Capitolo 34
Eryn, per l’ennesima volta, uscì in strada, in cerca di tracce. Ally era sparita da più di una settimana ed era in pena per lei.
«Torna dentro! Devi lavorare, io con te ci mangio!» Nolan sputò un grumo di saliva, il braccio sudicio che le artigliava una spalla.
«Ally» mormorò appena, spaventata dallo sguardo truce del temerario proprietario del Pelican
. Gli occhi scuri e le armi che facevano capolino dalla cinta bastavano a incutere rispetto ai clienti più burrascosi, e la stretta con cui le stava stritolando la scapola non ammetteva alcuna replica.
«Quella puttana farà bene a non tornare, visto tutti i soldi che mi ha fatto perdere.»
«Credo si sia messa nei guai.»
«Ben gli sta! Ally ha sempre ficcato il naso negli affari degli altri. Se non torna vuol dire che stavolta gli è andata male!» La strattonò. «Torna dentro, adesso. E prenditi tu la sua camera, i clienti la preferiscono.»
Eryn lanciò una lunga occhiata alla via, ingombra di carri e uomini indaffarati, e ritornò all’interno, dove Louise la intercettò.
«Ancora niente?» le domandò preoccupata. Per quelle come loro, non era confortante veder sparire le ragazze.
«No.»
«Non doveva impicciarsi di quei due.»
Eryn la scrutò, attenta. «Chi?»
«Non lo sai? La coppia dell’ultimo piano.»
«Quelli che sono caduti nel Tamigi?»
«Sì.»
«Che c’entrano?»
«Ally ha venduto all’uomo straniero un passaggio sul legno di Marshall. E quando sono arrivati qui per imbarcarsi, oltre alle monete che si era già intascata qualche giorno prima, ha pensato bene, l’ingorda, di prendersi tutti i vestiti della donna. Credimi!» Louise fece un sospiro sognante. «Era un abito fantastico. E i gioielli….! Si è presa ogni cosa.» Scosse il
capo, contrariata. «Ad Ally è sempre mancato il sale in zucca! Una donna così ben vestita in un posto come questo poteva significare solo guai.»
Eryn salì con lentezza le scale. «Spero per lei che sia solo scappata.»
«Se torna, Nolan la sgozza.»
«Allora è meglio che sia andata via da questa merda di città. Ma conoscendola, sarà cascata nel fiume! Lei e i suoi maledetti intrugli di erbe malefiche.»
Louise non l’ascoltava già più, aveva preso sottobraccio un cliente. Eryn aprì la porta della camera appartenuta a Ally e si augurò di trovare presto un modo per sfuggire a quell’inferno, ma era una vana speranza.
Giorgio d’Hannover sedeva al tavolo centrale e spiluccava il cibo dal piatto, pensieroso. L’intera sala da pranzo era immersa in un sommesso vociare, carico di cortese rispetto e denso di pettegolezzi. Il gioco preferito dalla corte, in quei giorni, era lanciarsi in varie ipotesi su tutto quanto riguardasse la morte di Nora.
Le signore, con i loro abiti neri, bisbigliavano tra loro e gli occhi di tutti finivano con il posarsi su Evonshire, compito nel suo dolore, per poi finire su Francis Jacobson.
Il re poggiò le spalle stanche contro lo schienale. «La sua presenza è quanto mai inopportuna» mormorò a mezze labbra al figlio seduto accanto a lui.
«Forse dovremmo prendere dei provvedimenti.»
«E con quali accuse?»
«Groundale sembra piuttosto sicuro di quel che dice. E Stone ha dimostrato più di una volta di essere un uomo dai bassi principi.»
Tamburellò le dita sul tavolo. «Non so più che cosa pensare. Ho rischiato di ritrovarmi un regno sovvertito, con il consiglio privato del tutto rivoluzionato. Eravate disposto a decapitare Evonshire per un falso sospetto. E ora mi chiedete di imprigionare per omicidio un esponente della famiglia che, forse, potrebbe salvarci.»
