Il sangue di Drazen colorava ancora i miei occhi, ma ero ormai lontano in una campagna sconfinata: aria pungente e odore di pace.
Gli spari non potevano raggiungere le mie orecchie, saturate ora dal rumore del nostro vecchio furgoncino. Igor, omone grosso e dentatura precaria, si destreggiava tra le buche scolpite dalle bombe su una vecchia mulattiera. Nei sedili posteriori gli schiamazzi di due ragazzini si fondevano con quel rombo rantolante.
Zeljko era grassottello, la sua faccia afflitta dai brufoli; Marko, esile e sguardo vispo.
Erano eccitati all’idea di andare alla ricerca di gasolio, o di un qualcosa che almeno puzzasse come il gasolio: non ne potevamo fare a meno, ci serviva per le auto che ancora andavano, per le caldaie che ancora riscaldavano o per le lanterne che ancora illuminavano. Ignari, i ragazzini ridevano, gridavano, giocavano, ma Igor e io sapevamo che “andare alla ricerca” non era esattamente l’espressione adatta, si trattava piuttosto di… barattare.
Andavamo verso le campagne attorno alla Città che si presentavano a noi quasi intatte.
Verde. Aria fresca. Sole.
Tuttavia, uno sguardo più approfondito avrebbe colto le catapecchie disabitate a destra, i maestosi cumuli di macerie a sinistra, e le ampie stalle imbrattate da corpi di animali putrefatti.
I segni della guerra ovunque.
Lasciammo la via principale e ci immettemmo in una stradina con meno buche: il movimento del furgoncino si fece subito più regolare.
Nelle campagne si nascondevano le famiglie, il cui scopo era quello di sopravvivere alla fame, alle bombe e alla disperazione: erano comunità costituite principalmente da civili. Poi c’erano i piccoli rifugi come la Base, dove uomini impauriti diventavano soldati esperti, e, infine, i campi gestiti dai grandi gruppi paramilitari, che uccidevano per mestiere. Tra i piccoli rifugi e le comunità si era creato un commercio spesso basato sul baratto: ci si scambiava cibo, carburante, vestiti, veicoli e braccia di giovani che avrebbero lavorato i campi.
Il trabiccolo marrone stava rallentando dopo aver imboccato una salita ripida alla fine della quale si estendeva uno spiazzo fatto di alberi e prati. Igor parcheggiò su un lato, spense il motore, e ci fece scendere. Da lontano spuntò la figura grassa di un uomo dall’aria bonaria, fece un cenno con la mano e si avvicinò trascinando i piedi sul terreno: era il Commerciante.
«Salve» salutò sputando per terra.
Rispondemmo al benvenuto.
«Fatto buon viaggio?» ridacchiò alternando le parole a cavernosi colpi di tosse.
Sorrisi e spinsi lo sguardo verso i due ragazzini che giocavano a qualche metro dal furgoncino.
«Sono forti, mi pare» appurò il Commerciante entrando subito nel vivo della trattativa.
«Marko e Zeljko sono giovani e forti. Sono bravi ragazzi, non daranno problemi.»
Il Commerciante annuì, girò la testa e sputò di nuovo.
Ero sicuro che l’accordo sarebbe stato raggiunto, nonostante Igor avesse provato in tutti i modi a rovinare la contrattazione, e intanto continuavo a godermi l’immagine dei ragazzini impegnati a prendere a calci una palla di stracci.
Del resto quella campagna ispirava davvero sentimenti positivi: il cielo era pulito, solo qualche rara nuvola dalla forma bizzarra, l’aria era fresca, e alle mie spalle sentivo le loro voci allegre. Sembrava quasi di vivere una situazione normale, se non fosse stato per l’assurdità del baratto, per qualche colpo di fucile che scoppiettava in lontananza… e se non fosse stato per quella mina che esplose, lanciando i due ragazzini, come missili, per aria.
Proprio mentre stavo per stringere la mano al Commerciante a conferma dello scambio, sentii lo scoppio e, subito dopo, un getto d’aria calda accarezzarmi la pelle del viso e scaraventarmi al suolo.
Igor, il Commerciante e io eravamo ancora vivi, mi girai di scatto: entrambi i ragazzini erano andati.
Verde. Aria fresca. Sole.
