Capitolo 21
La barca si era appena lasciata alle spalle il caotico London Bridge
e scivolava, elegante, tra le innumerevoli imbarcazioni che fluttuavano sul Tamigi.
Coperto da un pesante mantello che lo riparava dagli sguardi dei curiosi, Lawrence Hawk scrutava le mura spesse e merlate che si stagliavano contro il cielo appena velato di nuvole.
La Torre di Londra avanzava verso di lui, custode di ricchezze, di fantasmi e di sangue, che nel corso dei secoli aveva bagnato il prato di fronte alla Torre di Beauchamp, dove era diretto.
L’imbarcazione scivolò ancora con un gorgoglio e si avvicinò tetra alle mura, immerse nelle acque gonfie e torbide del fiume. La prua che puntava verso il cancello di ferro.
«Mi ritenete così pericoloso?» Per la prima volta in quel viaggio silenzioso iniziato a Hampton Court
, Lawrence rivolse la parola all’uomo serio accanto a lui.
Maximilian Von Grouber scostò appena la tesa del capello per mostrare il viso magro e spigoloso, gli occhi scuri e penetranti fissi sul mastodontico cancello che li attendeva.
«Un viaggio a cavallo è pericoloso, ricco d’insidie. La via del fiume è sempre la più veloce. Conoscete meglio di me il motivo che si cela dietro a questa porta.»
Una guardia diede una voce all’altra sopra i merli e, qualche istante dopo, il cancello iniziò ad aprirsi con un lento e sinistro cigolio di ferro che girava sui cardini e sciabordio di acqua smossa.
«Per evitare di trasportare i prigionieri tra il caos di Londra, rischiando imboscate e tentativi di fuga» rispose, incapace di staccare gli occhi dal ferro che fendeva l’acqua.
«E considerando le vostre abilità e le vostre spie, per me questa era la via più veloce.»
«E la più umiliante.» Lawrence mantenne un sorriso indifferente, quando l’imbarcazione transitò sotto l’arco e varcò la soglia dell’infame Porta dei Traditori. Numerosi, illustri prigionieri erano entrati nella Torre di Londra da quel varco, per poi perdere la testa sul prato all’interno. Anna Bolena, Tommaso Moro, vi erano entrati per non uscirne. Osservò i mattoni ingrigiti dal tempo scivolare sopra di lui e, con un sospiro, si fece forza pensando che molti altri prigionieri erano usciti vivi da quel soggiorno, prima fra tutti la regina Elisabetta, cui era toccato un destino decisamente migliore di quello riservato alla madre.
«Conte.» La sua voce era seria e riecheggiò, sinistra, sotto l’arco. «Credete davvero che possa aver attentato alla vita del principe?»
L’imbarcazione si fermò e il Connestabile venne loro incontro con la faccia curiosa, in attesa di scoprire l’identità del nuovo ospite.
«Credo a ciò che ho visto, duca. Eseguo ciò che mi viene ordinato.»
Lawrence si abbassò il cappuccio mentre venivano illustrate le sue accuse al Connestabile che perse in un istante il colore dal viso, trovandosi nella strana situazione di dover accogliere da prigioniero colui che, fino al giorno prima, gli riempiva le celle.
«Solo un cieco non può vedere il complotto ordito ai miei danni.» Mise lo stivale sul suolo della Torre. «Se volevate vendicarvi, avete preso la via più stupida, Von Grouber. Così facendo mettete in pericolo il re, il principe e il regno.»
Camminarono in silenzio, gli stivali risuonavano sull’acciottolato, tra il gracchiare dei corvi reali che osservavano l’arrivo del nuovo prigioniero. Quei volatili dalle piume lucenti e scuri, gli occhi piccoli e il becco affilato, erano lì a custodire il destino della corona inglese.
Arrivarono in vista della Torre di Beauchamp, con le trifore che s’aprivano nella facciata, il prato tristemente noto per le esecuzioni e la cappella di S. Pietro in Vincula che si ergeva accanto.
«Se pensate che sia vendetta, duca, mi conoscete poco. So perché siete qui. E se siete innocente, non avete nulla da temere.»
Ma Lawrence sapeva di non essere innocente. Complotto o no, ciò che nascondeva rischiava di farlo inginocchiare su quel prato. Gli parve di sentire l’ascia fendere l’aria. Il vento che soffiava tra le mura produceva un gioco di bisbigli, eco lontana dei fantasmi che gli parve di sentire tutto intorno.
Entrò nella torre e scambiò un muto sguardo con le vetrate della cappella. Immaginò i volti pallidi ed esangui di coloro che l’avevano preceduto e si rese conto di essere pietrificato dalla paura, sentimento che da troppo tempo aveva imparato a dissimulare.
Il Tamigi ondeggiava gonfio e torbido intorno allo scafo della Lahk’ is mire.
