Capitolo 33
Ally si massaggiò la guancia e scivolò dal letto per afferrare la bottiglia di grog. Ne ingollò un buon sorso, ma l’alcol non bastò a cancellare il dolore sullo zigomo destro dove Francis l’aveva colpita. Si pulì le labbra e indossò veloce la sottoveste e, a passi incerti, ubriaca e indolenzita dal suo ultimo incontro, scese al piano di sotto.
Continuò a scendere le scale, un sorriso mentre contava i guadagni dell’ultima notte, curiosa di scoprire come mai ci fosse tutto quel trambusto. La maggior parte degli avventori si era radunata sul balcone dell’ultimo piano che dava sul fiume.
«Cos’è successo?» chiese alla sua amica Eryn.
La giovane strinse i grandi occhi celesti, lo scialle ben avvolto intorno alle spalle. «Pare che due disgraziati siano caduti giù.»
Tirò le labbra in una smorfia contrita. Tornò ad appoggiare le dita sulla guancia livida. «Sono morti?»
«Diamine! Hanno fatto un bel tuffo! Poveracci!»
Ally si fece largo tra gli uomini che si sgolavano in commenti sull’accaduto. Per lo più avevano preso la faccenda come un interessante diversivo alla loro mattinata. In pochi sembravano in pena per ciò che era successo. Non era poi così insolito assistere a eventi del genere tra le mura di quella taverna dove Ally aveva già visto di tutto. Omicidi, risse, torture.
Il soprannome non era stato scelto a caso, dopotutto.
Scrutò le acque scure del Tamigi, che gorgogliava lambendo le fondamenta del Pelican
; poco più in là, fluttuavano diversi velieri, con le vele ammainate e l’equipaggio ancora perso tra le banchine del porto.
I commenti dei marinai avevano già dimenticato i due sventurati, per concentrarsi sulla descrizione dell’esecuzione appena conclusa e colpevole di aver ritardato la partenza di molte imbarcazioni, ancora deserte nonostante l’ora e la marea.
Ritornò all’interno e si fermò, la bocca spalancata. Francis era stato appena inchiodato al muro da un uomo alto, con lunghi capelli castani e occhi folli d’odio.
«Dimmi che cosa ci fai qui!» Lewis sentiva la pelle molle di Francis tendersi sotto le dita. Lo sguardo con cui il bastardo lo sfidava, gli faceva serpeggiare lungo la schiena un brivido, un presentimento che voleva ostinarsi a non ascoltare.
«Vuoi saperlo?»
Il sorrisetto crudele che comparve rischiò di farlo impazzire. «Parla o giuro che te ne pentirai!»
«Chiedilo al fiume.»
«Che diavolo stai dicendo?» Urlò.
«Non sono stati abbastanza svelti nella loro fuga.» Francis allargò gli occhi in un’espressione di trionfo. «Ho gettato tua sorella in acqua.»
Lewis aprì la bocca e balbettò parole scomposte, in cerca d’aria. «Nora è…»
«Nel Tamigi.»
La bocca non fece in tempo a pronunciare nessuna parola, le mani non riuscirono a stritolare quella gola malefica, né a estrarre la spada. Le gambe lo avevano già portato lontano, verso l’esterno.
Si liberò della giacca. James stava urlando e l’eco delle sue parole lo accompagnò nel tuffo che spiccò dalla staccionata di legno.
Il Tamigi lo avvolse, cupo, gonfio. Riemerse verso la superficie, ingollò l’aria tra gli spruzzi dell’acqua che le braccia iniziavano a smuovere. Prese a nuotare alla cieca. Muoveva il capo in maniera concitata alla ricerca della sorella.
Il gesto era stato così istintivo e improvviso che non riusciva nemmeno a capire cosa si stesse agitando nel profondo della sua anima.
Odio e dolore potevano aspettare.
Continuò a nuotare. Ogni tanto tornava sotto la superficie e cercava di esplorare gli abissi torbidi del fiume, ma tutto ciò che incontrava era l’oscurità.
