Capitolo 36
Lewis salì la scala cigolante. La bettola era ancora immersa nel sonno ubriaco degli avventori e un odore di cibo cucinato e umori della notte ristagnava nel locale. Dalle imposte iniziava a filtrare con più decisione la luce del mattino.
Spalancò la porta, senza bussare, né dire una parola.
Trovò Henry che aspettava alla finestra. Addosso una coperta cenciosa. Si voltò a guardarlo con un’espressione carica di attesa. E speranza.
Avrebbe voluto dire molte cose al giovane Jacobson. Che era stato un folle a non portare via Nora. Che era stato un vile a non denunciare i disegni criminali della sua famiglia.
Strinse l’elsa della spada. Attratto dalla promessa pronunciata sul cadavere della sorella. Voleva ucciderli, tutti. Persino quel giovane dalla faccia gentile che, tuttavia, non era riuscito a proteggere Nora.
Ma era troppo afflitto. Ucciderlo non sarebbe servito a nulla. Henry avrebbe dovuto vivere con il peso delle sue colpe sul cuore. Affar suo se, prima o poi, ne sarebbe rimasto schiacciato.
«L’ho ucciso.» Gli comunicò, in maniera fredda.
Henry si voltò. Negli occhi la gratitudine e l’eco dei sensi di colpa. «Questo duello ti costerà caro.» Fu il suo commento.
Lewis strinse le spalle e rise appena. Sapeva benissimo da solo che prezzo aveva avuto il sangue di Francis. Si limitò a voltare le spalle a Henry. Lasciò la stanza. Richiuse la porta.
Mentre si appoggiava al legno, prese dalla tasca una piccola boccetta con dentro la mistura di laudano. Ne bevve un sorso, un altro, fino a quando un familiare calore gorgogliò nello stomaco e risalì fino alla testa, con un torpore in grado di togliere la voce ai fantasmi che urlavano, senza sosta, nell’anima.
Scese i gradini, addosso ancora lo sguardo di Francis agonizzante. Sulla pelle il fruscio di mille ricordi.
Sedette a uno dei tavoli. Incapace di uscire da quel posto e ricominciare a vivere. La promessa fatta a Leila, la sera prima, sembrava già perduta nell’oblio del vuoto.
Il duello lo aveva privato di ogni forza e decise di rimanere lì, a farsi mangiare dal laudano, dall’alcol.
«Me ne vado.» La voce di Henry gli arrivò flebile.
Alzò appena gli occhi. «Dove?» domandò, distratto, mentre l’ennesimo sorso scivolava lungo la gola.
«Non ne ho idea. Ma non rimarrò qui un altro giorno. Mando al diavolo tutto.»
Lanciò a terra la fiaschetta con un gesto intriso d’amarezza. «Ora rinneghi tutto, Henry? Tu sapevi… non è così?» La sua voce tremava d’odio e l’istinto omicida tornò a tendere i muscoli.
«Lo sapevo.» Henry confessò in maniera semplice, gli occhi velati di lacrime. «Ma ero l’erede di una fortuna. Ero un Jacobson. Volevo solo ottenere potere e la donna che amavo.»
«Ci avresti guardato morire sul patibolo!» Lewis scattò in piedi, le mani serrate a pugno. «E conoscevi tuo padre.» Tirò un pugno al tavolo. Una scheggia s’infilò nella pelle. «Dovevi proteggerla.»
Henry chiuse gli occhi. «Per questo me ne sto andando, Lewis. Me ne vado all’inferno. A espiare le mie colpe.»
Il visconte di Stone uscì dalla locanda con in spalle una sacca e in faccia il dolore. Lewis non seppe cosa augurargli. Tornò a sedersi, stordito. Le mani a puntellare una testa troppo pesante.
«Lewis.»
Un suono armonioso. Una sorta di canto che riusciva a bucare anche il più torbido degli incubi. Spostò le mani dal viso e incrociò gli occhi che emergevano da sotto il cappuccio.
Una mano delicata era tesa verso di lui, e un sorriso l’attendeva. Un raggio di speranza. L’invito a risorgere. Nonostante tutto.
Lewis strinse la mano di Leila. E decise di continuare a vivere.
Il capitano della Hms Royal Hind accolse l’intricato dedalo di banchine del porto con un sospiro, felice di essere riuscito ad arrivare sano e salvo alla fine di quel viaggio disperato.
