Capitolo 31
Lorenzo Colonna aveva sbagliato molte cose nella vita. Con ogni probabilità, sarebbe stato meglio per lui rimanere nella casa del padre, piuttosto che partire per l’avventura.
Quando si è giovani, troppo per capire i pericoli del mondo, si è spesso preda di mentori che finiscono per plasmare la mente alle loro esigenze.
E quando si è solo poco più di un criminale di strada, e si viene salvati da un cardinale, non si sta molto a pensare su cosa sia giusto o sbagliato.
Era diventato un uomo d’arme, cresciuto come un nobile, pizzi, merletti, parole eleganti per diventare un orecchio al servizio del papato e poi, in particolare, di quei regnanti stranieri caduti in sventura.
Devoto al suo mentore, agli Stuart, si era accorto solo stando lontano da loro, che la sua devozione era legata alla salvezza, all’illusione di avere una vita per cui valesse la pena uccidere, spiare e ingannare.
Ogni certezza era svanita nel momento in cui aveva attraversato Pall Mall Street
e si era ritrovato in un vicolo affollato, al riparo da Groundale e i suoi dragoni. In quel momento, ogni giogo si era sciolto ed era rimasto solo, con la sua vita e un cuore che, a Londra, si era intestardito fino a quando non era stato necessario dargli tutte le attenzioni del caso.
Aveva avuto settimane per fuggire, mettersi al sicuro. Imbarcarsi per la Francia e ripercorrere a ritroso tutto il percorso fatto mesi prima, ritornare a Roma, chiedere perdono per il fallimento e aspettare, quieto, che il suo mentore lo puntasse verso qualcos’altro.
Invece era rimasto, e le sue abilità gli avevano permesso di camuffarsi tra il sotto strato di poveri che ricopriva i quartieri più infimi di ogni città del mondo e che permetteva da sempre, a quelli come lui, di sopravvivere nell’ombra del fango.
In silenzio, aveva ascoltato il cuore che pareva battere la stessa, incessante melodia. Come se si fosse fermato in quel pomeriggio in cui l’aveva amata. E quel battito scandiva un solo nome. Un nome senza il quale non poteva più vivere.
Pazzo, sciagurato che non era altro, aveva scavalcato ogni ostacolo pur di farle sapere che era ancora lì. Che l’amava.
E nell’ombra di quella notte incombente attendeva.
Fissò gli occhi del fantoccio legato al palo. Il fuoco lo avvolse con estrema facilità. Piccoli lapilli d’oro rosso svolazzarono nella notte, mentre la luce della pira bucava il muro grigio d’umidità che sferzava i volti dei passanti. Le goccioline d’acqua cadevano vaporose sui mantelli, gli stivali e i cappelli.
Un’atmosfera irreale. Le voci e i canti giungevano attutiti. L’eco di un altro mondo, di spiriti ebbri di euforia, di un esorcismo che tentava di estirpare il genio maligno di un vecchio tradimento e di un nuovo complotto.
L’intera Inghilterra fremeva insieme ai fuochi che divoravano le pire, che riducevano in cenere i fantocci di Guy Fawkes, lo spettro del papismo e la tetra prospettiva di una guerra civile.
Gli Hawk parevano aver sistemato ogni cosa, ma troppe erano le mire su quella nazione, i pretendenti non si sarebbero arresi così facilmente, protetti com’erano dai soldi francesi e benedetti dal Papa. I londinesi cantavano e bevevano, ignari di quel che strisciava lungo i muri, che si rifletteva, oscuro, sulla superficie placida e fredda del Tamigi. In cuor suo sapeva e forse temeva, per tutta quella gente in festa, che nel futuro si annidassero altre guerre. Altri sanguinosi tributi.
Passò accanto all’ennesimo fuoco. La cupola di St. Paul
che emergeva dall’oscurità. Fissò i bambini cantare e, per un attimo, incrociò gli occhi con l’anonimo pupazzo di paglia e stoffa.