Si mosse ancora, verso le imbarcazioni ormeggiate più a largo, le gambe che venivano avvolte dal vortice della corrente.
Un richiamo selvaggio dell’abisso che scorreva sotto di lui. Era come se i muscoli fossero stati avvolti da corde invisibili che lo tiravano verso il basso, per trascinarlo lontano.
D’improvviso, ogni movimento si fece difficile, come se fosse divenuto di pietra. Lottò ancora, per cercare di rimanere in superficie, ma la corrente era intenzionata a non lasciarlo andare.
La testa finì sott’acqua con violenza, chiuse la bocca e si diede una spinta che lo riportò fuori, verso l’aria e la mano di James. Afferrò quelle dita con disperazione. L’amico lo issò sulla
scialuppa, dove iniziò a tossire, sfinito.
In ginocchio, le mani aperte contro il legno. «Non può essere vero.» Le gocce scivolavano dai capelli, battevano contro il legno. Scandivano la certezza di quanto fosse difficile, quasi impossibile, salvarsi dalla presa ferrea del fiume.
La mano di James calò sulla sua spalla. «Testimoni dicono di aver visto un uomo e una donna cadere in acqua. E non riemergere.»
«Può darsi che…» Aveva alzato la testa, colto da una vana speranza.
«Una certa Ally mi ha detto che aveva fatto aspettare un uomo straniero nella stanza dell’ultimo piano. Attendevano Marshall.»
Lewis rimase a osservare l’unico occhio rimasto di Skyrm velarsi sotto una tristezza che poche volte gli aveva visto addosso. «La ragazza mi ha detto che non conosceva i nomi di quei due, solo che la donna portava un nastro rosso tra i capelli.»
Sedette sul pavimento instabile della scialuppa. Gli occhi verso l’acqua che li faceva ondeggiare in una tetra litania fatta di sciabordio.
Portò le mani al volto. E si rese conto di non sentire niente. Solo il vuoto. Non riusciva a formulare nessun pensiero. Nemmeno a provare dolore.
Una sensazione indescrivibile. L’inferno bruciava e straziava. Il vuoto invece cancellava ogni traccia di vita.
Il Tamigi si era appena inghiottito la sua anima.
Marielene sedeva sul divanetto. Le lancette si muovevano sul quadrante di decori floreali, con le complicate decorazioni d’oro. Uno dei tanti vezzi che ricordavano gli agi della sua vita.
Lo specchio accoglieva una donna con un sontuoso abito azzurro, i riccioli biondi raccolti alti sul capo. Rifiutava di indossare il lutto. Voleva almeno un corpo su cui piangere.
Il ritratto di Sofia Dorotea, muto, immobile, la osservava dalla parete.
Una scelta fatta per amore si era attorcigliata intorno al destino e aveva finito con il privarla di Nora.
Il complotto sarebbe stato così intricato se Aileen fosse stata uccisa anni prima?
Com’era velenosa la vita di corte, toglieva il respiro, uccideva ogni traccia di buoni sentimenti. Bambini che dovevano morire ancora prima di venire al mondo, ragazze che s’innamoravano e venivano condannate al peccato. All’esilio.
Alla morte.
La porta si aprì e Lawrence la raggiunse. «Lewis e Henry sono partiti.»
«Questo è il settimo giorno» mormorò.
«C’è la possibilità che il corpo sia stato trattenuto dalle maree, però, prima o poi, il fiume lo dovrà restituire.»
Il marito aveva parlato con voce flebile. In tanti anni di matrimonio non lo aveva mai visto così. Gli occhi erano tanto gonfi che sembravano pesti. Il viso pallido, tirato.
«Oppure il fiume potrebbe decidere di tenersela. Chissà dove la porterà.» Fissò un punto imprecisato della stanza.
Lawrence si sedette accanto a lei. Entrambe le mani poggiate sul bastone da passeggio.
