Vedevo me stesso guardare attraverso lo squarcio nel muro, e i miei occhi, le mie mani e il cielo erano rossi: un rosso vivo a striature rosse.
E il sole, nascosto dietro le nuvole, emanava raggi di luce piena.
Ed era rossa.
E stropicciavo gli occhi.
Le ombre nella selva di rossi cominciavano a farsi notare tra le nuvole che sembrava potessero inghiottire il mondo intero.
Ed erano rosse, e stropicciavo gli occhi.
Sulla sinistra, vapori densi scintillavano nel bagliore del sole, i cui raggi correvano verso la parte opposta fino a piombare a terra, pesanti.
Ed erano rossi.
E stropicciavo gli occhi.
E li stropicciavo ancora, finché non vidi la mia terra sconfitta esalare un colore scuro come un immenso lago di sangue. E non riuscivo a scorgere nient’altro, se non alberi morti, bruciati. Come scheletri sofferenti, allungavano i loro rami verso un cielo che non li avrebbe accolti. E gli alberi diventavano neri, neri, bruciati, neri. Continuavo a guardarli, convinto che fossero morti, ma pulsavano, brulicavano, vivevano. Come dei tubi cavi che succhiavano linfa rossa dal cielo al terreno, linfa mortale che produceva crolli, fosse rivoltate e carcasse di cani.
Stropicciai gli occhi ancora, e li riaprii.
Ero sul letto.
Finalmente sveglio.
Stordito da un sonno in cui non dormivo più, mi misi in piedi e mi avvicinai allo squarcio nel muro, appena fuori dalla stanza.
Ed era rosso. Ed era distruzione. Ed era ancora incubo.
Sospirai alla desolazione della mia Terra, andai a destra e presi le scale che mi avrebbero portato al corridoio. Guardavo in basso attento a dove poggiavo i piedi. A metà percorso, rialzai lo sguardo. Il corridoio mi apparve come una galleria infinitamente lunga dalle cui aperture penetrava luce rossa: sulla terra sarebbe stata l’alba di una giornata di primavera, ma io ero alla Base, e sarei presto entrato all’inferno. Lì c’erano loro: peccatori e innocenti, civili e soldati, bambini e vecchi, anime che chiedevano acqua, anime che imploravano morte, anime che, infine, tacevano.
«Dammi da mangiare» sussurrò una voce rauca alla mia destra. Non risposi.
Mi ferì un odore soffocante: pensai che fosse zolfo e che un diavolo sarebbe sbucato dalle pareti per portarmi con sé. Sapevo che non poteva essere, ma l’odore c’era ancora.
«Dammi da mangiare… ti prego!» ripeté la voce.
Accelerai il passo, seconda cella.
«Dammi da mangiare! Qualunque cosa!» supplicò la voce.
Con un passo lungo, avanzai fino alla terza cella cercando di dimenticare l’orrore di quel suono, avvicinai la faccia allo spioncino e vidi quei due occhi: erano stati piccoli e scuri, ora erano grandi e rossi come il cielo dell’alba.
Come il cielo dell’incubo.
Come il cielo della Base.
E capii: l’odore soffocante era odore di paura.
«Professore?»
«Eccomi» disse con voce rotta e gli occhi gonfi di pianto: sapeva che sarebbe morto, non poteva averlo dimenticato.
«Se non sbaglio, voleva essere lei il primo della giornata» dissi immobile sulle gambe.
Sentii dei rumori alla mia sinistra: due dei nostri stavano percorrendo il corridoio nella direzione opposta alla mia, dalla mensa alle scale. All’altezza dell’ingresso della Base mi salutarono e uscirono. Prima di mettere il naso fuori, uno mi chiese a voce alta: «Hai bisogno di aiuto?».
«No, vai pure» risposi.
Ritornai al Professore.
«Avevamo il dovere di insegnarvi a vivere insieme… La Città era un esempio di pace… di convivenza tra noi e voi. Dove abbiamo sbagliato?»
«Per favore, mi risparmi le sue chiacchiere da letterato! Lo sa benissimo dove avete sbagliato. Pensavate che noi non avremmo reagito?»
Chiuse gli occhi e sospirò.
«È ora» dissi.
«Sono pronto.»
Impugnai il fucile e prelevai il Professore spingendolo con la punta dell’arma. Muovendo passi lenti dietro la sua figura magra, notai che i raggi rossi che mi avevano svegliato si erano dileguati; ora dalle piccole aperture laterali si insinuava una luce bianca: un nuovo giorno era appena iniziato.
Giunti all’ingresso della mensa dove il plotone si sarebbe presto schierato per le esecuzioni, il Professore si voltò di scatto, svelandomi una faccia ricoperta di lacrime: «Ti prego, fermati! Io e te siamo uguali! Vedi: abbiamo la stessa pelle, gli stessi occhi…» allungò una mano per toccarmi «le stesse mani!».
Allarmato dal contatto delle sue dita sulle mie, lasciai partire il calcio del fucile sul suo muso. Si accasciò, mentre nel corridoio rimbombavano i battiti impazziti del mio petto.
