Capitolo 24
Lawrence emerse dal suo groviglio di lenzuola e febbre, gli occhi lucidi, velati, faticavano ad abituarsi alla luce tremolante della candela che proiettava l’ombra dell’inaspettato visitatore. Con un gesto perentorio, la guardia fu allontanata e la porta richiusa con un cigolio.
Una sedia fu spostata dal tavolo e l’uomo vi si accomodò sopra. Il cappuccio discese sulle spalle con un fruscio.
«Altezza» mormorò Lawrence, incredulo.
Il principe del Galles alzò il braccio che reggeva il becco e proiettò la luce verso il suo viso. Chiuse e riaprì gli occhi, dolorante, mentre le pupille di Augusto fissavano lividi, cicatrici e sussulti.
Il principe lasciò la sedia, il fascio di luce lo seguì e calò di nuovo la penombra. Tornò poco dopo con un bicchiere colmo d’acqua e glielo porse, gli occhi attraversati da un profondo senso di colpa. «Forse ho commesso un errore.»
Lasciò scorrere l’acqua lungo la gola e assaporò il brivido fresco propagarsi lungo tutto il corpo. «Non è colpa vostra, altezza. Temo che la situazione mi sia sfuggita parecchio di mano.» Finì di bere l’acqua, infilò le mani tra le coperte per recuperare il fazzoletto. Asciugò la fronte madida. «Voi avete solo fatto ciò che ritenevate giusto. Non è colpa vostra, se sono riusciti a infiltrarsi in tutti i punti più strategici.»
«I giacobiti?»
«Sì.» Sorrise, mesto. «Ma voi questo lo avete capito, altrimenti non sareste qui.»
«Ho agito per conservare il regno, vi ho fatto arrestare, ma poi ho iniziato a sospettare e alla luce di quanto mi ha detto Von Grouber, ora capisco che siete stato messo in trappola.»
Cercò una posizione migliore, raddrizzò le spalle contro il muro. Faticava a tenere gli occhi aperti. Sentiva il fuoco vivo della febbre bruciargli i muscoli. «Fatemi indovinare, Von Grouber ha parlato con Mackay e indizi ben orchestrati hanno portato il dubbio ovunque. E sono apparso colpevole.»
Augusto mosse le spalle, in un sospiro carico di afflizione. «Proprio così. E ora l’Inghilterra è in tumulto per colpa della Compagnia. Se ci sono gli Stuart dietro tutto questo...»
«Il famoso registro.»
«Sì, eravamo convinti che lo aveste voi.»
«Per questo mi avete fatto torturare.»
Scese il silenzio mentre la candela dipingeva sulle pareti gli scenari più angoscianti e tetri per il futuro della Gran Bretagna.
«Avevo raccomandato una sola seduta, solo per mettervi nella giusta condizione di poter collaborare. Ma da quanto vedo, hanno usato una severità che ha travalicato di molto i miei ordini. Che cosa sta succedendo, Evonshire?»
Lawrence tremò. Davanti a lui c’era il futuro di tutta la nazione. La possibilità di una casata stabile, di re in grado di succedersi senza guerre civili, rivolte, tradimenti. Augusto aveva dei figli, un’eredità.
Per tutti quegli anni aveva combattuto, spiato, torturato per garantire all’uomo davanti a lui un trono su cui sedersi. Aveva sacrificato il sangue di molti uomini per il bene della Gran Bretagna. Ingaggiato una dura lotta per riuscire a unire Inghilterra e Scozia, e quasi perso una gamba sul campo di battaglia per sbaragliare i giacobiti.
E lo aveva fatto poggiando i piedi su una menzogna. Un silenzio che poteva costare caro.
La sentiva quasi la tempesta imperversare fuori le mura, i libelli contro la Compagnia dei Mari del Sud, i mercanti che strepitavano, il puzzo di bruciato di centinaia di sterline in fumo.
Si rese conto che non era più tempo di tacere. Augusto non era come Giorgio, aveva sempre confidato nella sua saggezza.
«Altezza, credo che sia giunto per me il momento di rivelarvi che cosa sta realmente succedendo. Le torture mi sono state inflitte dai giacobiti.» Tremò, dalla punta dei piedi fino all’estremità della nuca. Le labbra erano divenute pesanti, incapaci di pronunciare parola. Eppure, non aveva scelta. «Per carpirmi il mio segreto.»
Augusto sentì un guizzo farsi largo nel cuore. Uno strano freddo. Qualcosa di simile a quello che si provava in battaglia, davanti al nemico. L’assurda sensazione di trovarsi davanti al vuoto nero dell’ignoto.
