Capitolo 22
Lawrence Hawk venne fatto sedere. Avvertì un brivido di freddo attraversargli la sola camicia di cotone che indossava sui calzoni.
C’era uno strano silenzio. Le pareti annerite dal fumo e dall’umidità salivano alte fino al soffitto a volta. Un abbraccio carico di sospiri di dolore e di morte, come se i mattoni fossero impregnati delle anime di coloro che lì erano stati interrogati.
Gli avvocati reali stavano intorno, austeri. Maximilian Von Grouber assisteva in disparte.
Uno degli uomini di legge agitò davanti a lui un foglio. «Questo è l’ordine del principe.» Lo lasciò scorrere sul tavolo, affinché potesse leggere. La grafia di Giorgio Augusto era inconfondibile.
Che lievi torture vengano utilizzate sull’arrestato, e che vengano perciò incrementate fino alle peggiori, al fine di carpire i segreti di questo complotto
.
Sospirò appena. «Nella politica i ruoli si ribaltano in fretta» mormorò. Lo disse a se stesso e a quel padre a cui aveva promesso di essere sempre un fedele servitore del regno. Una frase per convincersi a non cedere. Ma le gambe stavano cedendo, invece. Tremanti, di fronte all’umiliazione.
«Se confessate, nessuno strumento di tortura verrà utilizzato su di voi» disse il procuratore reale.
Il boia srotolò l’involucro di cuoio sul tavolo. Pinze per strappare i denti, morse, mazze ferrate. Deglutì, e pensò a tutti i prigionieri che si erano seduti su quella sedia mandati lì, in quel sotterraneo umido, da un suo ordine. Era una specie di vendetta, come se le anime di quei poveretti avessero orchestrato tutto per fargli vivere quel momento intenso e devastante.
«Non ho nulla da confessare, mi proclamo innocente» disse, deciso.
«Dunque, procediamo» comandò il procuratore.
Lo tirarono su, trascinandolo sul pavimento annerito, e lo portarono sotto uno dei ganci. Con uno strattone gli alzarono le braccia legate e lo appesero.
I muscoli tesi, gli occhi insopportabilmente lucidi.
L’aiutante del boia gli tolse la camicia. Rimase a torso nudo a fremere di sdegno, mentre
Thompson prese una pinza.
Il ferro sostò davanti alla sua bocca, gli sfiorò le labbra. Sgranò gli occhi, mentre l’aiutante del boia gli infilava le dita grassocce tra la bocca. Serrò le mascelle in un istintivo gesto di difesa. Le unghie graffiavano la pelle, stridevano contro i denti chiusi. E premettero con forza fino a ottenere una fessura in cui s’infilò la pinza.
Lawrence mugolò, le dita estranee spingevano e allargavano, e infine la pinza catturò uno dei molari.
Il boia teneva fermo il suo dente in una stretta di ferro e muscoli che prometteva dolore e sangue.
Chiuse gli occhi, con il cuore in tumulto nel petto, in attesa di sentire la lacerazione, il momento atroce in cui il dente sarebbe stato strappato dalla sede.
Avvenne tutto così in fretta, in maniera dolorosa e selvaggia che Lawrence finì per non rendersene conto. Aveva l’assurda sensazione di non trovarsi più nel suo corpo, ma fuori di esso, seduto a osservare una delle tante spie nemiche interrogate in passato.
Un urlo di dolore.
Un fiotto di sangue gli uscì dalla bocca e il cuore riemerse prepotente dall’anfratto in cui si era nascosto, per pulsare, forsennato, nel centro del petto e smorzargli il respiro. Osservò mastro Thompson che lo fissava, la pinza e il molare sradicato che gocciolava sangue sul pavimento. Si rese conto di essere esausto. Sfinito da quella prima tortura.
E di denti, nella sua bocca, ce n’erano ancora parecchi.