«Il re non farà niente contro Francis?» Gli chiese.
«No. Non adesso che Ralph gli ha promesso lo Smeraldo di Venere
. Inoltre quel verme gli ha consegnato tutti coloro che hanno tramato per far fallire la Compagnia dei Mari del Sud. È intoccabile.»
«Non c’è modo di fargliela pagare? Rimarranno impuniti dopo tutto quello che hanno fatto?»
Il marito rovesciò la testa indietro, contro la parete damascata d’avorio. «Ho perso.»
Rise, amareggiata. «Quante cose abbiamo rischiato per Giorgio, in questi anni? E lui non ci aiuterà. Ci sta lasciando da soli.» Appoggiò la testa contro la spalla di Lawrence. «Credi che sia la punizione per ciò che abbiamo fatto? Che Dio ci stia punendo?»
«Per aver salvato la vita di una bambina innocente? No, non è Dio. è
il potere.»
«Che strano. Ora sembra tutto così insignificante. Ogni cosa per cui abbiamo combattuto, tutta la nostra gloria, l’onore di essere gli Hawk. Non è altro che neve sciolta.»
Il bastone da passeggio cadde con un tonfo sul pavimento.
Marielene chiuse gli occhi e ascoltò il pianto silenzioso di suo marito.
James Skyrm era alla testa del gruppo. Henry Jacobson lo seguiva poco distante, il tricorno che gli nascondeva gli occhi, pallido più della neve che aveva ripreso a scendere e donava alla zona del porto un’aureola d’innocenza, cancellava la sporcizia, i cumuli di rifiuti. I cani randagi si aggiravano lungo la strada, il naso per terra alla ricerca di un po’ di cibo.
Lewis incedeva lento, molto più indietro, con Ares che, di tanto in tanto, alzava il muso,
quasi come se anche lui stesse cercando ciò che tutti loro non volevano trovare.
Senza un corpo, si poteva sempre pensare che si fosse salvata, magari grazie a un miracolo della provvidenza. James scosse il capo, il Tamigi, come il mare, non era incline alla clemenza.
Continuarono a cavalcare, i loro sguardi si posavano sulla riva che emergeva sotto la bassa marea. L’ennesimo giorno di triste ricerca. Avevano perlustrato ogni angolo di quel posto e quel giorno si stavano inoltrando fino al confine ultimo dove, a volte, il fiume decideva di restituire ciò che si era preso. Scese dal cavallo e proseguì a piedi.
Il cuore in tumulto, qualcosa, in effetti, era comparso. Gli stivali scricchiolavano sul manto di neve appena depositata. Alcuni cani si aggiravano famelici intorno a lui, diretti verso la massa informe poco distante.
Girò gli occhi alle sue spalle. Henry lo seguiva. L’espressione immobile e le labbra serrate. Non vedeva Lewis. Forse si era fermato prima.
Intorno a loro scendevano i fiocchi di neve, un incanto interrotto dal ringhiare dei cani e dal gracchiare dei corvi che planavano, sinistri, verso la cosa ormai troppo simile a un corpo. Afferrò la pistola dalla cintura ed esplose un colpo che allontanò all’istante i cani.
S’inginocchiò accanto al cadavere, vestito di un abito rovinato, stracciato sul petto, dove i seni emergevano, pallidi e bluastri. Prese tra le dita la stoffa, era di una tinta azzurrina, di un materiale prezioso e ricercato. Salì dal petto lungo la gola, dove un morso aveva strappato la pelle e la carne marcia emergeva, nauseabonda.
Si portò le mani sulla bocca, il conato di vomito venne trattenuto mentre le dita scostavano i capelli appiccicati sul volto. Emerse un viso vitreo e gonfio, gli occhi nocciola sbarrati, cristallizzati in un’espressione di puro orrore. Metà del volto era stato divorato da cani e uccelli, ma non vi erano dubbi.
L’abito, i riccioli castani da cui emergeva un nastro rosso che, testardo, era riuscito a rimanere impigliato tra le ciocche.
