LE SCUOLE DI SAVERIO, anno 1972

Materiali per un saggio sull’educazione scolastica di un italiano

 

 

6 gennaio

 

Negli anni del ginnasietto Saverio stava, di giorno, in una pensione per studenti delle Industriali che venivano all’Istituto di Vicenza da varie parti del Veneto e dell’alta Italia, e raggiavano maturità e mondanità. Moralmente scantinavano, e i peggiori potevano parere una manica di reprobi sboccati e miscredenti: ma portavano nelle tasche delle giacche i principi stessi della loro redenzione, formulati da Saverio e da Robertino, figlio della pensione, su striscioline di carta. Succinti messaggi (“Dio ti sente” o “Morire senza confessarsi?”) in stampatello. C’era tra loro un conte, Vanni degli Onesti, bel giovanotto, distinto e aitante che a casa sua in Friuli si occupava soprattutto di andare a caccia di fagiani: i quali del resto erano già suoi. Il più splendido era Beppetto, un personaggio veramente da cinema, “alto e snello”, baffetti sottili, capelli mori a onde, le labbra di carminio e il viso soffuso di un mirabile incarnato. Tutti parevano non ragazzi ma uomini fatti, nessuno più di Mantovani, lombardo, zoppicante, profondamente adulto. Considerava Saverio un bambino insolitamente intelligente (e forse per questo lui stesso pareva molto intelligente a Saverio): però quando gli proposero di ospitarlo a dormire, su una brandina di fortuna, nella sua camera, nei giorni di neve che le corriere non andavano, rifiutò fermamente, facendo capire che un bambino intelligente rompe pur sempre i coglioni.

Nelle lunghe ore dei pomeriggi i giovanotti giocavano a carte: veniva anche un loro collega vicentino, Nardi, atrocissimo bestemmiatore e simpatico uomo, e fu lui che traudì uno sfogo di Saverio contro la persona e l’arte di Silvio Pellico (febbraio 1933). Lo aveva colpito la frase «Il Pellico è snervante e mi sfibra», e la ripeté agli amici. «Come parlano bene questi mocciosi!» osservò, e aggiunse alcuni rilievi sull’ostia consacrata, succinti ma veramente raccapriccianti, e alla sera si trovò in tasca la relativa giaculatoria di espiazione, in lode del “santissimo e divinissimo sacramento”».

C’erano in casa una serva giovane e piacente e un’altra, anziana e molto più brutta di quanto si potrebbe esprimere in a hurry, sgorbiata, a bitorzoli: aveva della nana, della strega e della carruba, poveretta. Un giorno che Saverio stava studiando al tavolo del tinello avvertì un prurito dalle parti del pìmparo e si mise a grattarselo. Era appena passata la serva brutta, e gli venne in mente che figura avrebbe fatto col pìmparo per mano, se ripassava. Ma il brio normale con cui si gratta un prurito improvvisamente ingigantì, e parve che ingoiasse il riguardo della serva brutta e ogni altro riguardo: comparve invece a mezza altezza, su ali dorate, la serva bella, agitando certe sue cose, e il prurito si mise a fare un suo numero assolutamente da circo.

Ma un altro giorno che Saverio giocava col figlio piccolo della pensione, sdraiati sul pavimento alla veneziana, sempre lì in tinello, la serva bella arrivò davvero, sul compasso delle gambe, e si impostò sullo zenit; come lampi di temporale balenarono là sopra, là dentro, le sue cose interne. Erano involte nel loro aereo sudano di tela bianca, del tipo con due dita di gamba e un bel po’ di gioco sul cavallotto. Il progresso ha poi estirpato quell’indumento che in passato era quasi un’idea platonica della femminilità, la cosa più muliebre del mondo. A suo tempo Saverio, cresciuto, notò l’anno dell’avvenuto trapasso, che fu (nel Veneto) il 1946, quando il suo amico Federico nominò in un racconto restato inedito le mutandine di nuovo stile di una ragazza che aveva per le mani, accennando alla loro elegante, forse un po’ insulsa inconsistenza, e osservando che potevano starci in un ditale.

Era una ragazza che Saverio stesso gli aveva si può dire data in mano, mandandogliela con un biglietto di raccomandazione e di auguri, quando capì che lei aveva già deciso di andarci in ogni caso per conto suo. [Cfr. Bau-sète!, 1993] Federico le si affezionò per un tratto, col suo solito distacco. La trovava carina bensì (era vispa e carina), ma vagamente infantile: e un giorno mentre lei dormiva, anzi “faceva la nanna” al suo fianco, concepì il suo storico pezzo. Ed è curioso per me che in questo pezzo chiamasse la ragazza Francesca (si chiamava Remigia), dato che in seguito ebbe a che fare con donne chiamate veramente Francesca, e ne sposò una.

 

A Vicenza Saverio si trovò entrato nel mondo della borghesia urbana piccola e media, quella delle città non grandi del Veneto (ma non sarà stata molto diversa altrove in alta Italia).

Pochi dei suoi nuovi compagni venivano dalla provincia. Il mostro della Val del Chiampo [cfr. FI, 1976] nelle sue furie (ispirate: una condizione maniacale, invasata) gridava: «La provincia è sana!» intendendo che i migliori venivano dai paesi, a cominciare da lui stesso.

All’interno della classe (scolastica) il senso delle divisioni sociali non era in particolare evidenza. Si vestiva praticamente allo stesso modo, mentre nelle scuole in paese il vestire separava i paesani dai contadini, e i signori (in senso paesano: i meno disagiati) dai popolani. E si parlava la stessa lingua: che in città, al ginnasio, era “l’italiano”, mentre in paese era stato il vicentino. Il tono sociale predominante era quello del decoro cittadino; cioè di piccoli borghesi o aspiranti medi. Le cose che si presupponevano, in classe, circa il comportamento, l’ambiente familiare, le reazioni “normali”, rientravano in questo decoro. Era come se il sistema scolastico fosse stato taken over da questo particolare ceto.