Il pilota inglese manovrava il timone con attenzione. Nulla era più infido del gigantesco porto di Londra, trafficato da decine e decine di velieri di ogni tipo e dimensione.
James Skyrm alzò la testa verso il profilo del London Bridge
che spuntava tra le velature delle altre imbarcazioni. Il vento gli sferzava il viso, un caldo e umido saluto della città da cui
mancava ormai da cinque mesi.
«Ancora poco e getteremo l’ancora» annunciò al suo ospite, la voce grossa per sovrastare la caciara infernale dei marinai che tutto attorno, dagli alberi vicini, si gridavano ordini e masticavano imprecazioni. Molti sguardi si erano puntati sulla stravagante imbarcazione, dallo scafo colorato e decorato con oro cesellato.
Abbass Kareem Is’mail voltò appena la testa brunita, il turbante, di un giallo sgargiante, era un contrasto netto con il consueto grigiore del tempo londinese. Sembrava contrariato dal clima umido e fece una smorfia che a Skyrm parve un’imitazione mal riuscita di un sorriso cordiale.
«Quante navi e quanta gente» borbottò il primogenito del sultano di Mulay, gli occhi scuri puntati a osservare le case dell’unico ponte di Londra e l’immenso traffico di carrozze e passanti che l’ingombrava.
«Siete in uno dei porti più grandi del mondo, principe.» Skyrm si mise in bocca una presa di tabacco, l’orgoglio di appartenere a un impero in espansione, in fondo, albergava anche nel suo cuore di marinaio avvezzo ai risvolti più bui delle guerre combattute in onore del commercio e della conquista di nuovi territori. Si spostò la benda sull’occhio cavo, ultimo tributo donato alla nazione, e tornò a occuparsi delle operazioni di attracco.
Qualche ora dopo, accompagnava il principe arabo e il suo seguito di uomini in turbante tra le affollate strade di una Londra che gli parve più agitata del solito. Gli uffici del porto erano un andirivieni di avvocati e impiegati, le facce scure, sottobraccio decine di carte. Agli angoli c’erano numerosi capannelli di persone. Parole grosse volavano con rabbia e frustrazione.
Un ragazzino scalzo, inzaccherato di polvere e con un berretto di sbieco in testa, lo avvicinò per proporgli l’acquisto di una gazzetta. Skyrm gli fece scivolare in mano gli scellini e spiegò il giornale che profumava ancora d’inchiostro.
Il titolo, gigante, risaltava sulla carta giallognola.
“Precipitano le azioni della Compagnia dei Mari del Sud
”. Seguiva una spiegazione più dettagliata. “Le azioni dopo il picco di 1050 Sterline valgono ora solo 600 e la caduta non sembra volersi arrestare.»
Skyrm sputò il tabacco con disprezzo. Stupidi, pensò. Erano anni che diceva che quella compagnia non fosse altro che una truffa ben architettata. Nessuna delle promesse che aveva millantato si era avverata, eppure tutti si erano lanciati sulle azioni, nella vana speranza di intascare guadagni sempre più cospicui.
Rifletté un attimo sulle implicazioni che poteva avere un disastro finanziario di quel livello, e
proseguì la sua camminata insieme al principe arabo. Gli occhi attirati dal profilo della Torre di Londra che si ergeva tra i palazzi, minacciosa e austera come sempre. Una visione che gli provocò un assurdo brivido d’inquietudine.
Quasi un cattivo presagio.
Gli occhi di Nora erano puntati, immobili, verso il vuoto, a rincorrere una vita che scorreva troppo veloce. Si sentiva impotente, tra le mani un segreto che valeva la salvezza del padre. Tuttavia, svelarlo poteva accelerare la sua dipartita.
Alla madre era stato ordinato di rimanere a Hawk’s House
, lei invece, era stata segregata tra le mura del palazzo di St. James.
Nella testa ronzavano centinaia di preoccupazioni, l’assenza di Lewis che batteva il tempo contro al petto. La rabbia e l’angoscia per i sentimenti contrastanti provati per Lorenzo, e la spasmodica ricerca di una via d’uscita.
L’uscio si aprì con decisione. Fremette. Sapeva che di lì a poco sarebbero iniziati dei lunghi colloqui con gli avvocati del re, per scoprire i più infidi segreti della famiglia Hawk. Strinse le labbra, non sapeva se avrebbe avuto la forza di tenere testa a quegli interrogatori senza far trapelare nulla di ciò che sapeva.
Ma non comparve nessun emissario del re. Solo Colonna, vestito con un elegante abito amaranto, i calzoni chiari che gli fasciavano i muscoli delle cosce, il bastone da passeggio nella mano e uno sguardo penetrante che le fermò il cuore in petto.