Non fece in tempo a bloccare Henry. Il giovane era caduto in ginocchio, accanto a lui.
James si alzò con uno scatto e corse verso Lewis che arrivava di corsa. Lo bloccò e gli impedì di proseguire.
«Lasciami, James» gli urlò.
«Non posso farti questo.»
«Spostati.»
Lewis spinse via l’amico. Sua sorella era morta, questo gli era chiaro da giorni, ma la mente, a volte, si lasciava andare a congetture fantasiose nel tentativo, forse, di lenire il dolore.
Colmò la distanza che lo separava da Henry. Le urla e il pianto che sentiva erano una certezza più che sufficiente. Poteva andarsene, allontanarsi dalla visione orribile che lo aspettava, ma non lo fece.
Scivolò in ginocchio. E la vide.
Lo stomaco si ribellò prima della mente alla vista di quello scempio. Vomitò. Due, tre volte, come se il suo corpo avesse deciso di rigettare ogni crudele emozione che lo attraversava.
Gli occhi nocciola lo fissavano, disperati. Sollevò le dita tremanti, con la bocca amara di bile e il cuore che cedeva, battito dopo battito.
Non poteva continuare a fissarlo così. Era stata colpa sua. Non era riuscito a proteggerla. Non era stato abbastanza veloce da intuirne i progetti di fuga. E l’aveva lasciata da sola in balìa di un pazzo.
Prese contatto con la pelle tesa e gonfia, e chiuse gli occhi di Nora.
Rimase immobile a fissare il volto che ora sembrava più tranquillo, nonostante i morsi dei cani, e quel colore livido che non ricordava affatto la pelle di porcellana di sua sorella.
Allungò una mano verso i capelli e sfilò il nastro logorato dal fiume.
Rimase con il palmo aperto, a fissare quel piccolo groviglio di stoffa rossa. Un nastro che racchiudeva centinaia di ricordi. E non c’era più nessuna congettura, nessuno strano pensiero della mente a dargli conforto.
C’era un corpo. Freddo. Immobile. Con quel vestito meraviglioso che tutti avevano invidiato, a coprirlo solo per metà.
Qualcosa si mosse nel basso ventre, risalì lungo lo stomaco ed esplose nella gola.
Un grido. Un urlo.
«Maledetti. Lo ucciderò! Ucciderò Francis. Sgozzerò Ralph. Mi mangerò i loro cuori. Che siano maledetti, che siano maledetti per l’eternità.» Si piegò in avanti, le mani sul ventre a fermare il dolore. «Io li ucciderò!»
Leila uscì nel giardino e fu accolta da una spirale fredda dentro cui vorticavano centinaia di fiocchi bianchi. Quello era il primo anno che vedeva la neve. Da una settimana sembrava non voler lasciare Londra, e si era lasciata incantare da quella magia bianca.
Il suo mantello scuro strusciava dietro di lei, in un silenzio ancestrale che ricopriva ogni cosa. Non si capacitava dell’evanescenza dei piccoli fiocchi che cadevano sul guanto, risplendevano per qualche istante e si scioglievano. La neve pareva in grado di attutire ogni rumore, di rendere tutto così delicato, immobile, cristallizzato in una pace che pareva aprire le porte dell’eternità. Qualcosa di malinconico, eppure in grado di infondere conforto.
Sembrava uno scudo in grado di preservare il mondo dai dolori, pareva cullarlo in attesa della rinascita.
Camminò lungo il viale, il piede che affondava nel manto candido e scricchiolava, unico rumore in quel vento freddo. I fiocchi continuavano a cadere, veloci ed eleganti, impetuosi ma allo stesso tempo così calmi.
Alzò il viso verso il cielo pallido, abbagliante seppur privo di sole. Gli occhi furono invasi da mille cristalli, una danza primordiale in grado di lasciarla senza fiato ad ammirare l’estro artistico degli elementi. Quei disegni astratti le ricordavano le tempeste di sabbia, quando il vento si prendeva gioco del deserto e colorava d’ocra il cielo limpido.