 

 

23 gennaio

 

Si formavano isolotti con alberi strani, e pappagalli, scimmie, tartarughe: e poeti. Uno dei poeti aveva accanto un fonografo, di quelli con un vistoso megafono. Si chiamava Victor Hugo (pr. Ugò).Veramente di Ugò ce n’era due: uno era un signore in carrozza subito fuori da Avranches, dove Saverio pensava che dev’essere già difficile (per via del nome) non poetare in pieno giorno, e figurarsi verso sera, nella magica ora del tramonto, proprio mentre il tuorlo d’uovo del sole va a coricarsi in mezzo alle branches. Un signore anziano, vestito da viaggio, con una figlioletta o nipotina direi, alla quale parecchi anni dopo rammentava la scena e sussurrava «Ti ricordi?».

Il secondo Ugò era tutt’altra cosa: faceva suonare il fonografo e ne usciva una voce un po’ metallica, gracchiante ma molto autorevole, che recitava il pezzo che comincia “Ce siècle avait deux ans“. Bello! L’idea di un secolo ancora piccolo, col grembiulino dell’asilo a scacchi bianchi e blu, forse intento a giocare nel cortile di casa, davanti alle finestrelle della cantina, mentre sulla soglia della forgia là in fondo si vede Napoleone, vestito già da Napoleone, che sbuca da dietro, quasi da sotto quel suo parente di nome Bonaparte e fa cucù! Con la congiunta idea che in quel preciso momento a Besançon, come dire a Giavenale o a Castelgomberto, vecchie città spagnole, nasce un bambino, e che per una straordinaria combinazione questo bambino sono io… Pareva cosa di travolgente originalità e bellezza.

Molti anni dopo, a Besançon si percepiva ancora una sorta di minuscola eco di quei suoni, come una spettrale radiazione di fondo. Aveva appena piovuto, c’era una folla di gente in bicicletta che andava a casa, era mezzogiorno: la città tramandava un senso di umido e non poca tristezza, forse per il colore rossastro, stanco, della pietra bagnata. È un colore che esiste in natura, dove tende a generare scoraggiamento, ma esiste anche nel mondo delle parole, e li invece può eccitare e piacere: è il colore che passata la pioggia si raddensa ai muri, e in poesia si chiama cinabrese.

Saverio andò più volte da adulto a vedere certe città a causa di certe poesie conosciute in gioventù, Charleville per esempio. Anche lì il tempo era brutto, sputacchiava. Si sedettero (erano in due) in un caffè nel punto poeticamente pertinente, e stettero a guardare i dannati passanti che si bagnavano.

Questo, di andare in certi luoghi a causa di certe parole era, in Saverio, un disturbo strano. Una volta vide un film che gli parve concitato e brutto, confuso, pieno di pretese, nel quale una donna diceva ogni tanto «J’étais jeune à Nevers» come se questa fosse la chiave della condizione umana.

La cosa irritava Saverio e insieme lo ipnotizzava. Appena possibile (si trovava in tutt’altra parte d’Europa) prese la macchina e andò in Francia, e puntando sul centro del paese, dato che Nevers è molto vicina al centro, arrivò effettivamente a Nevers. Forse c’entrava un po’ il fatto che ogni aspetto del mondo di cui si possa dire o pensare che è l’essenza della provincia lo attraeva: ma una volta lì sarebbe stato difficile dire cosa era venuto a fare. Niente, veramente. Luoghi come quello sono strani punti di intersezione, spiragli da cui si intravvedono scorci sconosciuti e vividamente riconoscibili.

 

 

16 febbraio

 

Le parole del linguaggio scolastico (lezioni, interrogazioni, compiti) non avevano una relazione stretta con quelle usate nella vita ordinaria, nell’ambiente domestico, nei rapporti personali coi compagni, e in ciò che riguardava il lavoro (dei genitori, degli zii) e gli svaghi della gente. Tra la lingua (o le lingue: ce n’era più d’una) della vita e quella “della scuola” non c’era passaggio. A un certo punto si profilò un terzo livello, quello dei testi letterari. Qui si imparava e si poteva cercare di imitare questa o quella forma di lingua letteraria senza curarsi di ciò che si diceva nei testi stessi o si scriveva imitandoli. Era diffusa l’idea che si può parlare e scrivere bene, oppure male. Analizzandola retrospettivamente si vede che essa si articolava in due o tre capi principali, in funzione della speditezza (svelto e sciolto è “bene”, l’opposto “male”), o della peregrinità (parole rare, insolite, da libri stampati), infine, ma eccezionalmente, della sodezza del contenuto dottrinale o culturale.

“Siate spontanei” (parlando o scrivendo) non era un precetto in evidenza; l’idea di tradurre la lingua della scuola in lingua della vita non pareva concepibile. L’unico che a suo tempo arrivò vicino a fornirci una formula pratica per parlare e scrivere senza arrovellarci, fu il filosofo Gentile. Da lui, di cui Saverio lesse alcuni libri (tardi, già affacciato all’università), si imparava una curiosa legge generale, che di tutto si può dire tutto, nei modi dovuti, p.e. secondo questo schema: la natura se considerata così e così è storia, ma se considerata invece così e così non è storia.

Poi, all’università, secondo anno direi, cominciarono a emergere piccoli aforismi indispettiti, come “La miglior prosa italiana è in Alexis de Tocqueville”, o l’altro, “L’italiano è una lingua che serve per esempio a dire quanto è straordinario Arthur Rimbaud”.