«Voi!» Ringhiò. «Che cosa volete? Non vi basta torturarmi con le vostre minacce?»
Gli occhi di Nora fiammeggiavano, liquidi, tremolanti sotto l’angoscia.
Lorenzo chiuse la porta, girando la chiave. Mantenne un sorriso spavaldo, quasi crudele, nel tentativo di intimorire la ragazza che gli stava di fronte. La raggiunse, i passi attutiti dal morbido tappeto, e continuò a guardare quella donna, la cui bellezza riusciva a confondere anche l’animo più integerrimo.
Le iridi castane assumevano colorazioni di un verde chiaro sotto ai raggi che filtravano dalla finestra e il seno, costretto nel corpetto di seta azzurra, si alzava veloce, agitato. Un richiamo irresistibile che cancellò, almeno per un istante, il motivo della sua visita.
«Vostro padre rischia il patibolo.» Esordì, raggiungendola. Aggirò la poltrona sulla quale era seduta, afferrò lo schienale, e gustò la visuale che quella posizione gli offriva.
«Siete venuto per ripetermi cose ovvie, Colonna?» gli rispose, con astio.
«No.» Lorenzo deglutì, insicuro. Sulla punta della lingua aveva le domande da porre a Nora. Le minacce per scoprire se era a conoscenza di quel dannato segreto. Ma la sua bocca diede voce a tutt’altro tipo d’idee. «Mi mancate.»
Nora gli rise in faccia. «Che cosa fate, adesso? Tentate di rabbonirmi con il vostro stupido corteggiamento?» Sussultò, indignata. Lasciò la poltrona, le pieghe della stoffa che frusciavano, i riccioli morbidi si adagiarono lungo il viso rosso di rabbia. «Siete complice nel complotto che porterà tutta la mia famiglia alla rovina. Mi tenete la bocca chiusa e pretendete anche di mantenere la confidenza di un tempo?» Serrò le labbra in una fessura crudele. «Mi fate ribrezzo. Non vedo l’ora di vedervi penzolare da una corda a Tyburn!»
Nora tremava. Gli occhi induriti dall’odio, ma le gote arrossate dall’imbarazzo di un desiderio che faticava a tenere nascosto.
Rimase in silenzio e la osservò. Tutta. Dalla punta della piccola scarpa in tinta, fino al nastro rosso che faceva capolino tra i ricci chiari. Posò lo sguardo sulle labbra appena schiuse. E la raggiunse. Senza darle il tempo di reagire, le afferrò una spalla e la spinse contro la colonna del baldacchino. Lei gemette per il contatto con il legno, i muscoli si tesero, il respiro divenne agitato.
Il seno premeva contro il petto, il calore di quel corpo ingenuo attizzava ogni fibra del suo essere. In trappola, sconvolta e confusa, Nora abbassò lo sguardo e gli sfiorò il viso con l’acconciatura, stuzzicandolo con il profumo di lavanda.
«S
ono consapevole di essere un bastardo ai vostri occhi, ma…»
Non concluse la frase, non sapeva come farlo. Ogni certezza traballava accanto a quella donna. Nessuno sapeva che Nora lo aveva scoperto. La minacciava per puro istinto di sopravvivenza. E tutto ciò che voleva, in quel momento, era amarla, senza rendere conto a nessuno. Un maledetto gioco d’intrigo, un corteggiamento per introdursi nell’intimità della famiglia più importante d’Inghilterra, si era rivelato una lama a doppio taglio. Un’imboscata che l’aveva colto del tutto impreparato.
Le afferrò il mento con le dita e la costrinse ad alzare il volto. Nora lottò per non guardarlo in faccia, ma alla fine le iridi fissarono le sue con un misto di desiderio e paura.
«Lasciatemi, Lorenzo. Io vi odio…» Ma non vi era convinzione nella voce.
«Lo so bene, Nora.»
«E allora che cosa diavolo volete da me?» Si divincolò dalla sua presa e trovò rifugio contro lo stipite della finestra. «Continuate a minacciarmi! Ma non vi basta. Volete anche umiliarmi?» Frenò a stento le lacrime.
La raggiunse e stavolta non si trattenne. La premette contro il muro e si prese la sua bocca con forza, nonostante le proteste. Ne cercò la lingua con prepotenza, fino a farla cedere, fin quando non la sentì adagiarsi contro la parete.
«Quindi è questo che volete?» gli bisbigliò con il respiro corto.
«Vi potrà sembrare assurdo, Nora. Questo lo so. Vi ho corteggiato con l’intento di manipolarvi e minacciarvi, ma vi assicuro che vi desidero. Che vi penso ogni notte.»
Gli rise in faccia. «E dovrei credervi? Penso invece che vogliate solo prendervi il vostro premio!»
