo in direzione del principe.
Nora tese i muscoli, agitata, mentre osservava l’animale continuare a macinare zolle di terra. Vide Augusto prendere in mano il moschetto e sentì il cuore batterle più veloce in petto, quasi come se si fosse immedesimata nel cinghiale che stava per essere colpito.
Sussultò con violenza, quando l’animale caracollò a terra. Tutti gli uomini erano corsi dietro al principe ma Lorenzo, invece, si allontanava verso il bosco.
Ne fu incuriosita e forse attirata, ancora una volta, dal fascino che quell’uomo esercitava su di lei. Con discrezione, tirò le redini della sua giumenta bianca e andò dietro al musicista italiano.
Gli zoccoli della cavalla pestavano erba e ramoscelli, rompendo l’equilibrio di silenzio e foglie smosse che regnava sotto l’arco degli alberi. Gli spari avevano scacciato gli uccelli e la fine, leggera pioggia che aveva preso a scendere da qualche tempo, produceva sul fogliame una lenta litania. La luce argentea del cielo nuvoloso scendeva in piccoli raggi a bucare la penombra. Alle sue spalle i rumori della battuta di caccia arrivavano attutiti.
Voci appena sussurrate giunsero ad attirarla, come il canto di una fata, il richiamo delle leggende che abitavano la foresta. Tirò appena le redini, la giumenta alzò la testa e scosse la criniera, mosse la zampa e lenta, calma, quasi avesse paura di rompere un incantesimo, la condusse lungo la scia di quella voce calda, con l’accento inconfondibile del sole italiano.
Abbassò la testa per evitare un ramo, e aguzzò gli occhi per poi posarli sul profilo di Lorenzo che, ancora in sella al suo cavallo, parlava fitto con qualcuno a piedi.
Nora non riusciva a vedere l’interlocutore e rimase immobile, seguendo la frase appena udita. Parole che graffiarono cuore e anima, che strinsero il ventre in una morsa gelida di paura. Non ebbe tempo di girare il cavallo, gli occhi scuri di Lorenzo la scrutavano con fredda attenzione. Provò a voltare la cavalla, ma la canna di una pistola fece capolino tra le mani dell’italiano.
Un colpo di moschetto raggiunse il bosco. E rimbombò di tragedia.
Un tuono le risuonò nelle orecchie, Leila si riscosse di soprassalto, stropicciò gli occhi, assonnata, e si accorse che la carrozza era ferma.
Era sul punto di aprire il finestrino per chiedere spiegazioni, quando lo sportello venne spalancato con violenza e se lo ritrovò davanti.
Leila quasi morì dentro agli occhi castani che raccontavano di una notte insonne. I capelli inzuppati appiccicati al volto, la camicia sporca. Ares scosse il capo corvino, la schiuma intorno al muso parlava di una corsa sfrenata, folle.
«Leila!» gridò Lewis, sollevato.
Era esausto, bagnato fradicio, ma ora era lì, davanti a lei, bellissima ed elegante, costretta nella giacca amaranto abbottonata fino al collo, che esaltava il colore della carnagione e fasciava in maniera sensuale le rotondità del seno. La lunga treccia nera si snodava dal tricorno lungo la spalla. Un serpente tentatore che chiedeva di essere liberato.
Fugace come un lampo, gli passò nella mente il pensiero del bacio con Ahmed, ma qualunque fosse il rapporto che lo legava a Leila, non aveva più importanza.
«Ti prego, puoi perdonarmi?» Una domanda semplice, facile, priva di ogni forma d’etichetta. Quegli occhi neri erano in grado di risucchiarlo, annientandolo.
Lo fissò, meravigliata e si lasciò sfuggire un sorriso, prima di calare il cappello sugli occhi e indurire l’espressione.
Sullo sfondo della notte ardeva ancora, più furente che mai, la fiamma della rabbia. Gli artigliò il colletto della camicia. «No! Non ho alcuna intenzione di perdonarvi!» gli gridò, alterata. «Cosa pensate? Di potermi insultare a piacimento e poi rincorrermi? Non sono disposta a tollerare ancora i vostri capricci, Lewis! Per quale motivo dovrei farlo?»
Sospirò, punto sul vivo. Le cinse il polso con delicatezza. «Ti chiedo scusa per tutte le orribili cose che ti ho detto ieri sera, Leila. Non ero in me.»
La vide abbassare gli occhi un momento. Un gesto pensoso, le labbra che si alzavano in un’espressione divisa a metà tra il cedimento e la rabbia. Non riuscì a resistere oltre, le accarezzò il volto. In risposta, Leila strinse più forte il colletto della camicia.
Rimasero qualche istante così, Lewis poteva leggere la rabbia agitarsi negli occhi neri che, tuttavia, lo scrutavano con una brama identica alla sua.
«Sei mia moglie, ti voglio accanto» mormorò.
«Ieri sera mi sembravate di diverso avviso.» Un lampo d’orgoglio passò nello sguardo di Leila e lo colpì dritto al cuore. «O per caso, vi è tornata la voglia…» Picchiettò il dito sul labbro, pensierosa, prima di puntarglielo contro. «Di scoparmi?»
L’alterigia si mischiava al desiderio, la distanza si faceva nulla, sotto il calore di quei polpastrelli ancora stretti intorno alla sua camicia, che solleticavano la pelle. Lewis decise di non indugiare oltre, non poteva più resistere. L’avvicinò a sé, con la dannata voglia di amarla ancora e perdersi, per l’ennesima volta, tra i capelli corvini e il corpo flessuoso.
Le loro labbra si unirono timide, Leila rimase tesa, più che mai convinta a non lasciargli vita facile, ma con lentezza, le labbra carnose si schiusero per accoglierlo. Le infilò le mani tra le ciocche di capelli, la spinse all’interno della carrozza.