Era priva di senso, dettata dagli occhi di Lawrence Hawk, che lucidi riflettevano l’esile fiamma della candela. Ombre sinistre si agitavano in quelle pupille. E la paura che vedeva sul volto di quell’uomo forgiato da battaglie e intrighi, iniziò a fargli battere il cuore in petto con furia.
Lunghe colate di cera scivolavano fino a raggrumarsi sul tavolo antico della cella. Un lento sfrigolare, che d’improvviso era diventato l’unico rumore.
«Voi avete un’altra sorella, altezza.»
Gli parve di sentire il tonfo dell’ennesima goccia sul tavolo. Un colpo secco. Un tuono che scosse l’intero suo essere.
«Sorella ?» Le sue labbra si mossero incredule.
«Sorellastra, per l’esattezza.» Evonshire abbassò gli occhi. «E suppongo che siate abbastanza intelligente da capire chi è il padre.»
Sì, lo era. Lo aveva capito. In una sola, semplice frase, anni di certezze erano diventate fumo. La strenua difesa di sua madre, l’aggrapparsi alla sicurezza di un complotto. Alla certezza che Sofia e Philip fossero stati uniti solo da parole, da un amore innocente.
Rimase immobile, mentre dalla bocca di Lawrence Hawk filtrava la confessione.
Esisteva una sorellastra, con un marchio addosso che la legava a lui. Sentì sotto ai suoi piedi un fastidioso scricchiolio, il suo intero futuro che poteva essere inghiottito nel giro di un istante.
«Per tutti questi anni, avete guardato negli occhi me e mio padre. Ci avete difeso a spada tratta dagli assurdi pettegolezzi dei giacobiti sulla mia paternità. E lo avete fatto nascondendo un simile segreto.» Aveva parlato in tono freddo e calmo.
Evonshire aveva chiuso gli occhi, la schiena che aderiva contro la parete.
Poi, furiosa, la sua bocca gli vomitò addosso una domanda che graffiava sul petto, in attesa di una risposta in grado di ridurlo in cenere. «Sono anch’io figlio di Philip?»
Gli occhi si spalancarono. «No, Augusto. La relazione con il conte iniziò molto dopo la vostra nascita, e quella della principessa.»
La calma tornò a distendergli i muscoli. Da quando aveva messo piede a Londra, era stato costretto a sentire i più infimi pettegolezzi sulla sua origine. Erano stati respinti con decisione e, a dirla tutta, non aveva mai creduto che sua madre avesse consumato carnalmente quel tradimento. Per questo aveva sempre odiato suo padre, perché era convinto che avesse punito Sofia per delle stupide lettere, per dei sospetti mai accertati.
«Ora mi è tutto chiaro. Capisco perché Königsmarck è stato ucciso e mia madre esiliata.»
Si alzò, raggiungendo una trifora. Gli ultimi raggi del sole si allungavano sul prato. Per un attimo capì le ragioni dell’uomo di fronte a lui. Aveva tradito suo padre, ma allo stesso tempo, era rimasto fedele al cuore di Sofia. Immaginò per un attimo sua madre esiliata che, come unico conforto, aveva avuto il pensiero di quella figlia, viva, serena, inconsapevole testimonianza di un amore impossibile.
Ma quando c’era di mezzo il potere, i sentimenti perdevano significato.
«Voi avete tradito la fiducia di mio padre. La mia.» Iniziò, infine, a sentire la rabbia rimestargli lo stomaco. «Avete messo in pericolo l’intera Inghilterra, il mio casato, i miei figli. Avete goduto della nostra fiducia, sapendo di averla tradita all’origine!»
Tornò a fissarlo, e sul volto del duca c’era una rassegnata consapevolezza.
«Lo so, Altezza. Ma come potevo rimanere insensibile davanti al cuore di vostra madre? Come potevo sul serio uccidere quella creatura innocente?»
Fece un passo verso il letto, pugni e mascelle serrate. «Scommetto che in questi anni avete fatto molto di peggio. Possibile che abbiate avuto remore proprio davanti a una cosa così pericolosa?»
«Dannazione, ero giovane, altezza! Mi ero guadagnato la fiducia di vostro padre per tenere d’occhio dei possibili eredi al trono, non per divenire complice di un omicida!»
Evonshire sembrava meno debole. Rabbia e sofferenza parevano avere la meglio sulla febbre e Augusto, suo malgrado, si sentì in colpa per il peso che suo padre aveva scaricato sulle spalle di quell’uomo, ma non riusciva comunque a placare la rabbia.
«Così pensate che mio padre sia solo un vile assassino?»