 

 

17 febbraio

 

Quando fu in mezzo al guado dell’adolescenza il giovane Saverio si abbandonò a un’orgia di sentimento demotico. La cultura dei cigli di mezzo soffiava nella sua testa, col favore di forze ignote. La voce che faceva do re la sol sol restava sullo sfondo; veniva sul proscenio una Sarmatica bionda che aveva tante cose che ti voleva dire in una sola ma grande come il mare; per le strade i giovanotti davano del tu all’incantesimo d’amor, altri intonavano le cose da ridere, «… se non vieni sai che fo? prendo il treno e me ne vo: tu dirai che non lo fo. Lo fo!». E poi i giornali umoristici, e i “romanzi” ungheresi e angloamericani, le avventure a Budapest, le stelle che guardano in giù…

Si sarebbe detto che la cultura dei cigli alti lo stesse già prendendo in corpo! Forse la battaglia per le finezze da insufflare nella gente era già perduta!

(Di relativamente buono c’era questo: che non era ancora venuto Sardanapalo a far le stesse stessissime cose con l’aria di “fare cultura”. Almeno, grazie a Dio, avevamo Lucio d’Ambra e Salvator Gotta anziché i nostri sopraccigliosi maestri, la cui “cultura” è essenzialmente middle-brow, ma vuol fare la furba.)

 

 

25 febbraio

 

Ho impressione che — negli anni tra le due guerre — il compagno di banco mancasse quasi del tutto nell’assetto scolastico inglese, forse perché lì le scuole non erano fondate sul banco biposto. In Italia il compagno di banco era un istituto ben caratterizzato, parte importante dell’esperienza scolare.

A Saverio, dopo l’età degli Adriani, degli Schiavo, dei Dal Molin che appartenevano al club dei “bravi” toccò per compagno — per puro caso — un personaggio di tutt’altro tipo, Emilio Bonato. Al quale della cultura scolastica, in fatto di lingue, letterature, storia, non importava niente. Non che la avversasse o la contestasse attivamente, anzi la sopportava con ammirevole pazienza. Il suo vero interesse era per l’opera lirica, di cui a scuola non si parlava e non si sapeva molto. Emilio mormorava, recitando: «È la solita storia del pastore: il povero ragazzo voleva raccontarla… E s’addormia…». Poi, cantando in sordina, ma con un senso di invasione dal basso più travolgente che nei poeti: «Anch’io vorrei… dormir così… la pace, almen l’oblio, trovar…» e via fino all’ ahimè! finale della romanza. Era la sua Iliade, i suoi Sepolcri.

All’inatteso colpo di fortuna che gli era capitato, di trovarsi in banco con Saverio, faceva fronte con dignità. Non chiedeva le versioni, nei compiti in classe, e non copiò mai una parola in modo indiscreto. Non ammirava e non disprezzava le virtù scolastiche di Saverio. Amava invece perdutamente la Wally di Catalani, e intonava con devozione il patetico «Ebben ne andrò lontana / come va l’eco della pia campana…» restato anche per me, che dal banco vicino tendevo l’orecchio per ascoltarlo, un impareggiabile vertice di patetismo popolare. Piaceva tanto a Emilio la Wally che per il gusto di assaporare il suo nome si attaccava perfino alle canzonette moderne, e io stesso canto ancora con sentimento, stonando forse un po’, l’emozionante «Come Wally / me ne andrò lontana… do mi sol do…».

Era bonario, malinconico, casalingo, ma con una sua finezza paesana (veniva da Orgiano, paese allora molto paesano) e una sorta di ironia nativa, non intellettuale. Aveva preti e suore in famiglia, e in particolare un fratello prete, più grande di lui di qualche anno, pieno di energia e (si diceva) estremamente litigioso: contavano che quando morì il Papa e ne fu fatto un altro era stato visto sfrecciare in bicicletta nelle strade della bassa vicentina, sottana al vento, diretto a Roma per protestare. Anche a questa forma di cultura il giovane Bonato pareva quietamente refrattario, come a Alceo e mi pare anche a Sallustio. Gli piaceva invece qualche uscita di Orazio, nelle odicine personali: ed è a lui che dobbiamo la suggestiva resa di “te fruitur aurea” con “ti frua”, come dire “ti consuma, ti logora”. [Cfr. Maredè, 1991 e “Cosa passava il convento?”, 1996, poi in Materia, 1997]

Saverio doveva parergli un principino della cultura urbana, vista come madre della sottocultura scolastica: un piccolo conquistador; al quale tuttavia sarebbe piaciuto saper vivere nel modo semplice e furbo del suo compagno di banco.

 

 

3 marzo

 

Come si pensava alle classi popolari nell’ambito della cultura ufficiale e scolastica quando Saverio era al liceo? Era assai forte il senso che a ciascuno la sorte assegna un suo posto nel mondo: pensiero che almeno nel Veneto aveva importanti associazioni religiose. Come Dio ci ha fatti grandi o piccoli, belli o brutti, furbi o stupidi, così ci ha fatti signori o poveri. Il tuo dovere nei confronti delle classi popolari era di non fare come il ricco Bulone, pensando solo a banchettare, ma dare almeno un po’ di briciole ai lazzaroni.

Politicamente, si sapeva che c’è il problema di indurre le classi popolari a starsene buone, di sottrarle alla perfidia socialista che ne fa una canea, sfruttando il loro malanimo naturale, la profonda voglia di far niente, il vandalismo innato. Nei testi della cultura scritta si trovavano bizzarre attestazioni di stima e perfino di ammirazione per le turbe del popolo. Quando si gettano nel fumo e la mitraglia, per esempio, sono stupendamente impetuose. Purché fosse un po’ lontano nel tempo (Rivoluzione francese, fatti del ’48), bisogna riconoscere che la plebe vile ne aveva fatte e dette di splendide. Santa canaglia!