Ci furono altre domande a cui rispose di essere innocente. Il boia tornò ad avvicinarsi alla sua bocca. Un rito che si ripeté per la seconda volta.
A quel punto, uno degli avvocati fece allontanare Thompson e lo raggiunse, guardandolo negli occhi. «Finirò qui la seduta» gli bisbigliò, prima di ripetere ad alta voce. «Allora, confessate! Chi sono i vostri complici? Perché avete attentato alla vita del principe?» Tornò ad abbassare la voce. «Verrò nella vostra cella a chiedervi di confessarmi dove avete nascosto il figlio segreto di Sofia Dorotea. Fatelo e sarete salvo.»
Lawrence sgranò gli occhi. Lo sapevano. Nella mente si affollarono decine di domande. Il pericolo di quella certezza era molto più infido della tortura che stava subendo.
«No.» Fu una risposta secca e decisa. La voce non aveva vacillato, neppure sotto la fitta di dolore che si era irradiata lungo tutta la mascella.
L’avvocato capì, e ciò nonostante, ordinò di concludere lì la seduta.
Rimase a fissare la piccola figura di quell’uomo, consapevole che mastro Thompson era l’ultimo dei suoi problemi.
Douglas strinse le redini e abbassò la tesa del cappello per proteggersi dal riverbero del sole. Andavano al trotto e seguivano la strada per Londra.
Aggrottò le sopracciglia, un po’ sorpreso dalla strana situazione in cui si trovava. Solo qualche giorno prima, l’uomo accanto a lui aveva incarnato il suo unico obiettivo di vita. Immaginare la sua morte era stato il palliativo con cui aveva curato le proprie perdite: Mary, Aileen, l’umiliazione di essere un fuorilegge, guardato con ribrezzo dai propri compagni a causa della cicatrice che gli attraversava il volto.
E invece riusciva a starsene lì a chiacchierare con lui, con il cuore calmo e il sole che gli danzava sulla pelle, come se nulla fosse mai accaduto.
Scosse appena il capo, riconoscendo che, nonostante tutte le orribili cose che aveva commesso in vita sua, non era ancora riuscito a perdere il cuore che gli batteva in petto e Aileen, quella sorella d’affetto e non di carne, rimaneva il suo buon motivo per vivere, per combattere e per siglare una tregua con Lewis.
Lo vide stringere le mani della duchessa. «Sei sicuro che portarla dai Johnson sia una buona idea?» gli chiese. «Non credi che li tengano d’occhio, visto che sono vostri amici?»
«Sì, ci ho pensato. Per ora, tuttavia, non mi resta che tornare in città e cercare un posto sicuro per lei.» Fece una smorfia. Voltò gli occhi verso il bosco, attento.
«Qualcosa non va?»
Lewis non gli rispose. Fissò le foglie davanti a lui e rallentò l’andatura di Ares, lasciò vagare gli occhi sul viso di Douglas e sentì una fitta al centro del petto. Il dubbio su quella tregua strisciava maligno dentro la testa.
Tornò a puntare l’attenzione verso il bosco che stavano costeggiando, là tra i buchi dei rami, dove il sole faticava a entrare con la sua luce. Gli uccelli volavano da una fronda all’altra, con un allegro cinguettio e il vento delicato faceva fluttuare le foglie, producendo uno scricchiolio confusionario.
Ares alzò la testa e l’abbassò, in un tintinnare di finimenti. Gli comandò appena di spostarsi verso sinistra e il cavallo mosse gli zoccoli per avvicinarlo di più al delimitare del bosco. Sfilò il moschetto da dietro la sella e se lo portò in grembo.
Leila aspettava spiegazioni, e le fece un lieve cenno per intimarle di scendere dal cavallo e
stare indietro. E poi lo percepì: un fruscio più forte del solito, un’ombra più scura che si era mossa all’interno del bosco.
«Giù!» gridò, mentre saltava dalla sella e dava una pacca al manto sudato di Ares. Il cavallo corse in avanti e una palla di moschetto andò a conficcarsi a un soffio dai suoi stivali.