Guy Fawkes, che il cinque novembre del mille seicentocinque aveva tentato di far saltare il parlamento, era destinato a essere bruciato in effige per i secoli a venire.
Pretesto per un regno complicato, di bruciare ogni anno tutti i cattivi pensieri di una monarchia a volte fulgida, a volte opaca come la nebbia.
Diede di sprone, il pupazzo che si accartocciava su se stesso e il sudore che colava lungo la schiena. Cavalcò nel buio, in attesa di una risposta o di bruciare in eterno nel fuoco dei dannati.
C’era trambusto davanti a Villa Jacobson.
Le carrozze trottavano veloci, sostavano davanti al cancello e i lacchè s’affrettavano a far scendere Lady e Lord. Gli orli delle gonne che frusciavano sull’acciottolato, i fiocchi di un inverno troppo precoce che scendevano delicati dal cielo, in un turbine di fredda delicatezza.
Lewis osservava gli invitati fluire all’interno del salone. L’espressione immobile e imbalsamata in un sorriso impertinente, la ramillies
sul capo, la coda infiocchettata di nero
che scendeva sul raso avorio. Suo padre era del tutto a proprio agio, il pomello d’argento del bastone stretto tra le mani, che chiacchierava amabilmente con Ralph Jacobson.
Lewis sfregò appena i denti, rabbia e umiliazione che ancora strisciavano velenose sotto la pelle. Non riusciva a digerire quel maledetto accordo e non vedeva l’ora di sapere sua sorella lontana da Londra. Al sicuro da quella famiglia infida. Per fortuna mancava meno di una settimana al matrimonio.
«Hai intenzione di rimanere qui tutto il tempo?»
Le dita di Leila sfiorarono le sue e Lewis rinvenne dalle cupe riflessioni. Le sorrise. «Non posso certo dire di trovarmi del tutto a mio agio.»
Leila intrecciò la mano alla sua, avvicinò appena la guancia. «Nessuno lo è, suppongo.» Con un tocco leggero lo spinse verso il centro del salone.
«Ho perso un po’ del mio tocco, Leila.» Sospirò, mentre assisteva all’entrata di Melusine, l’amante del re. «Non riesco più a fingere che tutto sia come un tempo.»
«Che facevi durante questi ricevimenti, prima che ogni equilibrio si spezzasse?» Leila lo fissava, tranquilla e determinata.
«Vuoi saperlo davvero?»
Gli sorrise, maliziosa. «Scommetto che corteggiavi una delle tante dame. Così tutti ti credevano impegnato in qualche impresa galante mentre…» gli toccò la tempia con il dito indice. «La tua testolina osservava, attenta.»
Lewis scrutò gli occhi ardenti della moglie. Comprensione e complicità rilucevano sul nero brillante. «Mi stai consigliando di tornare alle mie vecchie abitudini?»
«Ti sto consigliando di vivere la vita che hai sempre condotto, Lewis.»
Henry Jacobson tentava di sorridere, ma ogni gesto risultava rigido, imposto da una recita grottesca che voleva interrompere al più presto.
Nora sostava a poca distanza. Incantevole, in un vestito chiaro che ricordava l’abito bianco e azzurro indossato al ballo d’inverno in cui aveva capito d’amarla. In cui, per la prima volta, un’imposizione venuta dalla sua famiglia si era trasformata nel più dolce dei compiti.
Sarebbe riuscita a perdonarla?
Henry la raggiunse. Avrebbe voluto tanto parlarle. Dirle che era disposto ad amarla, a dimenticare che lei si era donata a un altro uomo. E che avrebbe cresciuto quel figlio non suo con amore e devozione.
Ma Nora aveva uno sguardo afflitto, opaco. Sapeva dove fossero rivolti i pensieri della sua amata. E tremò, sotto l’unica domanda di cui aveva veramente paura.
Lei sarebbe mai riuscita a dimenticare?