A parte questo, il modo in cui ce ne infischiavamo di ciò che succedeva al resto della gente nella vita ordinaria è quasi incredibile.

 

 

17 marzo

 

Ai piedi di una pagina di un suo quaderno di prima liceo, a destra, Saverio scrisse un giorno con mano trepidante, a matita:

“Noi aspiriamo a creare un tipo di suora che consideri il salto alla Horine un’espressione dei suoi rapporti col mondo e con Dio”.

Altri emozionati aforismi su questo tema si trovano qua e là, annotati ai margini dei suoi libri e quaderni di scuola. A volte si parla del crawl, altre volte del meraviglioso movimento laterale della coscia, quasi sgallonata sull’anca, nel passaggio dell’ostacolista sugli ostacoli alti. Quella corporea melodia circolare, quello snodo potente! Saverio credeva di essere in questa materia un profeta, e lo era; ma pensava in confuso che le sue generose invenzioni, verificandosi un giorno non solo nelle parole dei programmi sportivi, ma anche nei fatti, avrebbero spaccato la buccia del mondo e fatto sbocciare, con la suora nuova, un nuovo pensiero.

Così l’immagine fantascientifica della contegnosa zia Ottavia (ma anche un’altra qualunque delle zie) al volante di un’automobile, in atto di cambiare marcia all’in giù nell’affrontare una curva, con quella accelerata simultanea e il doppio colpo di pedale, che si credevano allora alate invenzioni dei maschi per i maschi, pareva intrinsecamente rivoluzionaria.

Con la parola rivoluzione, e i derivati, si giocava anche allora. Era un termine di lode, sia per le cose del passato (in ogni libro di storia c’era qualche rivoluzione buona e bella, da non confondere con le rivolte perlopiù brutte e sbagliate), sia per il presente. Si apprendeva che la nostra rivoluzione era continua, cioè per un verso permanente, per un altro rifatta e rinnovata di continuo, cioè altamente impermanente. In verità, pensando a come si muove la terra, a Saverio non pareva che “rivoluzione” fosse la parola giusta, non trattandosi di fare un giro attorno a qualcosa, ma di girarsi su se stessi. Meglio, dunque, la rotazione francese, la rotazione bolscevica, l’affiato rotatorio del fascismo. L’emblema di questi importanti aspetti della storia etico-politica era la trottola della nostra infanzia, la móscola!

I libri esaltavano la rivoluzione copernicana (una rotazione mentale che metteva una rivoluzione al posto di un’altra) e lodavano il filosofo Immanuel Kant per averla riprodotta nello studio del pensiero umano. Si direbbe dunque, pensava Saverio, che cambiare è quello che conta, e rovesciare, capovolgere, ribaltare conta supremamente. In pratica nessuno sfidava nulla, ma l’idea della sfida era molto diffusa e piaceva. Ogni volta che qualcuno, a sentire i manuali di storia o storia del pensiero o storia della scienza, aveva fatto una sfida copernicana eravamo tutti felicissimi. Che bravi!

Tra i fascisti più giovani era diffusa l’idea che fosse molto desiderabile una nuova rivoluzione (se ne parlava ai littoriali), in pratica una rivolta contro i gerarchi e “i commendatori”, destinata a mettere al loro posto i giovani rivoluzionari. Questo speciale ruolo della gioventù, che doveva aver avuto una sua parte nei primi tempi del fascismo, riemerse negli ultimi. Ma i nuovi giovani volevano insieme la rivoluzione e anche il fascismo; cioè, il fascismo andava benissimo, bastava cambiarne l’aspetto, facendogli fare un giro su se stesso. Questi erano però i più esigenti dei giovani, i più complicati. Altri erano tanto più semplici, e non volevano niente.

 

 

28 marzo

 

Alle adunate del sabato fascista Saverio si trovò in squadra col secondo figlio del Provveditore: l’altro, il primogenito, era vispo, piccolo, attivo, questo tardo, grosso, stupido. Cercava di cantare con gli altri una (sciocca) canzone sconcia che descriveva le mosse finali di uno stupro, quando con “… una mano sopra il petto” di colei che si stupra, ci si mette “a far fiu-fiu, ah-ah!”.

Nelle latebre del suo testone, il culmine dello stupro non era mai stato molto chiaro. Gli pareva di capire che si esegue con le mani, e cantava ad alta voce con virile sussiego, marciando:

«… una mano sopra il petto, / l’altra a far fiu-fiu, ah-ah!».

Il capomanipolo, biondo aitante prestante, e nazista, s’infuriò. «Imbecille!» gridava, indignato all’idea di questa vergognosa innocenza.

Era lo stesso capomanipolo che un giorno osservò ad alta voce quanto era degno di nota il fondo schiena di Saverio che marciava in fila ai suoi comandi. Forse era retorica mutuata da fonti germaniche, o forse sincero gusto personale. Saverio fece finta di non sentire. Il giovane capomanipolo andò poi aviatore, e alla guerra, e alla guida di apparecchi da caccia: e andò a farsi sforacchiare in aria in modo eroico per un verso, insulso per un altro: e sarà poi salito a fare fiu-fiu, ah-ah nella zona dei garofani eterni. Quelli del giovane Arthur, scuri e increspati. Violetti.