«Possiamo lasciarci le tempeste alle spalle, signore.» Haggins, il suo primo ufficiale, sorrideva, come tutto il resto dell’equipaggio.
«È stata una pazzia attraversare l’Atlantico nella stagione delle tempeste, siete stati tutti molto coraggiosi.»
L’espressione distesa, la gioia di essere riusciti a tornare in patria, dopo mesi passati al caldo sole delle Indie Occidentali, svanirono in fretta, davanti al compito che li aspettava.
Negli occhi aveva ancora la devastazione di Kingston, i cannoni che abbattevano le case, le donne e i bambini costretti a fuggire, lo scempio dei corpi maciullati dalle sciabole e dai colpi di moschetto.
La città ricostruita sulle macerie di Port Royal, il simbolo di un’Inghilterra che voleva imprimere legge e ordine oltre l’Atlantico, la punta di una colonia che viveva grazie al commercio, era distrutta.
Intercettò il viso di Nicolas Bawles, riemerso da sottocoperta. Il governatore della Giamaica tornava sconfitto in patria, costretto a comunicare al re che la colonia era precipitata nel caos a causa dei pirati.
E che lo Smeraldo di Venere era perduto per sempre.
Nora aspettava fuori dal mulino, avvolta da un caldo mantello, con il cappuccio a coprirle il viso. Il Tamigi scorreva a poca distanza da lei, sulla superficie danzavano mille riflessi. Appariva placido, sereno, ma lei aveva conosciuto la vera anima del fiume. Sulla pelle era ancora impresso l’abbraccio gelido dell’acqua, il buio dell’abisso.
Il vento sulla pelle, l’odore di erba, il ritmico frusciare delle pale a vento. Da quando la febbre se n’era andata, ogni sensazione si era moltiplicata. Profumi ed emozioni l’attraversavano in maniera così profonda da farla commuovere.
Vita .
Aveva la sensazione di essersi aggrappata con tutte le sue forze alla sua esistenza, di essersela tenuta stretta mentre affogava, durante l’estenuante lotta con il corpo indebolito.
Era riuscita a sopravvivere, in grembo portava ancora suo figlio e al fianco c’era ancora Lorenzo, che l’aveva strappata al fiume.
Ma la sua vecchia vita ancora l’aspettava. Aleggiava sopra i tetti di Londra e chiedeva una resa dei conti. Lorenzo aveva proposto di partire subito ma lei non era più riuscita ad affidare a delle lettere l’addio che le premeva sul petto. Doveva pronunciarlo di persona.
Seduta, sul grembo un libro aperto, tra le mani una penna d’oca.  Il capo reclinato verso l’orizzonte. Le labbra stese in un sorriso sereno, a catturare l’ultimo raggio di sole ambrato del tramonto. Il vestito scendeva in lunghe e voluttuose pieghe rese così bene che parevano reali, non freddo e immobile colore.
I capelli erano dipinti con altrettanta perfezione: tenere curve che ammorbidivano il viso. Le avevano reso uno sguardo vivo, attento e curioso. Sotto al ritratto incassato nella cappella, i versi risaltavano più malinconici che mai.
Li lesse, a mezza voce, mentre il sole s’allungava in un guizzo di luce rossa.
“Siamo solo un battito d’ali, siamo petali che scivolano su un fiume in primavera. Siamo vento e acqua, musica e fuoco. Siamo amore e dolore. Siamo vita che scorre veloce, labbra vibranti d’amore che vanno baciate fino all’oscuro tramontare del giorno.”
Lewis ricordava ancora il pomeriggio in cui Nora gli aveva fatto leggere quei versi, e quando si era trattato di decidere che cosa scolpire alla base del monumento funebre, non aveva avuto alcun dubbio.
Quelle parole racchiudevano l’essenza di sua sorella. Un’anima colorata dai sentimenti più nobili dell’esistenza. Un cuore che non era riuscito a piegarsi alle convenzioni.
Continuava a fissare il piccolo ritratto, un vezzo che aveva voluto concedere per colorare la tomba. Un modo per ricordare a se stesso la bellezza di Nora e cancellare il ricordo di quel cadavere sepolto sotto la pietra.