E due ragazzini squartati.
Niente bambini, niente carburante.
Marko era morto sul colpo. Zeljko si muoveva a scatti nervosi, le gambe erano atterrate a qualche metro dal corpo, il respiro era ridotto a un rantolo rumoroso, e il viso irriconoscibile: dove la pelle non era bruciata, il sangue zampillava a fiotti.
Mi avvicinai e mi abbassai su di lui. «Zeljko?… Zeljko?» chiamai inutilmente. «Era meglio se morivi» dissi. Non ero sicuro che avesse capito, ma rinunciai comunque, pensando che in una guerra come la nostra sopravvivere era molto difficile. Con due gambe di meno, poi, impossibile.
Doveva aver pensato lo stesso Igor, che si lanciò verso il giovane moribondo. Si inginocchiò, poggiando una mano sulla mia spalla per mantenere l’equilibrio. Gli accarezzò i capelli che venivano via come buccia da una mela cotta. Alzò lo sguardo verso di me. Scosse il capo.
«Riposa in pace» bisbigliò alle orecchie sorde di Zeljko.
Tirò fuori una pistola dalla tasca e sparò.
Sulla via del ritorno, storditi per l’accaduto e senza aver guadagnato una goccia di gasolio, rimanemmo in silenzio.
Igor era impegnato a evitare le piccole e grandi voragini sulla strada e, con le strabilianti evoluzioni del suo trabiccolo, cullava il mio sconforto.
“Peccato” pensai.
Per Marko e Zeljko sarebbe stata un’ottima maniera di lasciare la Base e respirare un po’ d’aria pulita. È vero, c’era una tregua, al momento, ma le bombe tornavano a scuotere la Città sempre più spesso. E poi sarebbero cresciuti nei campi, dimenticando, forse, gli orrori cui avevano dovuto assistere: la fatica del lavoro li avrebbe fatti maturare senza il rancore con cui avrei dovuto convivere io.
Ora tutto ciò non aveva più importanza, eppure le immagini di quei corpi dilaniati continuavano ad apparirmi e a mescolarsi al paesaggio della campagna. Il Commerciante, Igor e io ci eravamo guardati a lungo sbigottiti. Prima di andar via, avevo tentato un ultimo affare: “I due ragazzini hanno scoperto delle mine in queste terre, dovresti ricompensarci comunque”. Il Commerciante aveva abbassato quel suo faccione grasso, sballottandolo a destra e a sinistra. “Mi dispiace” si era scusato. “Ti conosco da tanti anni… e se non stessi morendo di fame ti avrei aiutato. Ma non posso permettermi di regalarti il gasolio” aveva aggiunto. “Tornate quando avrete altre braccia. Allora vi farò un prezzo speciale” aveva concluso, sputando ancora una volta.
Il camioncino sfogò lo sforzo del motore con un rantolo, ritornando poi al suo fievole ruggito.
«Come l’hai conosciuto, il Commerciante?» chiese Igor voltandosi verso di me, per poi tornare a osservare gli ostacoli della strada.
«Era un amico di mio padre. Pensavo che ci avrebbe aiutato comunque.» Un vecchio ricordo affiorò e mi lasciai scappare una risatina smorta.
«Cosa c’è?»
«Pensavo…»
«Pensavi?»
«Quando avevo otto anni, nove, forse… lui vendeva maialini alle fiere. Era stato ovunque, non solo in tutto il Paese, ma anche all’estero. Raccontava dell’Ungheria, dell’Italia e di altri posti che a me sembravano fantastici. Una volta ero alla sua fattoria e mi disse che ero ormai un ometto e che avrei dovuto imparare il mestiere. Mi portò nello spiazzo dietro la stalla, dove era parcheggiato un camion pieno di maialini. Salì e ne prese uno. Lo portò giù e mi ordinò di tenergli ferme le zampe posteriori. Lo rivoltò sulla schiena e spruzzò sulle pelle del maiale un liquido blu. Poi mi passò un coltello, fece in modo che l’animale non si muovesse e disse: “Ora, taglia quelle palle!”.»
Mi scappò una risata. Quanti anni erano passati!
«Continua.»
«Ricordo che lo guardai terrorizzato, ma non potevo far vedere che non ero un uomo. Così presi il coltello e cercai di fare il lavoro nella maniera più corretta.»