A scuola c’erano alcune verità assiomatiche, per esempio che la civiltà è quella occidentale (ma non si sarebbe detto così; l’idea era che la civiltà è la civiltà). Si sapeva che altri, egiziani, caldei, si erano arrangiati onorevolmente in passato, con le pietre e coi mattoni: ma la roba di pietra si era insabbiata, i mattoni si erano spappolati… Poi era cominciata la civiltà vera e propria, erano venuti i greci, che facevano cose molto belle con le idee e le parole, e poi i romani con le gonne a mezza coscia e le spade corte e tozze e le strade e le cloache, e poi eravamo venuti noi, e questa era la civiltà. Ogni tanto si avevano dubbi vichiani: da dove diavolo era saltata fuori l’umanità gentilesca quando gli ebrei si misero a nettare la loro parte del mondo, dopo il diluvio, e per prima cosa fecero (secondo le loro manie) un altare e un patto con Dio? Dove cazzo era l’uomo della pietra?

Un giorno a Saverio, devoto giovinetto a quel tempo, vennero in mente i cinesi. Madonna, cosa sono i cinesi? Come si spiegano? Si sapeva che erano tanti e tutti uguali, e che avevano inventato come minimo il baco da seta, e chissà che cos’altro. Ma paradiso, per loro, neanche parlarne. Nonostante gli sforzi della zia Ottavia per convertire tutti i pagani, si sapeva troppo bene che i cinesi non si convertivano. I negretti venivano a dieci lire l’uno, ma i cinesetti neanche a peso d’oro.

Una mattina nella camera di sopra, dove studiava davanti a una finestra inferriata, Saverio ebbe come un lampo di luce, e vide la verità. I cinesi sono comparse! Dio ha organizzato la storia dell’umanità in forma di dramma, una terribile lotta tra il bene e il male, che si svolge qui, nell’Europa dai vecchi parapetti; e ha sparso sullo sfondo turbe di omini senza l’erre e di donnette con gli occhi a mandorla, per movimentare la scena. Si tratta appunto e solo di comparse, non è carne da convertire.

29 marzo

 

Accanto al noi-italiani, al noi-studenti, e a tutti gli altri noi specifici (sempre nell’ambito del noi-cristiani), c’era il noi esistenziale, quello del noi siam come le lucciole, brilliamo nelle tenebre. Considerata nel suo complesso la specie, benché effimera, era però dinamica. La situazione base era che eravamo in cammino; si marciava, a volte esitando un po’, incoraggiati dai motti (“t’avanza t’avanza”) dei poeti.

 

 

12 aprile

 

Era buona, o così e così, la natura dell’uomo e degli altri esseri viventi? Saverio non vide a fondo l’orrenda cattiveria per esempio degli uccelli, fino a un giorno dei primi anni Cinquanta, quando tornando verso casa dalla fermata dell’autobus a Cressingham Road, passando davanti al casottino della British Legion (era un’Inghilterra di baracche da tempo di guerra, casottini, capanne prefabbricate) vide sul margine della strada uno scricciolo aggredire un verme. Un ciuffo veramente furibondo di energie piovve dal cielo e si scagliò in modo forsennato su un bersaglio che forse tentava di sfuggirgli; in un lampo l’aggressore sferrò una gragnuola di beccate, corte, mortali, come una bestiale macchinetta da cucire, ovviamente accecato dalla furia omicida (perché avrà avuto un suo lato “umano”, una sua parentela con noi, la creatura che stava sotto la punta dell’orribile ago). Eccoli, gli uccelletti! Tutta quella rugiada, quelle mossette, quei pianti per le mogli perdute, quelle soavi lagnanze… Già, non si lagnavano proprio per aver fatto fuori i parenti più stretti?

È curioso il senso di irrealtà che nasceva dai tentativi dei poeti di nominare la realtà. Ciuffolotti, rosignoli, forapaglie, cincie, verle, luì, fife, cuculi: questi nomi svolazzavano negli spiazzi della nostra memoria, accrescendo, anziché ridurlo, il credibility gap. E la cosa più strana è che li amavamo così: non ci curavamo di sapere che aspetto avevano, che piume, che becchi. Né del resto come era fatto il mondo naturale, i fiori, gli alberi, le erbe; era una natura verbale, fondata essenzialmente sull’udire, e atta a generare un sopramondo di immagini legate ai suoni uditi. Le cincie e le fife ci sono, agili e vispe, nella nostra testa; e non solo non ci importa di sapere come sono di fatto nei prati e sugli alberi, ma non vogliamo saperlo per non danneggiare le nostre. Ci piacciono le verle e i luì nello stesso modo astratto in cui piacevano le magnolie a quel gentile poeta e amico che, intorno al 1945, diceva in versi alla donna amata, di aver scritto “per te, per le tue spalle di magnolia”.

La faccenda investiva anche le cose che dal più al meno si conoscevano. Chi non sa cos’è un cipresso? Ma qui, sopra l’ombra, tu non vedevi cipressi ma “cipressi”, una specie di pendant delle “urne”. E che cosa diavolo è, veramente, un’urna? È un suono, come (paradossalmente) il silenzio, di cui si può predicare che è divino ed è verde.

Non erano però i suoni di una voce che parla. Non avevano — generalmente — l’autenticità del parlato, benché in certi casi ci capitasse di sentire la naturalezza di una voce: «Ma guarda, che quasi non ci credo, che non sono più in Bitinia, sono venuto via, sono al sicuro!».

 

 

20 aprile

 

Ancora i “noi”. “Quando saremo a Londra ci pianterem la giostra: diremo agli inghilesi che siamo a casa nostra.” Ovviamente basta dirglielo. Nello stesso modo si programmava l’andata a Praga.