Avvolse il polso e prese contatto con il nastro. Aveva giurato di non toglierlo mai più. Sarebbe rimasto lì, per ricordargli di proteggere le persone a cui teneva di più.
«Lewis» voltò il capo verso James Skyrm. Negli occhi c’era una strana luce.
«Sono stato convocato?» Chiese, indifferente. Giorgio tardava a scagliare contro di lui la sua ira, per ora lo aveva solamente bandito da corte, ma sapeva che non era finita. La vera punizione doveva essere ancora decisa.
«No.»
La strana confusione sul volto dell’amico iniziò a inquietarlo. «Che cosa succede?»
«Oggi pomeriggio un uomo è riuscito a salire a bordo della Royal Oak .» Skyrm alzò il petto sotto un respiro così violento che, per un istante, gli rimase imprigionato nella gola. «A volte nella vita accadono strane coincidenze. I destini di due vite sconosciute s’incontrano e si confondono.»
Lewis aggrottò le sopracciglia, la voce di James tremava, ebbra d’emozione. «Che cosa stai cercando di dirmi?»
«Qualcosa di così incredibile che non riesco a trovare le giuste parole.» Sospirò ancora. «L’uomo mi ha raccontato una storia. Quella di una ragazza in fuga che ha venduto tutti i suoi abiti, compresi gli effetti personali a cui teneva di più, a una prostituta della sua stessa età, con capelli castani e mossi…»
Fece impattare le sue mani contro le spalle di Skyrm, lo imprigionò in una morsa ferrea, le labbra che non riuscivano più a proferire parola. «Tu, Henry, io… tutti abbiamo riconosciuto quel cadavere…» quasi si strozzò nel pronunciare la frase.
«Ma era gonfio d’acqua, sfigurato dai cani, con gli occhi rossi e sbarrati, i lineamenti rovinati dalla morte…» Stavolta fu James a parlare con voce rauca, incredula.
«È caduta nel Tamigi. Hai visto anche tu che stavo per annegare io stesso.»
«Ma Lorenzo era con lei e nonostante la ferita e la corrente, è riuscito a portarla in salvo, rifugiandosi su una piccola imbarcazione. Apparteneva a un mugnaio dell’Isola dei Cani. Entrambi hanno poi rischiato di morire in preda alla febbre, ma…»
Lewis chiuse gli occhi e concentrò i sensi sul suono dei rami scossi dal vento, sull’odore della terra umida, e i rumori di Piccadilly che giungevano da oltre il muro. Il respiro si muoveva affannoso in petto, il cuore batteva forte e il bruciore alla spalla, dove la spada di Francis aveva colpito, era più che mai reale.
Non stava sognando. Era sveglio. E davanti a lui c’era uno dei suoi migliori amici che raccontava una storia fatta di miracoli e coincidenze.
Sollevò le palpebre. «Mi stai dicendo che mia sorella…»
«Sì.»
Boccheggiò e uno strano sibilo di incredulità e gioia fuoriuscì dalle labbra. Mille pensieri lo attraversarono come un fulmine, ma prima di prendere qualsiasi decisione, di avvertire il resto del mondo e di affrontare le conseguenze di quel miracolo, sentì che desiderava una cosa soltanto.
Era in preda ai tremori, a un’assurda confusione, come se la mente non riuscisse ancora a rendersi conto di ciò che le era stato appena comunicato.
Il dolore faticava ad accettare il miracolo. Lo sguardo tornò al quadro, alla cappella funebre. I suoi occhi avevano un disperato bisogno di accertarsi che l’anima non fosse precipitata in un assurdo delirio fatto di febbre e oppio.
E c’era un solo modo per scoprirlo. «Portami da lei.»
Lewis scese con un balzo dalla piccola imbarcazione, impaziente, posò i piedi sulla banchina. E alzò la testa verso il terreno davanti a lui.  In lontananza un mulino si stagliava contro la sera. Le pale che ruotavano docili, accarezzate dal vento.
Dapprima furono passi lenti, poi iniziò a camminare sempre più in fretta, e infine corse.
Veloce, macinava zolle di fango con il vento che si era preso il tricorno e i capelli che sventolavano, ribelli, impetuosi come il cuore che violentava il costato con battiti così forti da rimbombare lungo tutto il corpo.
In vita sua aveva imparato a conoscere la paura e ad affrontarla, ma quel giorno si rese conto di esserne vittima.