Si acquattò sul terreno, il moschetto tra le mani. «Non ne sai niente, tu?» sibilò con diffidenza a Douglas.
«No, sono stramaledette giubbe rosse!» Una mano dello scozzese gli indicò le giacche vermiglie uscire dal bosco.
«Maledizione!»
«Duca di Groundale!» Gridò un ufficiale. «Siamo qui per arrestarvi!»
Lo conosceva. Per qualche tempo quell’uomo era stato nel suo reggimento. Sapeva che era sposato, con una famiglia. Chiuse gli occhi, poi li riaprì. Alzò appena il busto e poggiò il calcio dell’arma contro la spalla. Mise il dito sul grilletto.
L’ufficiale si accasciò a terra con una ferita alla scapola che non doveva essere mortale, o almeno così si augurò. Douglas sparò a un altro dragone, e Lewis fu felice di non averlo visto in faccia.
«Merda!» imprecò ancora, e l’odio per i giacobiti e il complotto in cui era stato coinvolto tornò ad attraversargli il corpo, e per un istante Mackay divenne un bersaglio accattivante. Aileen o no, era stato comunque uno degli artefici di quel che stava succedendo. Come poteva non dubitare?
Evitò un altro colpo di moschetto. Si trattava solo di una piccola squadra di perlustrazione. Cinque uomini in tutto, di cui due fuori gioco.
Rotolò sul terreno, afferrò l’elsa della spada e raggiunse il soldato più vicino, sputò un filo d’erba che gli si era infilato in bocca e iniziò a menar fendenti. Con due colpi veloci e un calcio al piede, riuscì a ottenere la meglio, ma un secondo soldato infilò la spada nella sua difesa, costringendolo a divincolare l’arma dal primo.
Con un colpo deciso riuscì ad allontanare il nuovo venuto e lo fece cadere a terra. Il primo ne approfittò e un fendente mise a dura prova il suo equilibro, ma fu veloce a riprendere la stabilità. Con un ringhio di rabbia, dimenticò che davanti a lui c’erano soldati della corona che stavano solo facendo il loro dovere: eseguivano gli ordini, tentavano di catturare un traditore.
Strinse l’elsa e infilò la lama nella spalla, ma l’uomo tentò di colpirlo al cuore, e non ebbe scelta. Stavolta la spada bucò la gola con un fiotto di sangue che gli imbrattò il volto. Cacciò la lama fuori dalla carne e con un gesto fulmineo parò l’assalto del secondo uomo e gli infilzò il
petto, sperando di essere riuscito a evitare organi vitali.
Douglas intanto era impegnato in uno scontro con l’ultimo dragone rimasto, sembrava cavarsela. Così girò gli occhi, il respiro corto e i muscoli accaldati, a osservare il prato intorno.
Leila lottava con un dragone rimasto nascosto nel bosco. Li raggiunse e si avventò sul soldato, uccidendolo.
L’uomo si accasciò a terra, dopo aver lasciato una scia di sangue sul vestito della moglie che lo fissava, ansante. Gli occhi preoccupati.
«è
tutto a posto.» La rassicurò, prima di abbracciarla.
Rimasero stretti così, con i cuori che battevano all’impazzata sotto l’eccitazione dello scontro. Diede uno sguardo ai corpi dei soldati morti e imprecò ancora una volta contro il destino.
I lamenti di Douglas gli giunsero alle orecchie. Sciolse Leila dall’abbraccio e corsero verso di lui. Mackay rantolava e strisciava lungo il prato.
«Merda.» Sbottò, e lo raggiunse. «Ti sei fatto ammazzare?» lo rimbrottò, irritato. «Se crepi come facciamo a prendere nel sacco i giacobiti?»
Douglas mugolò, si girò supino e gli mostrò così la pozza rossa che si allargava sopra la spalla. «Stai zitto! E fai qualcosa, ho la scapola in fiamme» biascicò, un rivolo di saliva gli colò lungo il lato della bocca.