Il senso della giostra c’era anche altrove. I libri ci predicavano gli sviluppi di una serie di entità, la romanità, il germanismo, il cristianesimo, sulle quali maestri insigni dissertavano e insegnavano a dissertare anche a noi. Una di queste entità era il corporativismo che studiammo sul testo di un giovane maestro che si chiamava Amintore Fanfani.

Non avevano grande rilievo, in quanto entità astratte, la grecità, né l’ebraismo; e la vicentinità mi pare che non si fosse ancora fatta sentire appieno benché sgambettasse in grembo a G. Piovene e vagisse nella culla di Edo Parise. Il placido A. Barolini, con la sua aria di finto tonto, osservava dal suo ufficio.

 

 

21 aprile

 

L’idea di capire il presente era assente.

 

 

27 aprile

 

A scuola, ai tempi di Saverio e miei, la storia dell’umanità si ripercorreva quattro o cinque volte: come storia vera e propria (dalle piramidi alle paludi pontine); come storia letteraria (dai Feaci alla Cavallina Storna); come storia del pensiero (da Talete al Galluppi); e come storia dell’arte (con particolare attenzione per l’ordine ioni-co, ioni-co, ioni-co ioni…).

Gli autori erano tipicamente persone già morte. D’Annunzio, morto in quegli anni, era stato l’ultimo. Che ci fosse della gente viva che potesse ancora rompere seriamente le scatole in fatto di poesia, pensiero, arte, pareva una idea ridicola. Era diffuso il senso che in termini generali la pienezza dei tempi fosse già arrivata. Non era il caso di aspettarsi che sul piano della cultura le cose potessero cambiare. La cultura era fatta. Restava solo da applicarla alle rozze sfaccettature della realtà contemporanea.

La regina di tutto il sapere pareva la filosofia. Le verità si acchiappano per quella strada: ogni conoscenza si subordina a un sistema metafisico serio. Qualche volta l’importanza della metafisica veniva fraintesa. Liceo, ora di matematica. Marcante alla lavagna traccia un teorema, prova a recitarlo, si smarrisce. Il professore lo stimola: «Oltre questi valori di x, la retta sconfinerebbe…». Dove sconfinerebbe? Marcante non ha idea. Dai banchi dei compagni arriva un suggerimento spietato. Marcante si illumina: «…Sconfinerebbe nel campo della metafisica!».

Nella primavera del 1939, un giorno Saverio improvvisamente intese che cos’è la trigonometria. In seguito nella vita conobbe non poche persone che lo sanno benissimo senza aver avuto il senso di rivelazione che ebbe lui quando un vecchio professore di matematica gli disse, così di straforo, in privato, che è lo studio «della relazione tra l’arco e la corda», sei o sette parole magiche. Questa non era “matematica”, la quale fece sempre a Saverio l’effetto di un veleno troppo potente che gli sbilanciava il cervello fluendo da troppe parti, come acqua attorno a uno che annega: era invece una riflessione umanistica sulla natura della matematica.

Forse facevano più impressione le cose che la gente (certa gente, di cui si sentiva la serietà) diceva casualmente. Ciò che disse della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco, per esempio, un giovane avvocato, tra un tempo e l’altro di una partitella di pallacanestro ai Filippini. Ne disse bene. Molto bene e molto sobriamente. En passant. E il libro entrò nel circolo dei libri più riveriti.

Ai Filippini Saverio fece una “conferenza” sul Quarto Vangelo. Gli pareva infra dig occuparsi di san Giovanni, parlarne in pubblico, senza apparire giovanneo. Esponendosi così a una serie di piccole, parzialmente occulte, catastrofiche brutte figure. [Cfr. “Vicentino di città”, 1984, poi in Jura, 1987]

Di questi infortuni, e della vergognosa disposizione a procurarseli, (chiamiamolo il fuoco di san Giovanni) avrebbe senso considerare responsabile l’ambiente della cultura italiana? C’era gente per bene in giro, che capiva e scontava le ragazzate giovannee. Ma lui era un giovanetto presuntuoso dal cuore vuoto, insensibile. E perdipiù, siccome abitualmente capiva poco, quando per eccezione capiva qualcosa si arroventava.

 

 

4 maggio

 

L’idea di farsi servitori di quell’Assoluto che ci eravamo messi in testa di “concepire” restava sovrana, ma accucciata (per così dire) per terra, corona in testa come Riccardo Secondo. La necessità teorica di porre in rapporto con Esso la propria persona, e dunque le circostanze della propria vita, non era in dubbio: ma in pratica si restava ancora alle prese con gli impegni dello studio e del campo sportivo, correre, saltare, giocare al pallone, scrivere in latino, vagheggiare ragazze o ritrose o proterve…

Mancava il senso di un’opposizione tra la cultura italiana e quella estera, eccetto nel senso che “fuori” fossero un po’ al buio. Bisognava arrangiarsi a riscoprire da sé perfino il concetto che la poesia francese moderna, quella del secolo scorso, è più interessante della nostra. Cominciando ancora e sempre da Victor Hugo, hélas!

Una piccola ventata di idee straniere era arrivata a Saverio, curiosamente, con un sentore di catrame nazista. Fu in quarta o quinta ginnasio. Il giovanotto docente che la produsse, aperto il piccolo otre, è ora un vecchietto lustro e raggiante che cascherebbe dalle nuvole se gli dicessimo che in quell’anno davanti a quella classe fece un vivo, ma giudizioso e riflessivo discorso di propaganda filonazista. Parlò tra l’altro, con qualche calore, del fatto che i popoli non stanno nella camicia stretta dei trattati, i popoli crescono e spaccano la camicia!