Ero io il più forte, ero io quello armato, ero io il vincitore, eppure il Professore, sbattuto a terra, seppe infliggermi una ferita che avrebbe pulsato a vita.
Mi disse che aveva sentito la sua voce. Che l’aveva visto. Che era alla Base.
Le sue ultime parole furono: «Drazen Vivic».
E non ero alla Base. Non più.
Un prato verde e Drazen. La scuola e Drazen. Gli spari e Drazen.
Rinvenni.
Il Professore era morto ai piedi del palco, il plotone si era sciolto, il Comandante era da qualche parte a dare ordini, e io, un uomo solo nell’orrore della guerra.
L’odore della mensa danzava sotto il mio naso a ricordarmi che avrei dovuto ripulire l’ambiente da quel corpo floscio e dai suoi abiti impolverati e fradici, ma li lasciai lì, abbandonai l’anima al suo viaggio e tornai indietro, verso il corridoio.
Drazen Vivic.
Correvo da un lato all’altro affacciandomi alle porte, senza sosta.
E non esistevano più gli spari. E non esisteva più la morte. E non esisteva più il terrore.
Drazen Vivic.
Avevo vissuto ogni giorno con il timore di rivederlo: io appartenevo a noi, lui era uno dei loro.
E se lo avessi incontrato sarei morto, ancora una volta.
Io e lui. Noi e loro. Drazen Vivic.
Osservavo attraverso gli spioncini di ogni cella, mi avvicinavo e le creature informi del giorno prima mi apparivano ora sedate dal loro stesso terrore.
Una cella, e un’altra e un’altra ancora. Non l’avrei ritrovato.
Drazen Vivic.
Rivivevo sulla pelle di lui l’intero percorso che loro avevano dovuto compiere: Drazen sull’autobus, Drazen picchiato, Drazen umiliato, Drazen ridotto al puro terrore.
Drazen Vivic.
Giunto alle scale, percorsi il corridoio a ritroso, ritornando all’ingresso della mensa. Immobile, rividi il corpo del Professore nel punto esatto in cui era morto, sentii ancora l’odore marcio della mensa e seguii la luce del sole penetrare dal finestrone. Nasceva dentro me l’idea che Drazen non fosse più alla Base, che fosse risalito con la grande Folla sugli autobus verso il fronte caldo del confine Sud.
Sarebbe morto comunque.
Percorsi il corridoio ancora, sbirciando attentamente in ognuna delle celle. Mi fermai e sentii una voce: una bambina con un cappotto blu.
«Tu sei un uomo cattivo!»
«Drazen è qui?» le chiesi.
Nessuna riposta.
Sentii delle urla: una voce lontana come una luce nella notte, un debole bagliore che mi avrebbe salvato. Quel bagliore, quella voce, quelle urla erano Drazen Vivic.
Mi precipitai verso quei rumori e a ogni passo il frastuono nebuloso si risolveva in segnali distinguibili: il cigolio di una porta, il tonfo della carne scaraventata a terra, lo strepitio di legni pronti allo sparo. Mi figurai uno dei nostri irrompere in quella cella, intimorire i prigionieri con il fucile in mano, strappare i vestiti dal corpo di una donna…
«Adesso sei morto!» le parole di Alek risuonarono tra tutte e si propagarono dalla cella al corridoio, fino a riecheggiare nel mio cervello. Un dubbio invase la mia mente: lasciar morire Drazen sotto i colpi del fucile di Alek o ucciderlo col mio?
Rallentai il passo. Respiravo a fatica. Nessun suono.
Decisi che Drazen sarebbe morto, ma non sarei stato io ad ammazzarlo. Quando il colpo di fucile esplose, abbassai gli occhi in segno di lutto.
Finalmente vidi il mio stesso corpo avanzare verso la luce tenue che svelava una schiera di ombre in attesa.
Correvo, ora.
Dalle celle gli insulti dei prigionieri sfioravano la mia corsa, e un odore di polvere da sparo mi travolse. Entrai nella cella, e, steso nel sangue, vidi Drazen.
Passai lo sguardo dal corpo di lui ai visi dei prigionieri, ad Alek in piedi, e di nuovo a Drazen. Dalla sua bocca venne fuori un urlo di dolore che si diffuse prima nel corridoio e poi si perse da qualche parte nei dintorni della Base.
«Questo bastardo mi ha toccato e io gli ho piantato un bel pezzo di piombo nelle ginocchia!» disse Alek.
«Ci penso io. Tu vai pure a divertirti, ché te lo meriti…» dissi ammiccando. Il Cane, come molti lo chiamavano, annuì soddisfatto e si allontanò, portando con sé la sua nuova preda, una giovane donna.
Attesi che fosse lontano, mi piegai sulle ginocchia, e mi accostai al suo respiro: «Drazen?» furono le uniche sillabe che la mia voce seppe pronunciare.
«Aiutami, ti prego» supplicò.
Non potevo: Drazen era uno di loro.
«Aiutami, ti prego» ripeté.
Dovevo andare.
E andai.