«Legate il mio cavallo e tornate a Hampton Court.» Ordinò al cocchiere, mentre richiudeva lo sportello.
Gli sorrise, spavalda. Uno sguardo vittorioso che cancellava ogni assurda parola volata durante il litigio.
«Permettimi di chiederti scusa» le bisbigliò all’orecchio. Le dita che le accarezzavano la spalla, il seno, le labbra.
Leila si perse negli occhi di Lewis. La mente fu del tutto dimenticata. L’orgoglio abbassò le armi e la sua bocca andò a prendersi quella del marito, con una foga disperata, forgiata nell’assurda idea di dimenticarlo, di passare settimane lontana da lui.
I bottoni dell’accollato vestito cedettero sotto l’impeto. Uno strattone, e la scollatura fu allentata.
Socchiuse gli occhi, lo avvolse in un abbraccio, la carrozza che cigolava al trotto. L’urgenza dei loro corpi la stava lasciando senza fiato, si rese conto di aver alzato le gonne con una familiarità che le ricordò i consigli di sua madre, i pettegolezzi delle sorelle.
Lo liberò dalla camicia, gli artigliò le spalle, e si sedette sopra di lui. Le labbra si sfiorarono, calde, frementi.
Lewis le adagiò le mani sui fianchi, la seguì nella spinta che li ritrovò uniti. La stoffa del vestito attorcigliato sotto i palmi, i seni che emergevano dal corpetto scostato. Il ventre sinuoso che danzava a un soffio dal suo torace.
I pensieri si mischiavano in un vortice di ansiti. Lewis sapeva che stava cedendo. Si era arreso ai sentimenti, alla passione che non riusciva a tenere a bada. Le afferrò i polsi, esattamente come era successo la sera prima, ma stavolta non c’era rabbia a serrargli i polpastrelli, solo una vibrante passione. Glieli strinse delicato e possessivo, sconvolto per il potere che esercitava su di lui, inebriato dal piacere.
Una goccia di sudore scivolava, sinuosa, lungo il seno, sul ventre. La leccò, seguendo la linea dello sterno, giù fino all’ombelico. Le mani di Leila si divincolarono dalla sua presa e si posarono sul capo, afferrando, possessive, alcune ciocche di capelli.
Era lei, ora, a tenerlo stretto in una morsa carica di profumo, sudore e gemiti. Il sangue pulsava con vigore, costringendolo a serrare le labbra, a spingere e ansimare, con la pelle morbida di lei che lo avvolgeva. Una mano scivolò lunga la schiena, le unghie gli graffiarono la pelle. Emise un gemito, quasi un urlo di guerra, quando, poggiandole le dita lungo la spina dorsale, seguì l’arco che la piegò in avanti. Gli offrì i seni e la sua lingua cinse i capezzoli turgidi e scuri. La bocca saggiò il tremito che la percorse dalla punta dei piedi, lungo tutto il corpo. E insieme, riversarono l’apice del loro piacere in un caldo sospiro.
Lawrence Hawk fissava, sgomento, i due balordi che avevano appena catturato e trascinato fuori dal loro nascondiglio di cespugli e alberi.
Giorgio Augusto aveva ancora gli occhi spiritati, il respiro affannoso e il sudore che colava a cascate dalla fronte.
Per un soffio, una zaffata di vento o un semplice errore di calcolo, la palla di moschetto aveva mancato il cuore del principe del Galles.
E lui che si era occupato personalmente, come sempre, di perlustrare la campagna insieme alle guardie e garantire la sicurezza dei reali, osservava quei due disgraziati con la pelle cotta dal sole e le mani callose, sentendo in bocca già l’accusa di un sospetto. E la certezza che le maglie tra le sue spie si erano allargate in maniera sconcertante e pericolosa.
«Chi vi manda?» Il principe del Galles sbraitò la domanda a denti stretti, la mascella serrata in una dura espressione, gli occhi gelidi.
Maximilian Von Grouber raggiunse i due prigionieri, li osservò a lungo, poi alzò lo sguardo verso di lui. Lawrence sentì la pelle squarciarsi sotto l’accusa palese che lesse negli occhi dell’altro.
«Rispondete.» Sibilò ancora il principe.
I due rimasero muti e Von Grouber, aiutato da una guardia, iniziò a perquisirli, fino a quando tra la stoffa sudicia dei calzoni di uno dei due, non comparve un biglietto.
Lawrence raggiunse Maximilian e allungò una mano, perentorio e severo, per essere subito messo a parte di ciò che vi era scritto. Nella mente gli passò l’immagine di Hans Schum, l’agenda ritrovata da Lewis e già ridotta in cenere, ma nonostante la sua proverbiale freddezza, le membra furono avvolte dalla paura.
Von Grouber non gli diede retta, al contrario, passò il biglietto ad Augusto. «Maestà, purtroppo è proprio come mi era stato detto.»
E il principe lo guardò con sorpresa, delusione e meraviglia. «Duca, mi deludete.…» Con la voce rotta dall’emozione, Augusto chiamò Von Grouber. «Conte, arrestate quest’uomo per aver mandato questi due bifolchi a uccidermi.»
Lawrence rise appena, scosse il capo. «Qualunque cosa vi sia scritta su quel pezzo di carta, se fossi davvero io il mandante, non avreste di certo trovato una prova tanto eloquente.»
Augusto strinse appena le spalle. «Ma purtroppo non posso negare l’evidenza dei fatti.»
E si vide afferrare dalle guardie, con Marielene immobile, pallida, e Nora che riemergeva dal bosco, gli occhi più grigi del cielo sopra le loro teste.