«Sei proprio uno stronzo.» Lewis gli strappò la camicia di dosso e osservò la ferita. «Spero per te che non sia nulla di grave, perché non puoi lasciarmi nella merda così, proprio adesso che avevamo fatto una tregua.» Sospirò. «Leila, dammi una mano. Strappa altra stoffa.» Ordinò.
La moglie, seppur scossa da tutto quel sangue, non si tirò indietro e stracciò dall’indumento di Douglas altre strisce.
Lewis ne prese una e la infilò nella carne lacerata che pulsava e continuava a buttare fuori fiotti di sangue. Immerse la stoffa nel buco e l’esile barriera iniziò a inzupparsi, ma fermò, almeno per il momento, la cascata vermiglia che si riversava sul torace di Mackay. Prese un altro brandello, mentre Leila cercava di tamponare la fronte madida di sudore.
«
Non ti dovresti dare tutta questa pena, Lewis.» Douglas alzò appena gli occhi per cercare i suoi. «A Messina non ho avuto pietà di te, nonostante fossi a terra e appena cosciente, ti ho ferito, ti ho quasi squartato il petto.» Tossì con un rantolo umido che non faceva presagire nulla di buono.
Lewis sbuffò, agitato. «Sei stato gentile a ferirmi al petto, avresti potuto rendermi il favore.»
Raggiunse il dragone morto e solo allora si ricordò degli altri due soldati feriti. Diavolo! Non aveva il tempo di medicarli tutti e dannazione, avevano più diritto loro di Douglas, in fondo.
Strappò la cintura della spada al soldato morto e tornò da Mackay. Con l’aiuto di Leila, gliela legarono stretta intorno alla scapola.
Douglas gli artigliò il braccio. «Ti ringrazio.»
Negli occhi del ferito brillava una sincerità familiare. La stessa che li aveva legati un tempo, e portati a combattere l’uno a fianco dell’altro come in quel momento.
Quella piccola scheggia di amicizia ritrovata, fece battere con un brivido il suo cuore. Gli sorrise, imbarazzato. «Sei un bastardo, l’ho sempre detto.»
Finirono di sistemargli la ferita, la fasciarono e gli assicurarono il braccio al collo.
Lewis andò a controllare i dragoni feriti. Due erano già spirati, il terzo aveva una ferita che portava con sé qualche speranza, ma era un peso che non si poteva accollare nell’estrema situazione in cui era finito. Lo medicarono come meglio poterono e lo lasciarono all’ombra della foresta, accanto alla strada, con dell’acqua e qualche galletta, sperando nel buon cuore di qualche contadino.
Leila montò in sella a uno dei cavalli dei soldati e tutti e tre, sporchi di sangue, sudore e terra, fissarono la strada che si snodava lungo i prati e i pendii.
Il profumo del fieno e di campagna rendeva lo scenario intorno a loro dolce e accattivante. Ma quel serpente che si perdeva all’orizzonte svaniva sotto la nebbia dell’incertezza.
Schioccò le labbra, cercando di essere ottimista. Ares aprì il gruppo, muovendo gli zoccoli verso la resa dei conti.
«Mi sembra di conoscervi da una vita.» Lawrence alzò il busto con enorme fatica. La lingua che strusciava, testarda, contro il vuoto dei molari e la testa afflitta dal dolore. Le dita dei piedi erano gonfie e fitte continue percorrevano i muscoli fino ad annebbiargli la vista. Il suo aguzzino era seduto di fronte a lui, il viso gentile, quasi rammaricato.
«Sapete bene che tra torturato e torturatore si crea un legame intimo.» Paul Bear gli fece un sorriso.
Sospirò, appoggiando con fatica la schiena al muro, e lasciò vagare gli occhi stanchi lungo le pareti della cella. Arredata con gusto raffinato, era un appartamento di tutto rispetto, con libri, abiti, coperte per il freddo e un tavolo posto sotto a una trifora per godere della luce migliore.