I fiocchi le si posarono sul viso, scivolarono in bilico sulle palpebre. A ricordarle quanto fosse fredda quella giornata.
Quell’attesa.
Il rumore degli zoccoli le arrivò attutito. Uno scricchiolare dapprima lontano, poi più vicino. Il battito del cuore accelerò. Altri fiocchi si posarono sul viso e divennero piccole gocce d’acqua.
Voltò il capo. Il manto nero di Ares riluceva contro il bianco della neve. La criniera che ondeggiava nel vento. Il respiro usciva dalle narici dilatate dallo sforzo e si condensava ai lati del muso, i denti spuntavano dalle labbra tese. Puntò gli zoccoli in avanti. S’impennò in tutta la sua imponente mole.
Leila non se ne era resa conto, ma era già corsa in avanti con l’orlo della gonna che alzava la neve e il cuore in petto in preda a una furibonda lotta contro il costato.
Lewis era appena sceso da cavallo. Un balzo agile, il viso coperto dal tricorno. La raggiunse con un passo deciso e per un attimo si sentì sollevata.
Gli stivali del marito accelerarono la corsa e poi d’improvviso lui scivolò, le ginocchia affondarono nella neve, il tricorno rotolò lontano e i capelli caddero in avanti a ricoprirgli il volto in maniera scomposta. Una mano si protese verso di lei.
Leila ebbe la sensazione di aver perso il cuore. Di colpo non era più nel suo petto, era balzato in avanti molto prima del suo corpo. Afferrò la mano, la strinse forte e poi si mise in ginocchio. Gli occhi di Lewis emersero tra il sipario sconvolto di onde castane.
Lo avvolse in un abbraccio.
Lewis rimase in silenzio, immobile, aggrappato con forza ostinata alle spalle di Leila. Il respiro appena udibile, calmo.
Un singhiozzo sommesso. Il tremito delle dita. Un altro più forte, le braccia che cercavano un appiglio più sicuro. Questa volta non ci furono urla. Le parole erano scappate dalle labbra.
Si strinse ancora una volta al corpo di Leila. Come quando da bambino si rifugiava tra le braccia della balia.
In quel rifugio caldo, morbido, ebbe la sensazione di aver raggiunto il punto più segreto della sua anima. Di aver ritrovato il bambino indifeso che era stato un tempo, prima di trasformarsi in uomo di spada e d’onore. In un soldato costretto a combattere contro i suoi stessi sentimenti.
Le braccia di Leila si fecero più audaci. Una stretta disperata.
E le lacrime iniziarono a colargli lungo il viso. Silenziose come la neve.
Per la prima volta in vita sua piangeva davanti a qualcuno. E benedisse Leila per essere lì, ad accompagnarlo in quel viaggio verso il buio più nero.
Tremava senza alcun ritegno e non riusciva a capire cosa stesse succedendo al suo corpo. Aveva l’impressione che fosse sul punto di sciogliersi.
Le ferite sopportate negli scontri non erano paragonabili. Il dolore di sentire la propria pelle squarciarsi in due non era nulla in confronto a ciò che stava provando in quel momento.
Intenso, puro, devastante dolore.
Se non ci fosse stata Leila a tenerlo stretto contro di lei, forse sarebbe rimasto sdraiato nella neve a singhiozzare, fino a quando non gli fosse rimasto più fiato.
Nora.
Non c’era più. Non era più in quel mondo.
Francis.
Ma l’idea della vendetta non gli diede alcun sollievo. Gli fermò solo il cuore, sotto la certezza di aver fallito come fratello.
Pensieri.
Non aveva più alcun senso pensare. Così continuò a piangere.
A dannarsi, fino a quando il dolore lancinante alla testa non si fece tanto terrificante da escludere ogni senso, per farlo cadere in un oblio fatto di desolazione.