Nora osservò le lancette spostarsi sotto il quadrante. Il ceppo nel camino cadde con una zaffata di lapilli e soffiò il calore verso il suo viso. Eppure, non si mosse. Rimase ferma, a sfoggiare l’ampio vestito, troppo drappeggiato in vita. Era bastato l’abile tocco di una sarta esperta per giocare con stoffe e colori, di modo che nascondessero il ventre. Il mese era iniziato con forti nausee e una rotondità appena accennata, e il suo viso emaciato strideva con la scusa di essersi attardata troppo a tavola.
Sorrise, e mostrò una serenità che non aveva. Attese lo scorrere di un tempo indelicato nella sua lentezza. E poi, scortate dalle dolci note di un clavicembalo che passò inosservato alle sue orecchie, le lancette si spostarono verso la destinazione tanto agognata.
Abile, cresciuta in quell’ambiente fatto di strascichi, candelabri e gioielli scintillanti, Nora iniziò a muoversi con esperienza. Parole cortesi, risate banali, fino a perdersi in quella cacofonia di volti e stoffe, fino a raggiungere la scala, lontana dagli occhi di Henry impegnato a pavoneggiarsi con Melusine.
Tirò la gonna e la sua graziosa scarpetta sbucò da sotto l’orlo, pronta a pestare il gradino e accompagnarla nella silenziosa uscita di scena. Il piede rimase sospeso, fermato dalla calda risata di Lewis. Per un attimo le mancò la forza, la mano che teneva la stoffa tremolò e le iridi furono inondate dalla nebbia.
L’istinto stava per tradirla. Fu tentata dalla voglia di voltarsi e guardarlo, ma s’impose di resistere. Cedere voleva dire gettare al vento tutto ciò per cui aveva lottato negli ultimi giorni e nonostante ciò che provava, non poteva fare altro. Nulla era in grado di trattenerla a Londra, niente poteva farle accettare un matrimonio basato sul peccato, il cognome di una famiglia che portava in seno il seme dell’inganno.
Era solo un passo. Un gesto semplice, ripetuto infinite volte nel corso della vita, ma quel giorno era la cosa più difficile da compiere. Pesante come un macigno, come il silenzio che avrebbe avvolto la sua scomparsa. Atroce come la vigliaccheria che le impediva di girarsi verso il fratello. Disperato come l’amore che l’aveva condotta lì. Ostinato come la vita che le cresceva in grembo.
Lewis rise ancora. La voce di quel fratello tanto adorato si fuse con la musica, con i suoni di una vita che non le apparteneva più.
E con un fruscio appena udibile, la suola prese contatto con il marmo del gradino. La
gonna strusciò veloce.
E di Lady Nora Jane Hawk rimase solo il ricordo che vibrava nella voce di Lewis.
Morgan Jacobson sbadigliò, annoiato. Sistemò la giacca e si preparò a scendere nel salone.
Come ultimo figlio di Ralph, godeva del privilegio di avere sulle spalle incarichi minori e di poter sperperare la sua cospicua ricchezza in agi di ogni tipo. Grazie al cielo conservava abbastanza buon senso per non perdersi in vizi che ottenebrassero la mente come era successo a Francis. Obbediva al padre, più per cupidigia che per senso del dovere, e di dove lo portassero i suoi intrighi poco gli importava.
Era un po’ seccato. Aveva passato gli ultimi due mesi a Portsmouth ad aspettare un veliero proveniente dalla Giamaica. Ma David, il fratello che se ne stava oltreoceano, ancora non si era deciso a spedire lo Smeraldo di Venere
in patria. Suo padre sarebbe stato molto piccato per il ritardo.
Diede una rassettata al nodo del foulard che portava al collo, uno sguardo nello specchio alla sua alta figura, con i capelli e gli occhi scuri. E fu allora, un passo prima della scala, che l’odore lo colpì come una sberla in pieno viso. Un olezzo stonato nel bel mezzo di un prato fiorito. Fu quello il paragone che gli balzò agli occhi.