Cedeva, indifeso, al timore di aprire gli occhi e ritrovarsi da solo, nell’oscurità della propria camera, con in mano la pipa ancora calda. E forse, la sua corsa non era altro che un’allucinazione, non poteva essere diversamente.
Risalì il piccolo dislivello e fu accolto dai mattoni chiari del mulino, dal frusciare più intenso.
Abbassò gli occhi verso la donna incappucciata che si era appena voltata nella sua direzione. Il mantello venne adagiato sulle spalle e i ricci castani danzarono nel vento.
Lewis scoppiò a piangere con estrema naturalezza, non si vergognò più di quel gesto tanto intimo e istintivo.
Due passi e si ritrovarono uniti, le loro lacrime si fusero insieme. Le toccò il viso, i capelli, le labbra. Nessun morso di cane, nessun colore bluastro. Solo la pelle di porcellana, gli occhi decorati da sfumature verdi, un respiro caldo e il cuore che percepiva sotto al corsetto.
Vivo, pulsante, gonfio di gioia, come il suo.
Sedevano fuori dal mulino, su una vecchia panca che sembrava essere lì da tempo immemore. L’invitante profumo della zuppa di Darren si espandeva nell’aria della sera, le pale, mosse dall’ultimo vento, cigolavano con un fruscio ritmico, in cui era racchiuso il semplice scorrere del tempo, una melodia antica fatta di sole e buio, vita e morte.
C’era silenzio. Una muta attesa gravida di domande. E di risposte che Nora aveva paura di pronunciare.
«Non avevo il coraggio di dirtelo» mormorò, infine.
Lewis le sorrise, sotto alla gioia del miracolo si agitava, chiara, l’incomprensione. «Perché?»
«Mi avresti convinto a rimanere.»
Il fratello fece un profondo sospiro. «Se Francis…» Lasciò la frase a metà. Non occorreva finirla. «Tu te ne saresti andata e non ti avrei mai più rivisto.»
«Non potevo restare, Lewis» mormorò.
«Non resterai?» E nella voce del fratello c’era un’urgenza, una speranza spezzata che fece male al cuore.
«No.»
«Se è per via del duello, sistemerò ogni cosa.» Cercò di sorridere. Giorgio era su tutte le furie soltanto perché aveva deciso di portare a termine da solo la sua vendetta. Immaginò le conseguenze di un rientro a corte di Nora. Con ogni probabilità, il re lo avrebbe privato dei titoli e abbandonato per sempre, considerandolo solo un assassino a sangue freddo.
Tenne quei pensieri solo per lui. Era disposto a qualunque sacrificio, pur di regalare a Nora la felicità. Ma lo sguardo che incrociò con la sorella fu tremendo ed eloquente.
«Non tornerò.» La sorella gli prese la mano, negli occhi si agitavano le lacrime di un addio. «Lasciami andare.»
Una corda fatta di malinconia si strinse intorno alla sua gola. La felicità di saperla viva si mischiava alla certezza di doversi separare. «Vieni qui.» La invitò ad alzarsi e poi tornò a stringerla forte.
Non le disse niente. La tenne contro il suo cuore. A ricordare ancora una volta, quanto fossero legati, quanto si amassero.
La strinse, consapevole che non avrebbe potuto più farlo. Il nastro rosso sarebbe stato il loro legame, un filo invisibile a tenerli insieme, nonostante la distanza e il peso dell’addio sospeso tra di loro.
Le baciò la fronte. «Ovunque andrai, sarò con te.»
Mormorò tra le lacrime. I miracoli, in fondo, non si compivano senza sacrificio.
Lasciò il mulino. Pochi giorni per predisporre il loro viaggio, per avvertire i suoi genitori.
Prima di scendere il declivio voltò per un’ultima volta il capo, Nora lo fissava dall’uscio, bella come sempre.
Libera.
Lorenzo l’aveva raggiunta. L’abbracciò con dolcezza, in quella stretta c’era la promessa di un futuro fatto d’amore che avrebbe cancellato ogni traccia di sofferenza.
Il cielo era diventato di un rosso intenso, caldo. Un quadro carico d’armonia per fissare nella memoria l’ultimo, intenso sguardo in cui si dissero addio.
Da quel giorno la famiglia Hawk avrebbe custodito il più sublime dei segreti.