La nobiltà poteva permettersi celle che non rassomigliavano a prigioni, poteva portarsi gli
agi fin sotto al patibolo, e spesso riusciva a evitare le torture e gli interrogatori più duri. Ma essere uno degli uomini più potenti del regno non lo aveva salvato dalla sofferenza.
«Prima o poi si accorgeranno che qui nella Torre ci sono spie nemiche. E quando il principe lo saprà…» mormorò appena, i punti in cui le dita dei piedi erano state prese a martellate dolevano, bruciavano, straziavano.
«Ha problemi molto più grandi di cui occuparsi, ora.»
«La Compagnia dei Mari del Sud. Ridurrà sul lastrico l’intera Inghilterra. E sarà facile far apparire gli Stuart come dei salvatori.»
«Già. Avete avuto ragione a preoccuparvi molto delle sue azioni negli ultimi tempi. Ma non siete stato abbastanza furbo da agire in tempo.»
Lawrence sorrise. «Sono solo un essere umano. Non posso controllare tutto. Non posso evitare che uomini a me fedeli vengano comprati dal nemico. Ma per fregarmi, ci vuole almeno una forza simile alla mia in termini di denaro e intelligenza.» Chiuse gli occhi, e il sinistro gracchiare di un corvo penetrò le mura e si infiltrò sotto la pelle, freddo come la sensazione d’impotenza che lo pervadeva sin dal giorno in cui era stato rinchiuso.
Li riaprì con lentezza, la febbre che colorava di giallo sfocato ogni cosa. «Potreste almeno darmi la soddisfazione di dirmi quel nome. Tanto lo so che sono loro.»
Bear sporse il busto in avanti. Il viso piccolo dell’uomo fluttuava sul mare oscuro della sua sofferenza. «Voi piuttosto, fareste meglio a dirmi ciò che voglio sapere, così smettereste di soffrire.» Gli parlava con gentilezza. «Ci sono due testimoni che possono giurare di avervi visto complottare ai danni del principe. Vi accusano di aver attentato alla sua vita. E sapete meglio di me cosa vuol dire.»
Un capogiro lo fece tremare. «Alto tradimento.»
«Morirete sul patibolo. Perderete il titolo. I vostri figli, i loro eredi, vivranno nella disgrazia.»
Per un breve istante, il nome di colei che aveva protetto per tutti quegli anni, affiorò sulle labbra secche e stanche. Lettere leggere e soavi che avrebbero fatto finire almeno le torture. Una confessione che gli avrebbe riservato una morte rapida, un coltello nel cuore o un goccio di veleno. Forse persino una nuova alleanza. Qualcosa di dignitoso. O almeno era ciò che prometteva l’uomo davanti a lui.
«Sotto tortura un uomo può confessare qualsiasi cosa» mormorò sfinito.
«Non vi sto torturando da una settimana.»
Un sorriso consapevole gli passò sulle labbra. Non era quando si straziavano le carni che
si doveva estrapolare la verità al prigioniero. Ma dopo, quando dolorante e in preda alla febbre lo si lasciava in balìa del tempo. Solo, isolato con la propria anima e la paura di un nuovo tormento. E la lucidità di poter osservare la misera condizione in cui era finito.
Solo allora era possibile individuare una breccia anche dentro l’animo più coraggioso. Era quello il momento in cui emergeva la vera debolezza.
Non gli era mai piaciuto quel lato del suo mestiere. Lo detestava, e aveva avuto sempre pietà dei prigionieri sottoposti a quel trattamento.
Il nome tornò di nuovo, quasi come se un coltello avesse reciso la corazza dentro cui si nascondeva. Premeva, come sangue desideroso di fluire da una ferita.
Serrò le mascelle, forte. «Porterò tutti i miei segreti sul patibolo.»