«Lo so che ha agito per proteggere la sua casata, ma è stato difficile sapere dell’agguato a Königsmarck e rimanere in silenzio. E poi dover ricevere la responsabilità di uccidere quel neonato. Non ne ho avuto il cuore. E ho sbagliato, lo so! Ma vi assicuro che ho protetto quel segreto con tutto me stesso. Non vedete che cosa sto patendo per proteggerlo? Ve l’ho rivelato affinché poteste avere i mezzi per difendervi! Non potrei mai lasciarvi in mezzo a una tempesta di tali proporzioni.»
Augusto sbatté con violenza il pugno sul tavolo. «E come dovrei proteggermi, sentiamo?»
«Portando al sicuro la vostra sorellastra. Sapendo quali sono le mire, non vi farete cogliere impreparato.»
Scosse il capo, si sentiva confuso, amareggiato. Tradito. In pericolo. «Vi dico io cosa farò. Mi direte il luogo in cui l’avete nascosta.»
Il tono greve con cui aveva pronunciato l’ultima frase, fece spalancare gli occhi di Evonshire. Erano gravidi di paura. «Che cosa volete fare?»
«Non fate l’ingenuo con me. Lo sapete bene.»
«È innocente!»
«Deve sparire.» La sua voce divenne gelida. «E con lei tutti coloro che conoscono questo segreto.»
La candela si spense in una voluta di fumo. Calò la penombra, tetro sipario di un’amicizia costretta a morire nel sangue.
«Non uscirete di qui, Evonshire, se non con la testa separata dal collo. Ve lo garantisco. E vi conviene dirmi dove avete nascosto la mia sorellastra, se non volete pentirvi di essere nato.»
La puzza di pesce era insopportabile, le dava la nausea e accolse con gioia l’ennesima notte che calava su Londra. Erano rimasti acquattati negli anfratti sulle rive del fiume per l’intera giornata, tra i liquami del pesce e la sporcizia, e iniziava a sentire il peso di quell’assurda fuga sulle spalle.
Davanti a lei ondeggiava il simbolo delle sue fastose origini, eppure, la principessa di Mulay era costretta a strisciare tra i bassifondi di Londra come una qualunque misera vagabonda.
Quando il buio si fece più intenso e le tende dei venditori furono abbandonate, Lewis le prese la mano e insieme uscirono lungo la strada.
Il marito scivolò guardingo all’interno di una scialuppa. La tenne per mano, per aiutarla a salire a bordo, poi le diede un lungo sguardo. «Togliti i vestiti.»
Il mondo perentorio e l’effetto seducente di quelle iridi le provocarono un piccolo fuoco sulle guance. «Non credo che sia il caso…»
«La gonna ti sarà d’impiccio.» Le rispose deciso, mentre prendeva in mano i remi.
Leila si liberò del vestito e rimase solo con la biancheria, ringraziando il cielo di non indossare i voluminosi vestiti da duchessa.
Con agilità, Lewis iniziò a far scivolare la scialuppa sul Tamigi e iniziarono ad avvicinarsi al veliero di Abbass. Un brivido di vergogna le salì lungo la gola. «Non posso presentarmi a mio fratello conciata così» borbottò indignata.
Ma il marito non le rispose, teneva gli occhi stretti, concentrati, e quando l’imbarcazione sfilò sotto il veliero di Mulay per lasciarselo alle spalle, Leila sospirò di sollievo.
Poco dopo, capì quale fosse la reale meta del loro viaggio notturno. L’imponente veliero da guerra dipinto di blu e giallo. Lewis cercò di allineare la scialuppa allo scafo, sotto a una scaletta fatta di cime che pareva sprofondare negli abissi del fiume.
«Dobbiamo arrampicarci» bisbigliò, dopo essersi messo tra le labbra un coltello.
Leila deglutì a vuoto, mentre lasciava scorrere lo sguardo lungo l’alta e imponente fiancata del veliero. Il marito afferrò la corda e iniziò a salire, agile.
Lo imitò. La cima era viscida e ruvida, ma non si fece abbattere. Non era il momento di farsi governare dalla paura. La situazione era disperata. Ringraziò Lewis per averle consigliato di liberarsi della gonna e iniziò a scalare la fiancata. Un brivido di angoscia le attraversava le membra ogni volta che saliva un gradino di quell’instabile scala. I palmi delle mani si scorticavano sotto la presa ferrea che imponeva intorno alla cima, e i piedi rischiavano di arrancare nel vuoto mentre andavano alla ricerca dello scalino successivo.
Si ritrovò presto in alto, sospesa contro la parete di un veliero imponente e le acque scure del Tamigi che sentiva fluttuare di sotto.