In greco si imparava a dichiarare certe piccole verità, che chi piace agli dèi muore in gioventù, o che il poeta è una cosa alata e sacra. Spiccavano alcune immagini, una mela rossa dimenticata su un ramo, o le vergogne grinzose dei guerrieri più anziani caduti in battaglia, tristemente scoperchiate agli occhi degli astanti. Qui alla cruda immagine corrispondeva un termine che pareva bellissimo.

In Euripide splendevano su tutto il resto le due parole di un vocativo, più che sufficienti per creare emozionanti complicazioni nei confronti di Alcesti. Parole spermatiche!

 

 

13 maggio

 

Miracolo di volere qualche cosa, specie di cominciare a volere. Perché si vuole? Da dove viene il misterioso uccello della volontà? Da parte sua Saverio era incline a sopravvalutare la potenza del volere, forse per influsso del pensiero del Duce, di Schopenhauer e del Padre Fasano. Ma un giorno a scuola arrivò come una mazzata l’avvertimento asciutto ed autorevole che bisogna distinguere tra volontà e velleità. Sono due cose totalmente diverse, anzi la seconda è una negazione, una parodia della prima.

Questo gli fece grande impressione, e generò in lui un disdegno vivissimo, forse un po’ velleitario, per la velleità. Tu credi di volere una cosa invece non la vuoi, la vorresti. Volere in modo serio vuol dire volere, oltre ai fini, i mezzi; e comporta dunque chiarezza di idee intorno alle cose di questo mondo. Sotto questo profilo l’introspezione è rischiosa: si scoprono aspetti inquietanti del proprio carattere. In certi momenti a Saverio pareva di essere interamente fatto di velleità!

19 maggio

 

Che cos’è una “materia”? anzitutto un’entità scolastica molto ben organizzata, coi suoi professori, le sue ore, i suoi testi, i suoi voti. Ma dietro a questa organizzazione c’è… che cosa?

Messo per così Machiavelli era “letteratura”, per così “pensiero”, per così “storia”; ma infine per così era l’anti-Guicciardini, una delle due facce dello spirito del Rinascimento. Era quest’ultima valenza che infiammava il nostro compagno contestatore, Gigi il Ghiro, il quale impugnava Machiavelli per dare addosso al “sistema” dei benpensanti di allora e di sempre.

Era molto diffuso l’ossequio per l’autorità (persone, libri canonici), fondato sull’idea che l’autorità c’è, e sarebbe parso una sciocchezza domandarsi se è bene che ci sia, se potrebbe non esserci ecc.

Cioè: ciò che ci mancava era una base per question, mettere in questione, l’assetto del mondo.

 

 

20 maggio

 

Il moderno veniva a coincidere con l’Ottocento. Si incontrava a ogni cantone la piccola camorra Alfieri-Foscolo-Carducci. La poesia del Foscolo ha le sue punte di massima intensità là dove parla dell’Alfieri e dice in sostanza “Com’era grande, com’era pallido!”; la poesia del Carducci, là dove parla anche lui dell’Alfieri e dice “Com’era fulvo, com’era irrequieto!”. Quanto diversa la modernità francese, anche quella non modernissima. Basta confrontare “Io, vate d’Italia ecc. in grigie chiome ecc.” con la verve di concepire un secolo ancora infante e accoppiarlo con un marmocchio della classe del ’due, che (ma guarda un po’) c’est moi!

Curioso: ti attirava la sostanza, il contenuto, le cose del mondo, eppure ciò che si imprimeva negli animi erano le parole, anzi lo spettro fonico delle parole, l’andamento, lo schema melodico… Sembrava un processo simile a quello per cui l’idrogeno compresso e compresso, a un certo punto s’innesca e si accende e fa una stella. Certe sequenze di parole ritmate si accendevano, e restavano incise.

La vita, o almeno la testa di Saverio era piena di versi italiani e stranieri venerati e amati solo per la loro presa linguistica sulla realtà: come se non contasse nulla fare o sentire questo o quello, e tutto dirlo.

 

 

4 giugno

 

Allora: Stimoli da qualcuno dei “professori” al liceo (ti facevano pensare): tracce di una cultura indipendente, o almeno eccentrica rispetto al sistema.

Ora: Un desiderio profondo di vedere rispecchiato nell’insegnamento quello che già si crede. Ridimmelo, che tutto è spontaneità… fammi felice! appaga il mio bisogno di credere ai complotti, la sete di un nemico almeno immaginario. Tutti sono asserviti, tranne io che lo dico; dimmelo anche tu!

 

 

5 giugno

 

Nozioni scolastiche. Naturalmente erano appunto e soltanto nozioni scolastiche, codificate a quel modo per uso della scuola; roba che pareva fossile, poco connessa col mondo reale. Ma prendersela con l’istituto della nozione è assurdo: il mondo si conosce e si controlla in base a nozioni. A un metodo delle nozioni (ritenuto cattivo) non ha molto senso contrapporre un metodo delle non-nozioni (che sarebbe buono). Si tratterà semmai di scacciare nozioni sbagliate, inefficienti, con altre più giuste, che abbiano maggior presa. E naturalmente chi giudica della bontà e della “presa” delle nozioni non è un ideale incorrotto chap che le guarda e le pesa, ma l’imperfetto, parziale, credulo altro chap che le usa.

 

Quando c’erano cose che venivano insegnate giuste, si bevevano.

 

 

10 giugno

 

La “concezione umanistica” che si ereditava, principalmente attraverso la scuola, comprendeva alcune smancerie sulle simpatiche debolezze degli uomini e, con qualche importante riserva, delle donne; una serie di ingenuità sulle virtù dell’arte, ogni specie di arte.