Sorrisi ancora ripensando alla scena.
«Allora, come andò a finire?»
«…Quelle palle proprio non venivano via! Andavo su e giù con la lama e il maialino continuava a grugnire e i suoi grugniti a spaccarmi il cervello. Il Commerciante gridava: “Forza! Non sei una femminuccia! Più forte! Tagliali, questi coglioni!”. Io allora alzai il braccio e spinsi quel cazzo di coltello con tutte le mie forze di bambino, e quei coglioni vennero finalmente via. Mi sentii proprio un vero uomo quando vidi il sangue colare sulla mano e il Commerciante darmi delle pacche sulle spalle. Pensai che mio padre sarebbe stato fiero di me.»
La risata sorda di Igor si confuse col rumore del motore. Mentre osservavo fuori dal finestrino la distruzione delle campagne, la mente tornò al gasolio, a Marko e a Zeljko. Il Comandante mi avrebbe probabilmente rimproverato per essere tornato alla Base a mani vuote. Dovevo trovare una maniera di affrontarlo: avrei potuto dirgli che non era stata colpa mia, che non potevamo sapere che c’erano delle mine in quel punto, che avremmo potuto barattare altri ragazzini, che…
«Ferma la carretta!» ordinai. Al centro della strada un essere ancora in vita: giacca verdastra, pantaloni un po’ troppo lunghi per la sua altezza e in testa un cappellino Nike.
Igor parcheggiò il camioncino sul lato della strada, lasciando il motore acceso. Scesi, mi avvicinai e gli chiesi chi fosse.
«Emir, signore.» Quelle parole furono seguite da un lungo silenzio durante il quale i miei occhi gli domandarono che cosa ci faceva da solo nel mezzo di una guerra.
Emir, in risposta, mi regalò uno spettacolo che non osai interrompere.
«Io sono Emir il Cecchino… Ho dodici anni, signore. Mi sono alzato molto presto questa mattina. Non riesco più a dormire, signore…»
Al di là dei suoi riccioli biondi, una sconfinata distesa verde si raccoglieva in una collinetta brulla, butterata da edifici in rovina. Il trabiccolo marrone brontolava lontano. Igor mi guardò, facendo sporgere dal finestrino la sua faccia grossa e la dentatura precaria. Gli risposi con uno sguardo perplesso, e tornai alla voce del nuovo arrivato.
«Sparo alle persone che passano, signore. Questo è il mio lavoro, sì sì! Mi apposto in questa vecchia casa, e aspetto.» Con la mano indicò una vecchia baracca, a una cinquantina di metri dalla strada, che sembrava abbandonarsi a un crollo inevitabile. «Aspetto di sentire il rumore di una foglia, di un ramo, di un cane lontano… Perlustro bene ogni centimetro della campagna, signore. Individuo il bersaglio, sì sì… il bersaglio. Poi recito: “Signore, perdonami per i miei peccati. Signore, perdonalo per i suoi”. Premo il grilletto. Quello cade. Poi aspetto, sì sì… aspetto. Mi chiamano il Cecchino, perché sono il più bravo di tutti, sì sì. Non c’è nessuno più bravo di me… nel lavoro. Io uccido anche da molto lontano. Non colpisco di striscio, non ferisco alle gambe, no no. Io uccido! Quando punto qualcuno nel centro del mirino ci faccio entrare il petto, dalla parte del cuore. Poi sparo: quello si tiene con la mano il punto in cui io ho fatto il buco, ondeggia, barcolla indietro e cade a terra… sì sì, a terra. Seguo la scena con il mirino per essere sicuro che sia morto. Aspetto una trentina di secondi e poi faccio la mia danza e con la bocca faccio il verso degli indiani, e poi, con il coltello che porto in tasca, segno una tacca sul muro, sì sì, una tacca sul muro. Ogni giorno… E aspetto che qualcuno dei loro passi per farlo fuori, e aspetto che qualcuno dei nostri mi porti cibo, e aspetto che questa guerra finisca, signore.»
Igor attendeva paziente nel furgone. Avevo dimenticato Drazen, il gasolio, Marko e Zeljko.
Mi chinai su quel bambino tremante e lo portai alla Base.