Lewis scavalcò la murata e le diede subito la mano. Stanca, atterrò accanto al fusto di un cannone. Quella visione le ricordò quanto detestasse le navi. Il tipico puzzo di salsedine, cime corrose e polvere da sparo, la colpì come un pugno allo stomaco, nauseabondo e vivido di ricordi.
Non ebbe, tuttavia, il tempo di rimestare il passato. Un’ombra silente e armata stava piombando su di loro.
Lewis la neutralizzò con un pugno, gli afferrò il braccio che torse dietro la schiena e gli puntò il coltello alla gola. «Ora ci porterai dal capitano. Senza fiatare, oppure ti sgozzo. Sono stato chiaro?»
La guardia del veliero inglese emise un sibilo d’assenso. Lewis ritirò il coltello che prese a puntargli contro. Si mossero veloci sulla tolda, le vele che sbatacchiavano nella brezza notturna e il molesto russare dei marinai sottocoperta.
Raggiunsero la cabina. «Capitano, ho bisogno di parlarvi.»
«Entrate, Taylor.» Il marinaio mosse la maniglia, visibilmente tremante. Lewis lo pungolò con il coltello e un istante dopo entrarono nella camera.
Li accolse un uomo dal viso abbronzato e una benda sull’occhio, intento a masticare tabacco. «Grazie Taylor, potete andare.»
Leila si accorse di aver spalancato la bocca per lo stupore, proprio come l’incredulo marinaio. Il capitano pareva non aver fatto caso al coltello minaccioso nella mano del marito.
«Andate!» ripeté l’ufficiale inglese, stavolta con un tono che non ammetteva replica.
Il povero Taylor sgattaiolò verso la porta.
«E non fate parola con nessuno di ciò che avete visto, o vi assicuro che proverete il giro di chiglia.»
Il marinaio sparì oltre l’uscio.
Un istante dopo, Skyrm abbracciava Lewis con calore. «Mi aspettavo una tua visita, dopo quello che ho sentito.» Esordì.
«Devi aiutarci, James.»
«Dimmi di cosa hai bisogno.»
«Abbiamo avuto la sfortuna di innamorarci della stessa donna.»
Henry Jacobson frenò la sua avanzata. Il bastone da passaggio affondava tra la ghiaia bianca e l’acqua della fontana emetteva un rilassante gorgoglio. Alzò gli occhi verso la maestosa statua di Zeus, prima di voltarsi verso Lorenzo Colonna, presenza poco gradita.
«Cosa siete venuto a fare qui?» Chiese, gettando uno sguardo alle sue spalle per scontrarsi con il volto scuro dell’italiano.
«A chiedervi aiuto.»
Sotto quella voce solenne, Henry decise di affrontare il rivale in amore. «Aiuto?»
Lorenzo gli prese un braccio, assottigliò gli occhi e diede uno sguardo sospettoso al giardino di casa Jacobson. «Nora è in pericolo.»
Ritirò il braccio, in un gesto istintivo di protezione da quell’uomo che per lui, da sempre, rappresentava una minaccia al suo desiderato matrimonio. «Che intendete?» La voce d’istinto si era ridotta a poco più di un sussurro.
«Ho saputo che il principe ha affidato Nora alla vostra famiglia. E se l’amate davvero, vi conviene stare attento a vostro padre.» Lorenzo parve indugiare. «Rappresenta un pericolo per Nora. Tenetelo d’occhio.» Gli occhi dell’italiano rifuggirono il suo sguardo per posarsi sulla fontana, d’improvviso pallido. «Anzi, sposatela subito. E portatela via da qui.»
Rimase un attimo in silenzio, a soppesare ogni parola pronunciata, ogni ruga d’ansia che aveva incupito il volto affascinate di fronte a lui. Davanti a un’accusa così infamante, il minimo che si poteva fare era lanciare una sfida a duello e lavare nel sangue l’ingiuria. Ma conosceva suo padre, i vizi, la lascivia che governava ogni sua azione, la rivalità con Lewis e il modo eloquente in cui aveva sempre guardato Nora. Strinse le mascelle, non aveva recriminato davanti alla decisione di Augusto. Individuò l’ombra di un pensiero impuro farsi largo nella sua mente, ma lo scacciò.
«Siete sicuro di ciò che dite, Lorenzo?»
«Sì, visconte. Amo Nora, e vi chiedo, con tutto il mio cuore, di portarla lontano da questa corte e lontano da vostro padre.» L’italiano abbassò ancora di più la voce. «Credo che sappiate in quali affari è coinvolta la vostra famiglia. E converrete con me che Nora non merita di essere travolta da tutto questo. Fatelo Henry, fuggite se necessario, ma portatela via da qui.»