Augusto si mosse sulla sedia, indispettito. «Ma se è stato davvero lui…»
«Ho come l’impressione di essere finito nel bel mezzo di una faida familiare. Stone viene prima arrestato, poi liberato da Evonshire. Ora vogliono la sua testa per la morte di Lady Nora.» Alzò il calice e scrutò Jacobson attraverso il vino. «Tra queste due famiglie scorre più di un segreto.» Fissò a lungo gli occhi di Augusto. «Siete sicuro di avermi raccontato tutto?»
«Padre, ne so quanto voi.»
Tornarono a occuparsi della cena, poi, di colpo, i sussurri dei commensali svanirono in un gelido silenzio. Tutte le teste si voltarono all’unisono verso la porta del salone.
Il duca di Groundale era comparso sulla soglia. Vestito di un elegante abito nero, senza nessuna decorazione, la parrucca grigia a incorniciare il volto pallido. I guanti erano un dettaglio fin troppo eloquente. Gli occhi avevano lanciato un lungo sguardo, altezzoso e feroce, verso tutti i tavoli, fino a bruciare Francis Jacobson che sorrise, compiaciuto.
Lewis Hawk lasciò la porta e iniziò a camminare nel silenzio carico di attesa. Evonshire aveva lasciato la sedia e attendeva, agitato.
«Maestà» Hawk fece un inchino. «Vi ringrazio per il rispetto dimostrato dalla vostra corte che ha indossato il lutto per mia sorella.»
«Era un atto doveroso, duca. Amavamo tutti Lady Nora.»
Le iridi castane di Groundale tremarono appena, prima di ritornare fredde e determinate. «Vogliate scusare mia moglie, ma la duchessa non si è sentita molto bene.»
«Non vi sono problemi, capisco quanto sia difficile per tutti voi questo momento.»
«Maestà, non voglio sembrarvi scortese, ma devo porvi una domanda.»
Giorgio vide un lampo d’ira attraversare lo sguardo dell’uomo di fronte a lui. «Dite pure.»
«Altezza, scusate la franchezza, però mi domando come facciate a mangiare in compagnia di un omicida.»
Aprì le labbra per far trapelare un piccolo sospiro di indignazione, ma trattenne la rabbia, sotto la consapevolezza di trovarsi davanti a un uomo distrutto dal dolore. «Voi mi avete portato solo parole che stridono con la versione di Stone, non posso incriminare un uomo solo per dei sospetti.»
Hawk fece un sorriso carico di biasimo che riuscì a farlo sentire colpevole. Suo figlio Augusto cambiò per l’ennesima volta posizione. L’accusa di quegli occhi castani era fin troppo chiara: quando si trattava della sicurezza del regno i sospetti, spesso, bastavano eccome per condannare un uomo.
A disagio, sotto l’espressione che non mutava, fece un grosso respiro, maledicendo i nobili, i loro vizi, l’orgoglio e l’intricato gioco di potere che intavolavano ogni giorno al suo cospetto. Ne traeva dei vantaggi, era ovvio, ma spesso finivano con il metterlo in situazioni di estremo imbarazzo.
«Posso dispensare giustizia, non vendetta.»
«Comprendo la vostra posizione. Lo so che vi ritrovate stretto tra due famiglie importanti,
ognuna delle quali può aiutarvi nella complicata gestione del governo, ma sapete che non è mio uso accusare senza alcuna motivazione, nonostante quello che, in questi ultimi tempi, si è detto di me.»
«Forse dovremmo parlarne in privato, non trovate?»
«Come desiderate. Vi chiedo scusa per avervi tediato, maestà.»
Lewis fece un altro inchino e riprese a camminare verso i tavoli, i tacchi delle scarpe che risuonavano in maniera spropositata. Raggiunse una sedia libera proprio di fronte a Francis. Con studiata indifferenza, prese posto davanti a lui.
Poggiò le mani sotto il mento, i gomiti sul tavolo e con il suo solito sorriso fissò gli occhi di Francis, illuminati da una scintilla di euforia che stonava con l’aria gravida di lutto.