Scivolò verso la porta. Erbe, brandy. Tabacco. Quel miscuglio insopportabile, unico al mondo, che sempre seguiva suo fratello. Spinse la porta.
«Che diavolo ci fate qui?»
Francis, accasciato sulla poltrona, lo accolse con uno sguardo annacquato. «Fumo, Morgan. Come sempre.» Gli rispose, la pipa stretta nella mano.
«Nostro padre non sarà affatto felice di vedervi. Di sotto ci sono tutti, compreso Lewis.» Entrò nella stanza e richiuse con accuratezza la porta alle sue spalle. «Non so molto di quel che avete combinato nelle ultime settimane, ma so che se vi trova qui, farò davvero fatica a fermargli la spada, visto che dovreste essere a miglia di distanza.» Lo raggiunse e gli diede un piccolo calcio alla gamba. «Levatevi di mezzo, prima che facciate saltare tutti i piani di Ralph.»
Francis rovesciò la testa all’indietro, gli occhi appena socchiusi, il corpo scosso da brividi. Aprì la bocca, ma uscirono solo suoni sconnessi.
«Siete senza speranza.» Morgan alzò le labbra in un cipiglio di disgusto.
Suo padre era un bastardo manipolatore, David, il maggiore dei fratelli, un debole che si
era fatto cambiare il carattere sotto la severità di decisioni non sue; lui stesso era solo un egoista avido che chiudeva gli occhi davanti ai comportamenti più abominevoli della sua intera famiglia.
Ma Francis, lui era pazzo. Non c’era logica nelle azioni che compiva, solo un oscuro piacere. Forse era per questo che Morgan lo odiava: riusciva a mettergli i brividi.
«Non ve lo ripeterò, andatevene. O quando sarò tornato vi butterò fuori a pedate.»
Il fratello continuò a biascicare parole sconnesse. Scostò l’uscio per lasciare la stanza, e la vide. Un’ombra elegante che si muoveva veloce lungo il corridoio. La seguì.
Un ricciolo e un nastro rosso sparirono verso la porta di servizio usata dai domestici. Furba la ragazza, in qualche modo aveva scoperto le vie più facili di casa Jacobson per sparire, lontano da occhi indiscreti.
Non erano affari suoi capire cosa stesse facendo, ma d’improvviso Morgan si rese conto di essere rimasto attaccato al pavimento. Un brivido profondo gli scosse il cuore. Era repulsione verso un sentimento che lo aveva colpito, imprevisto.
Pietà. Verso Nora.
Ubriaco com’era, Francis si sarebbe fiondato su di lei come un ragno sulla preda.
Fissò il pavimento. Qualcosa riluceva sotto la fioca luce di quel tramonto ammorbato dalla neve. Si avvicinò e raccolse la collana d’argento, con il piccolo pendaglio che racchiudeva l’orologio, decorato con una rosa. Racchiuse nel palmo quel cimelio, unica testimonianza del passaggio di Nora.
«Cosa avete raccolto?»
Voltò la testa verso Francis che lo guardava con aria famelica. Il fratello gli artigliò il polso con violenza, colto alla sprovvista, Morgan mosse il braccio per difendersi e la collana gli sfuggì di mano, cadendo a terra. Nonostante la sbronza, Francis fu svelto a raccoglierla.
«Dov’è andata?» Gli chiese con gli occhi sgranati.
«Non sono affari vostri. Sparite, maledizione!»
Francis gli strinse il polso con più foga. I movimenti erano diventati lucidi. Troppo, per un uomo nelle sue condizioni.
«Di che cosa avete paura, Morgan? Di nostro padre?» lo punzecchiò.
Rimasero un istante immobili, uno di fronte all’altro. Gli occhi piccoli del fratello si ridussero a due fessure cariche di odio.
«Non ho intenzione di coprire le vostre malefatte.» Morgan diede un altro strattone.