Il respiro di Nora era sempre più agitato. Il corpo era in fiamme, con le labbra che ancora pulsavano per il bacio vorace, per quelle braccia forti e quel viso appena ricoperto di barba così bello da lasciarla senza fiato.
Il cuore era in tumulto, sospeso in un’emozione che dosava, in maniera perfetta e letale, odio e desiderio. La voglia di graffiare la pelle, di urlare e di schiaffeggiarlo per l’inganno, si mischiavano all’assurdo desiderio di sentire quei polpastrelli sulla punta del seno o introdursi sotto la gonna.
L’amore per quell’italiano era ancora vivo nella sua anima. Rabbia e pericolo sembravano troppo deboli per scalfirlo.
C’erano sensazioni che esulavano dalla mente, dalla ragione. Erano profonde e inevitabili, s’insinuavano nel corpo e strisciavano nelle vene. E parevano annullare ogni cosa.
Un raggio di sole filtrò dalla finestra. Una lama di luce che brillò fulgida tra i loro sguardi, e sospese ogni recriminazione.
Gli occhi di Lorenzo risplendevano di un sentimento puro e avvolgente. Nora inclinò la testa verso di lui, e scacciò bisbigli lontani di un pericolo, di un odio che l’aveva tenuta sveglia per l’intera notte precedente. Le loro labbra si unirono di nuovo. Le braccia si fusero in un abbraccio quasi violento, urgente.
Inevitabile come il destino.
Lorenzo la distese sul letto e le abbassò la scollatura con impeto. La delicatezza era sparita, nel suo tocco c’era la stessa rabbia che le faceva battere il cuore. Il furore per la consapevolezza di appartenere al nemico, di sapersi divisi in una guerra a cui non potevano sottrarsi, eppure inevitabilmente legati dai loro corpi che parevano intendersi alla perfezione.
Le labbra di Lorenzo le stuzzicarono il capezzolo, e trattenne un grido a mezze labbra mentre le succhiava la pelle morbida, per poi intimare alle sue gambe di schiudersi.
Aveva immaginato spesso la prima volta con un uomo, delicatezza, amore, lentezza erano le parole che si era scolpita nella mente. Ma non vi era nulla di tutto questo.
C’erano fretta, sudore e paura che la facevano tendere ai tocchi di Lorenzo con estrema disinvoltura. Le dita le risalirono la coscia. Entrarono arroganti e le strapparono un sospiro. Si mossero, mentre quegli occhi scuri le saggiavano i seni esposti e fiorenti, la bruciavano, la portavano al limite della perdizione.
Tornò a baciarla con foga, la bocca, il collo, di nuovo i seni. Le alzò le gambe, le fece aderire intorno al bacino e Nora puntò gli occhi sui calzoni, gonfi di un’eccitazione di cui lei era l’unica artefice.
Quella consapevolezza le tese i muscoli sotto l’ennesimo, sconcertante brivido che le attraversò la schiena. Chiuse gli occhi, la stoffa scivolava dalle cosce tornite di lui, la presa sulle sue gambe si faceva pressante e vorace.
La pelle aderì contro l’inguine di Lorenzo, gonne e sottana le solleticarono le natiche, insieme alle coperte del letto.
E ci fu dolore, vivo, pulsante. S’impadronì del suo ventre e risalì lungo schiena e sterno. Un’onda spossante, che risuonò in ogni muscolo del corpo. E il dolore proseguì, si trasformò in rabbia che le fece chiudere i polpastrelli attorno agli avambracci di Lorenzo.
L’odiava e l’amava, lo detestava e lo desiderava e ogni contraddizione dei suoi sentimenti si fuse in quelle spinte a cui il suo bacino rispondeva sempre più audace. Il calore umido del sangue scivolava lungo le cosce, e quel contatto le strappò un singhiozzo, nella certezza di avergli donato la cosa più preziosa che aveva al mondo.
Aprì la bocca, incapace di resistere, persa, eppure così viva, fusa con il profumo penetrante dell’uomo sopra di lei e la consapevolezza di essere diventata donna.
Lorenzo gemette, un ultimo vigoroso affondo, e si adagiò contro di lei. Un fulgido attimo di piacere che l’aveva attraversata come un fulmine, per illuminare la certezza ignorata fino a quel momento. Il motivo per cui aveva ceduto così facilmente al ricatto dell’uomo che la stringeva.
Era prigioniera tra un’incudine crudele, tra l’amore e la famiglia.
Denunciare Lorenzo voleva dire condannarlo a morte. Era solo questo che l’aveva trattenuta dal trovare un modo per rivelare il complotto ai danni del padre.
Sfinita, con i riccioli appiccicati al volto, lasciò Lorenzo accarezzare la sua pelle ancora fremente per l’amplesso, e giurò a se stessa che avrebbe trovato un modo per salvare tutti quanti.