«Così era questo che volevi?» Lewis parlò con tranquillità, la voce chiara, alta, udibile da tutti i presenti. Ignorò il padre che si era appena sistemato alle sue spalle e gli occhi piccoli di Ralph, fissi su di lui.
«Ci è voluto molto tempo per portarti al limite.» Gli rispose Francis, le labbra che avvolgevano il bicchiere.
«Limite?» Rise. «Non esiste più alcun limite, ormai.» Le dita si mossero per chiudersi a pugno, sotto la voglia di ucciderlo così, senza dignità, proprio come lui aveva fatto con Nora. Per un attimo, il volto esangue della sorella gli tornò alla mente, vivido e tremendo, e fu sul punto di farlo. Di perdere l’esile scudo dietro cui si riparava per infilare le mani dentro al petto di Francis Jacobson e strappargli il cuore.
«Ti sto concedendo un onore che non ti spetta. Lo sai, vero? Ma voglio donare a Nora un po’ di giustizia.»
«Sei molto sicuro di te.» Francis bevve un altro sorso di vino. «Sono uno dei migliori.» Gli scoccò un sorriso presuntuoso. «Sai meglio di me che in quest’arte occorre sangue freddo. E tu, mio caro Lewis, sei ubriaco di sentimenti.»
Iniziò a sfilarsi il guanto. Prima il mignolo. Pensò a tutte le volte che aveva rimandato quella sfida per il bene della famiglia. Per rispettare il re.
L’anulare. Suo padre gli aveva poggiato una mano sulla spalla e aveva stretto. Tentativo inutile di fermare l’inevitabile.
Il medio. Il re poteva guardarlo con astio, non gli importava. Non c’era più nessuna regola di buona condotta o d’etichetta.
L’indice. Sorrise, mentre Francis assaporava quel gesto con avidità.
Il pollice. E il guanto scivolò dal suo palmo e cadde davanti alle mani di Francis. Il silenzio si ruppe e le bocche si aprirono in commenti di meraviglia.
«Domani mattina all’alba, all’imbocco della via per Kensington. Suppongo che sull’arma siamo già d’accordo.» Lasciò il tavolo, evitò con cura lo sguardo angosciato del padre e s’incamminò verso la soglia.
«Groundale!» La voce severa del re lo fermò. «Forse avete dimenticato che da due anni ho proibito i duelli. Come ben sapete, non tollero più di tanto che si vada in giro a sfregiare la gente.»
Cercò di rimanere calmo. «Lo so, Altezza.»
«E dunque, perché avete appena lanciato quella sfida?»
«Credo che i motivi del mio gesto siano chiari a tutti, in questo salone. Non ho potuto fare altrimenti. Mi rimetto alla vostra clemenza.»
Il prussiano risuonò duro. «Non ci sarà nessuna clemenza. Siete venuto qui a sfidarmi. Quel guanto, mio caro duca, era rivolto anche a me, pensate che non l’abbia capito? Volete amministrare da solo i vostri affari? Fatelo. Ma vi avverto: stavolta non avrò nessun tipo di riguardo nei vostri confronti. Conoscete abbastanza bene il mio carattere da sapere che non tollero queste cose. State andando deliberatamente contro a una mia ordinanza. Era un gesto per dirmi che non sono un re giusto? Che non ho il coraggio di punire i colpevoli? Ne prendo atto. Fate pure come meglio vi aggrada, Groundale, ma dovrete essere disposto a subirne le conseguenze. Ora sta a voi prendere la giusta decisione.»
«Maestà, non sono incline a fuggire dalle mie responsabilità. Vi auguro una buona serata.»
Dopo un inchino, voltò la schiena e uscì dal salone, gli occhi di tutti puntati su di lui. Passi lenti, cadenzati ed eleganti, che accompagnavano la sua uscita di scena da una vita che, nonostante tutto, amava.
Uscì e i domestici richiusero le porte al suo passaggio, per riaprirle un istante dopo.