«Siete diventato d’improvviso un paladino della giustizia? Strano. In genere siete voi quello che fa il lavoro sporco, in famiglia.»
Morgan iniziò a irritarsi, strinse i pugni. «Ve lo ripeto un’ultima volta, andatevene. Levatevi di mente quella ragazza, non è più affar vostro.»
«Oh, lo è, invece. Eccome.» Francis lo strattonò.
«Possibile che non riusciate a controllare ciò che vi striscia nei pantaloni?»
«Credete che sia per questo?» gli diede un’altra spinta, stavolta più potente della precedente. Morgan riuscì a ricacciarlo indietro di qualche passo. «La mia è una sfida.»
«Siete un folle!» tentò di riprendersi la collana. Francis oppose resistenza, ma stavolta lo colpì al volto. «Non vi lascerò mandare all’aria ogni cosa!»
«Ma non lo capite! Non mi frega niente dei piani di nostro padre, o del matrimonio di Henry o del patto con Ralph. Io voglio solo vedere Lewis Hawk rantolare nel suo stesso vomito!»
Presero a spingersi di nuovo. Il sangue gli colava dalla bocca, ma Francis era intenzionato a non cedere. «E ora ditemi dov’è andata Nora!»
«Si può sapere perché odiate così tanto Lewis?»
Strinse gli occhi e assaporò il sangue. La voglia di portare il cadavere di Nora ai piedi di Groundale si fece più prepotente. «Mi eccita il modo in cui Lewis perde la calma, mi dà piacere vederlo distrutto dal dolore.»
«Mi fate orrore.» Il fratello gli assestò un altro pugno.
Francis, arrabbiato e furente, alzò la mano e graffiò il volto di Morgan, lasciandogli quattro profondi solchi che pulsavano, vermigli.
«Vi farò rinchiudere a Beldam, con i pazzi! Ve lo giuro!» Morgan riuscì, finalmente, a liberarsi.
Ma era troppo tardi.
«Dov’è Nora?»
Una domanda sciocca, semplice, pronunciata decine e decine di volte nella sua vita. Quando tornava a casa, ogni volta che veniva a cercarla al palazzo di St. James
.
Dov’è Nora.
«Dov’è mia sorella?» esclamò con maggiore urgenza, quando riconobbe il terrore dipingere lo sguardo di Henry.
«Era qui, un attimo fa, l’ho vista camminare per il salone…io…»
Deglutì, la saliva scese sul palato, nella gola. Un brivido faceva tremare le dita della mano destra. Avrebbe dovuto uccidere Francis. Sgozzarlo nel sonno. Maledizione, quell’accordo era stato una pessima idea, Nora avrebbe dovuto lasciare la città, fuggire con Henry.
«Forse si è solamente allontanata» mormorò appena. «Vostro padre è a Parigi.» Le sue labbra si mossero appena mentre dava voce all’ovvio che tanto ovvio più non sembrava, sotto la tetra aria di presagio che era calata su tutti i presenti
«Si, lo è» bisbigliò Henry a mezze labbra.
Ma Lewis non rimase ad ascoltarlo, iniziò a fermare ogni invitato, i domestici, i lacchè.
Cercò tra le cucine e le stalle, incurante di quanto fosse impertinente ficcare il naso in casa d’altri. In breve, alle sue spalle, si creò un seguito stranito di domestici perplessi, a cui presto si aggiunse il padre, insieme a Ralph.
«Non avremmo mai dovuto portarla qui. Mai dovuto darla in pasto a loro.» Si scagliò contro Lawrence, senza aver cura della sua voce, furibonda, che rimbombava tra le pareti del palazzo immerso nel silenzio.
Non gli importava più sapere degli accordi, del bene supremo di un complotto sventato. D’improbabili mosse sulla scacchiera dei due uomini più potenti d’Inghilterra. Gli premeva solamente ritrovare Nora.
«Non v’agitate in questo modo, Lewis. Forse è solo tornata a casa.» Gli rispose il padre.
«Nessuno l’ha vista!»