Nella sua specie letteraria l’arte era presentata da un lato come se fosse degna di riverenza perché bella, dall’altro come se fosse bella perché degna di riverenza. In una particolare ode si pregiavano i sentimenti di un onesto benpensante, avanti con gli anni, permaloso, e incline a sdrucciolare sul ghiaccio della strada; in un’altra, ugualmente ammirata, spiccavano dei sentimenti più frivoli, forse equivoci, per un’amica dell’autore che era caduta da cavallo. Amica? Che genere di amica? Caduta da cavallo? Non sarebbe stato opportuno discriminare tra il grado di imperizia o di nera sfortuna della signora (era sposata)?

Dal giro di queste banalità passava nel sangue del giovane Saverio una sorta di veleno — o era un balsamo? - dal quale non si purgò poi mai del tutto; e in questo veleno balsamico era stemperata l’idea che le verità importanti si possono attingere attraverso processi di stampo letterario. Il giovanile — adolescenziale — flirt del ragazzo con la filosofia risentiva di questa convinzione: sotto sotto egli si aspettava che le cose che veniamo a capire si esprimano in forme letterariamente smaglianti, e che in altro modo non si possano esprimere appieno. Dico “appieno” tanto per dire: potrei anche ometterlo.

 

 

11 giugno

 

Tutti lodavano la scontentezza (oltre che, s’intende, la contentezza). Si poteva considerare il fiore delle anime sublimi, come un tempo si diceva che è il pallore del viso.

 

 

21 giugno

 

Copiare, “passare” i compiti, suggerire: queste cose di scuola gli inglesi le chiamano cheating, imbrogliare, barare… Da noi era una parte riconosciuta (e sostanzialmente non disonesta) dei fatti della vita. I suggerimenti guizzavano come lucertole.

Quanti sono i dialoghi di Platone? La risposta da suggerire è “Circa trentadue” (dipende da come si vuol fare il conto). Allora: si mostrano al compagno in difficoltà tre dita, poi due: e poi si fa oscillare la mano aperta con la palma in giù per dire “all’incirca”. A volte la decodificazione scattava in direzioni impreviste, generando risposte stupende: «Alcuni dicono tre, altri dicono due!».

La parte più interessante di questa risposta è “dicono”, che non indica una supposizione, ma un’ostinazione imperscrutabile e inamovibile. Il mondo del sapere è composto di cose che la gente si mette in testa, e praticamente non c’è cosa che qualcuno non si metta in testa. Non è importante dunque che il fatto x (o y) ci sia davvero; ma c’è senz’altro chi lo dice, e questo è comodo. Tutto diventa serenamente problematico, e se si afferma «Alcuni dicono x, altri dicono y» raramente si ha il torto: è uno di quegli stilemi a tutto fare che la scuola porgeva a piene mani, i gigli e le rose della nostra educazione.

C’era un grano di eccitazione intellettuale, quando si sentiva dire per la prima volta: «È una domanda malposta». Trasferire la nozione dell’errore dall’area delle risposte (com’era normalmente sottinteso a scuola) a quella delle domande: questo sì che apriva le porte! In seguito però ricominciavano i guai. Tutto stava nel non “malporre” la domanda, ma quest’arte non solo non era più facile di quella relativa alle risposte, ma era la stessa…

Naturalmente la formula restava sempre utilizzabile sul terreno della tattica scolastica, come tutte le altre formule che puntellavano la nostra esperienza a scuola. I più astuti imparavano a usare certi gruppi di parole, con una micidiale combinazione di soddisfazione e di cinismo. Di questo tipo è la formula “L’uno e l’altro” che è sempre valida, se uno ha capito il vivere del mondo, in risposta al quesito se Bacchilide è triste o lieto, se il Foscolo è classico o romantico ecc. In certi casi questa formula si può drammatizzare (quando c’è da scegliere tra due opposti risultati della Rivoluzione francese, o della spedizione dei Mille) nella variante “Né l’uno né l’altro” che vuol dire la stessa cosa in modo più brillante.

 

 

23 giugno

 

Distinguere tra l’ipo- e l’iper- (tiroideo per esempio), l’anatomico e il fisiologico, la secrezione e l’escrezione: seguire il luminoso andamento diagrammatico degli apparati («o sistemi», soggiungeva Picone), osseo, digerente respiratorio, nervoso, genitale. Dal disciplinato sapere si generava come un empito di novità creatrice: vedi la cloaca, sbocco comune, in certi animanti, degli apparati digerente e genitale; dove pareva al giovane Saverio di aver avvertito lui per primo, e quasi scoperto, la significatività di questo contubernio delle cause della vita coi suoi rifiuti.

 

 

30 giugno

 

Il piacere di classificare le bestie (o le piante) è niente di fronte a quello di vedere come sono fatte dentro, specialmente le più piccole, gli insetti. La chiarezza della loro costituzione pareva travolgente. Hanno effettivamente tutti gli apparati, tanto più interessanti per essere filiformi, cordoncini con nodi. Aprendo cavallette o altre bestiole con una lametta da barba scheggiata in coltellini, lancette, piccoli bisturi, si trovava tutto! Era incredibile.

Dunque il mondo è razionale: dunque nel sottopancia di ogni insetto c’è un filo di cervello! sulla schiena non c’è cavalletta che non abbia il cordoncino del cuore!

È curioso che non ci curavamo molto di accertare come fosse stato messo insieme il corpus del sapere universale. Alcuni dettagli erano notissimi, vedi Marconi: del quale però la cosa più interessante restava il fatto che aveva chiamata sua figlia con quel nome, Elettra, che consideravamo ispirato alle sue scoperte. Favoleggiando, ci sarebbe piaciuto se la sua Galvani l’avesse chiamata Rana, Edison Lampadina, Italo Balbo Idrovolanta…