«Non puoi farlo.»
Non aveva mai sentito la voce del padre tremare in quel modo.
«Devo. Impazzirò se sarò costretto a vivere in un mondo in cui Francis respira ancora.»
«Nessuno sa come siano andate le cose in quella taverna. Forse ti ha solo provocato.»
Voltò la testa di scatto, afferrò la spalla del padre. «No, ha detto la verità. Ne sono sicuro.»
«Getterai la tua vita al vento! Non ti perdonerà. Conosci quanto siano orgogliosi, hai visto anche tu che cosa abbiamo rischiato. Tu hai sfidato il re. Lo hai fatto volutamente!»
Iniziò a sentirsi a disagio sotto gli occhi afflitti di Lawrence. «Li stanno proteggendo solo perché hanno paura di inimicarsi Ralph. Questa cosa mi rende furioso.»
«Non farlo. È uno sbaglio, non cambierà niente! Ogni nostro sforzo sarà stato vano. Tutto quello per cui abbiamo combattuto finora. La stabilità del regno, il prestigio dell’Inghilterra. L’onore del nostro sangue!»
Chiuse gli occhi. Capiva il padre, ma non poteva fare altrimenti. «Ve l’ho detto, non posso sopportare di vivere in un mondo in cui mia sorella è morta e lui è vivo. Ho già sbagliato troppe cose. Non sono riuscito a proteggerla e dovete concedermi almeno la vendetta. O impazzirò.»
«Questo duello può rompere l’equilibro che …»
Spalancò le palpebre incredulo e indignato. «Così è per questo? Temete che Ralph confidi al re il vostro segreto? Beh, vi sbagliate. Senza Nora l’accordo è saltato, ma visto l’ira che scatenerà il re su di me, direi che ha ottenuto ciò che voleva: il nostro prestigio. Non credo che abbia molta voglia di confessare che fosse a parte di un segreto di tale importanza e che, per accordarsi con voi, ci abbia dato quel registro. Ora lo esporrebbe troppo.» Scosse il capo. «Vedete, non correte pericolo.»
Fece per andarsene, ma il padre lo trattenne. «Non m’importa di Ralph. L’equilibrio di cui parlavo era il nostro.»
Alzò un sopracciglio, il cuore infilzato dal tono afflitto del padre. Non riuscì a parlare.
«Ti ho messo una spada in mano quando eri poco più di un bambino. Ti ho reso un uomo di guerra, un soldato, un abile politico. Molte volte sono stato costretto a essere duro con te, e mi sono maledetto per tutto ciò che sono stato costretto a poggiarti sulle spalle. Spesso non ci siamo capiti. Ma abbiamo sempre combattuto insieme. Fianco a fianco. Siamo complici e alleati, Lewis. E dopo aver perso Nora, non posso sopportare di dover perdere anche te. Mi stai lasciando solo!»
Lawrence abbassò gli occhi, ma Lewis fece in tempo a intercettare il cupo velo di disperazione che li aveva oscurati.
Le labbra tremarono. «Mi dispiace, ma non posso fermarmi.»
Il padre alzò la testa di scatto, in ultimo disperato tentativo di fermarlo. «Ci sono molti modi per uccidere un uomo…»
«No. Devo farlo io. E devo farlo con onore.»
Darren Topsham osservava il fuoco crepitare nel camino. Erano passati diversi giorni e sentiva dentro di lui un’angoscia crescente, ma non doveva cedere ai timori. L’Isola dei Cani sorgeva a Est di Londra, vicino al porto, ma era una zona così paludosa che in pochi l’abitavano e Midwall,
in particolare, era frequentata solo da mugnai e pescatori. A pochi sarebbe venuto in mente di ficcare il naso proprio lì. E poi era impossibile che qualcuno fosse a conoscenza del suo segreto.
Lasciò la sedia e scacciò i cattivi pensieri, pronto a chiudere la porta del mulino e ritirarsi per la notte, quando si accorse che il suo ospite era ancora all’esterno, avvolto in una coperta con il naso all’insù, verso il cielo.