«Non siate così precipitoso, Groundale. Sarà qui, da qualche parte. Forse al piano di sopra, forse si è sentita poco bene e avrà chiesto a una domestica di farle strada.» Ralph era accondiscendente, ma non c’erano trionfo o scherno nei suoi occhi, piuttosto preoccupazione. Senza Nora, l’accordo svaniva. Davanti a quello sguardo, Lewis intuì che i suoi più cupi sospetti erano divenuti realtà.
«E allora andiamo al piano superiore.» Poi si avvicinò al padre. «Vi ho sempre detto che Francis non andava sottovalutato» bisbigliò.
Il padre serrò le mascelle. «Che scelta avevo, Lewis?»
Ma non rispose, seguì Ralph al piano di sopra, per fare la scoperta più amara di tutte.
Davanti allo stuolo di facce perplesse, erano comparsi Morgan e Francis, i volti e le camicie imbrattate di sangue.
Lewis rimase in cima alla scala. Fissò ogni macchia rossa che risaltava sulla camicia
candida del vile bastardo. E poi piantò lo sguardo in quegli occhi annebbiati da centinaia di vizi. Occhi carichi di trionfo. Brillanti, di una luce fatta di pazzia e odio. Scese lungo il braccio, inerte lungo il fianco, fino a posare lo sguardo sul ciondolo viscido di sangue. La rosa che riluceva sotto la luce. Ondeggiava lenta. Come una campana funebre.
«Stupido. Questo sono stato» mormorò a mezze labbra. «Non avrei mai dovuto accettare tutta questa farsa.» Scosse il capo. Sfregò i denti, uno per uno.
«Di cosa diavolo state parlando, Groundale?» sbottò il vecchio Jacobson, indignato, mentre alle loro spalle il vociare stupito degli invitati rombava, come il riverbero lontano di un tuono.
«Voi tacete, vile!» Voltò di scatto il capo verso Ralph. «Se non vi stacco la testa dal corpo è solo perché ho già rischiato di perdere la mia. E poi non siete voi che voglio uccidere.»
Avanzò, letale. Scaraventò la parrucca a terra. «Non sogghignate Francis. Non ve la darò la soddisfazione di ridurvi in brandelli qui, davanti a tutti. No, non farò più il vostro gioco. Voi ditemi che cosa avete fatto a mia sorella e forse vi concederò l’onore del duello che ho rimandato troppo a lungo. Oppure continuate a tacere, e v’assicurò che verrò di notte a sgozzarvi come si fa con i maiali.»
«Lewis!» Il padre gli agganciò un braccio. Ne incrociò lo sguardo, era divenuto d’improvviso pallido.
Si voltò, vide Melusine fissarlo, ma non se ne curò. «Parlate Francis. Avete perso la lingua?»
Fu Morgan a rispondere. «Nessuno di noi ha visto Nora. Groundale, calmatevi.»
«Credete davvero che possa fidarmi della vostra parola, Morgan? Come se non sapessi che fate sempre il lavoro sporco per tutti.»
Rimase un attimo zitto, mentre il profumo esotico di Leila lo raggiungeva. La moglie era ferma dietro di lui, la sentiva. Non sapeva dire da quanto fosse lì, ma ne percepì la presenza solo in quel momento. Udì il respiro agitato, il lieve contatto di quelle dita che lo prendevano ancora una volta per mano, per guidarlo, per confortarlo.
Iniziò a sentire qualcosa di acido salirgli lungo la gola, rivide la testa di Mary nel sangue. Iniziò a barcollare. Un tremore freddo che richiamava indietro antichi ricordi ed evocava l’angoscia di un lutto imminente.
«Per l’amore di Dio, trovate mia sorella!» gridò, mentre Leila si abbarbicava intorno alla sua spalla. Colonna d’insospettata forza, ebbe il merito di tenerlo in piedi, di salvarlo dalla sua anima che si liquefaceva come ghiaccio al sole.