Prese il becco e tentò di portare fuori l’esile fiammella della candela. «Sei impazzito? Torna subito dentro o ti ritornerà la febbre!» Lo redarguì in malo modo. «Si gela! Vuoi mandare all’aria tutto il mio lavoro?»
L’uomo si voltò a guardarlo e si apprestò a rientrare. «Avevo bisogno di un po’ d’aria fresca.»
«Ma questa è gelida!» Una volta all’interno serrò l'uscio. «Quest’anno va molto male. L’inverno è arrivato prima.» Prese dal camino un mestolo di brodo e glielo porse. «Bevi, incosciente!»
L’uomo afferrò la tazza con l’unico braccio libero. Quello sinistro era avvolto in una fasciatura e assicurato al collo.
«Sei preoccupato?»
«Sì.»
«Stai tranquillo. Andrà tutto per il meglio.»
«Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto.» L’uomo buttò giù un sorso. «Hai rischiato molto.»
Strinse le spalle; nonostante i timori provocati dal suo gesto, non gli sembrava di aver fatto poi chissà che cosa. «Un tempo non ero così. Ero ben felice di farmi gli affari miei. È stata Hester a farmi cambiare. Lei era così generosa… Non mi ha insegnato solo la conoscenza sulle erbe e sulla guarigione, ma l’amore. Amava tutti, la mia dolce Hester. Ho agito come avrebbe fatto lei. Tutto qui.»
«Non è cosa da poco. Te lo assicuro.»
Tornò verso la pentola e riempì una seconda tazza. «In queste cose ci vuole tempo e un
piccolo aiuto dalla provvidenza.»
«Non sono bravo con le preghiere.»
«Nessuno lo è.» Fece un sorriso mentre l’altro saliva al piano superiore.
Leila trovò Lewis seduto sul letto, la camicia bianca aperta sul torace, i calzoni neri dell’abito da lutto e la spada poggiata sulle ginocchia. Lo raggiunse e sedette accanto a lui.
Per un lungo istante, il marito ignorò la sua presenza e continuò a tenere gli occhi fissi nel vuoto e le mani sulla spada.
Mancavano diverse ore all’alba e li attendeva una veglia che poteva diventare lunga come l’eternità.
Un incubo di nero pece, in cui si vagava senza meta nel tentativo di rincorrere i fantasmi e i pensieri ossessivi in grado di portare alla pazzia. Ne aveva vissute molte, di notti come quella.
D’un tratto le parvero troppe.
«Dovresti riposare» bisbigliò.
Lewis posò la spada sul letto e voltò il capo. I loro sospiri s’infransero l’uno contro l’altro, le mani si fusero in un abbraccio.
«Non credo riuscirei a dormire» le sussurrò all’orecchio.
«Nemmeno io, temo.» Lo strinse forte a sé. «Non voglio che arrivi il mattino.»
«E invece arriverà, Leila.»
Sciolse l’abbraccio per tornare ad afferrare la spada. Leila tremò, incapace di sostenere la malinconia trapelata dalla voce del marito. C’era una strana luce di rassegnazione negli occhi che la guardavano. Tremò ancora.
La fissò con una tale intensità da fermarle il respiro. «Hai paura?»
Leila scivolò lungo le lettere insidiose di quella domanda. Ne assaporò ogni tagliente spigolo, e si scorticò contro una consapevolezza che temeva di esprimere a parole. «Vorrei che non fosse necessario.» Si limitò a rispondergli.
«Lo è.» Ci fu un sospiro. «Lo sai.»
D’improvviso si rese conto di essere troppo nervosa.
Lasciò il letto e raggiunse la finestra, scostò la tenda e osservò il cortile di Hawk’s House.
Alla tremula luce della candela, la neve risaltava contro l’oscurità e una
pioggerellina, fine e decisa, batteva contro il vetro.
Lewis l’aveva raggiunta, avvicinò il viso al collo. «Qualunque cosa succederà domani» le bisbigliò. «Sappi che sono felice di averti incontrato.»
Il bacio che le lasciò sulla pelle le fece socchiudere gli occhi. «Lewis» fu l’unica parola che riuscì a pronunciare.
Le labbra si poggiarono sulle sue e la lingua s’introdusse con urgenza. Vorace, possessivo. Fu travolta da quel bacio che sapeva di tante cose: dolore e amore si fondevano in un tremito carico di timori e di una parola, tetra, in grado di fermare i loro cuori.
Chiuse gli occhi, sperò con tutta se stessa che quello non fosse un addio.
La invitò a sdraiarsi sul letto, la camicia da notte le scivolò dalle spalle in un gesto familiare. Lewis scese sui seni, famelico, e fu costretta a inarcare la schiena. Un brivido a schiudere la bocca. Le labbra le risalirono il collo e le sue mani affondarono nelle onde castane che tanto amava sentire tra le dita.
I loro occhi si fusero in un abbraccio liquido, lucido di eccitazione e lacrime, in grado di rendere quelle carezze quasi strazianti. Le braccia si unirono, le dita di Lewis artigliarono le sue spalle, con foga. Le mordicchiò il collo, le mani che scendevano lungo i glutei.
Si aggrappò al marito, la sua pelle fremeva, lo chiamava. I capezzoli strusciavano contro i muscoli, i lembi della camicia le solleticavano il ventre, e le lacrime iniziarono a scivolarle sulle guance.
Lewis le notò, e con un bacio tenero ne assaporò una, poi un’altra e i suoi movimenti si fecero ancora più urgenti, furiosi.
Aveva un bisogno disperato di cancellare il senso di debolezza e di inutilità, il vuoto che si era mangiato l’anima. Le gambe di Leila si aprirono mentre s’inarcava, offrendosi, bella come sempre, con la luce delle candele che riusciva a esaltare l’oro della carnagione. Ne seguì ogni più piccola sfumatura, assaporò le fossette comparse ai lati della bocca, schiusa sotto i sospiri.
Si perse nel nero pece che s’intravedeva sotto le palpebre appena sollevate, sostò sulla punta del naso, sugli zigomi e sul collo. I capelli corvini erano sparsi intorno al volto, una notte priva di stelle che contrastava con le lenzuola chiare.
In vita sua non aveva mai amato in maniera tanto intensa. Entrò in lei. La vide gemere e si mosse più veloce, le mani lo avvolsero, lo strinsero contro i seni.
Danzarono folli di desiderio, tremanti di rabbia, annebbiati di dolore. Lewis si muoveva in lei, con la voglia di portare con sé quella sensazione d’estasi, il profumo esotico, il tocco della pelle liscia sotto i polpastrelli.
Voleva morire con il conforto del viso di Leila accaldato dal piacere, con la sensazione del ventre che si muoveva contro di lui, il respiro che le solleticava le labbra.
Si perse in lei, con la consapevolezza di sapere per cosa avrebbe combattuto l’indomani. La morte di Nora lo aveva precipitato nella disperazione, e per un attimo, si era convinto di non aver più nulla per cui battersi.
Ma l’aveva, e non poteva abbandonarla. Il piacere attraversò il corpo di Leila con un tremore quasi violento. La strinse contro il suo cuore.
Rimasero sdraiati, mani e gambe intrecciate, la candela a rischiarare la loro pelle sudata, gli occhi a vegliare l’attesa di un’alba che faceva paura. Occorreva molto coraggio per arrivare alla fine di quella notte. La vendetta e la sicurezza di anni di scherma non bastavano a calmare i suoi timori più oscuri.
Francis aveva ragione: era ubriaco di sentimenti.
La candela si spense, ormai consumata. Il respiro di Leila era tornato regolare. Nel buio in cui era precipitata la camera ebbe la forza di pronunciare l’unica preghiera di cui aveva davvero bisogno per affrontare l’indomani. «Ti amo, Leila.»