Il Comandante era il punto fermo sul quale si reggeva il fragile equilibrio della Base: la sua autorità, sin dall’inizio, non era mai stata messa in discussione. Gli altri uomini erano solo attori sostituibili, intercambiabili, la cui principale occupazione era la gestione dei prigionieri. Ogni giorno, questi attori ripetevano lo stesso identico copione: sorvegliarli, ucciderli, seppellirli.
Quel giorno io avevo già sorvegliato, avevo già ucciso, avevo già seppellito. Così comunicai al Comandante che sarei andato in Città con Igor per continuare la ricerca di gasolio e che se fossi stato fortunato avrei recuperato pure qualche medicinale. Il permesso mi fu accordato.
Il trabiccolo marrone ci condusse fino alle porte della Città, dove le nostre strade si separarono: Emir e Igor avrebbero continuato a “cercare” carburante nelle campagne, io avrei provato a scovare qualcosa, qualunque cosa in grado di lenire la ferita di Drazen.
Era ormai sera, ma l’aria era ancora piacevolmente calda: l’estate sarebbe arrivata presto, quell’anno. Destreggiandomi tra macerie e vegetazione sempre più fitta, mi incamminai verso una vecchia farmacia alla periferia della Città: pensai che fosse il posto più scontato e per questo il più logico da cui iniziare la ricerca.
All’esterno i segni delle bombe erano ben visibili: un cratere di tre metri di diametro, un paio di auto ribaltate, e, tra i resti dei muri crollati, una banda di cani morti da tempo.
Percorsi metà del perimetro della costruzione, ritrovandomi dalla parte opposta: l’ingresso mi aspettava a braccia aperte. “Troppo facile” pensai entrando.
Dovetti attendere alcuni secondi prima che i miei occhi si abituassero al buio. L’interno della vecchia farmacia era vuoto. Che stupido ero stato: davvero pensavo di trovare alcol e garze, e magari una commessa che gentilmente mi chiedeva se per caso mi occorresse qualcos’altro?
Sospirai, evitai le erbe selvatiche e mi avviai verso il centro della Città. Erano settimane che non mi addentravo tra i fabbricati devastati dalle bombe e quei giardini di macerie; perché, a osservarli bene, riscoprivo che la guerra c’era stata davvero e che quella desolazione era il prezzo per la conquista della Città. Avrei preferito dimenticare, ma quelle strade erano così familiari, eppure irrimediabilmente estranee: della piazza alberata dove trascorrevo le mattine a giocare con i miei compagni non rimaneva che una statua disarcionata, il viale centrale aveva lasciato posto a un largo e pericoloso campo minato, e quei pochi edifici rimasti in piedi erano costellati di buchi, incrinature e crepe.
La Città era deserta.
Questo, forse, era il vero terrore.
Raggiunsi la piazza centrale che si schiudeva tra le viuzze strette: non era che un campo arato da cui nascevano oggetti deformi in ferro, pietra e legno. Abbandonai quella vista, e mi introdussi nella strada principale ornata di palazzi barocchi. Erano sopravvissuti gli archi, le finestre, i portoni antichi, ma ovunque segni di granate e muri caduti ne violavano l’antica bellezza. Di molte case non rimaneva che il piano terra: intere famiglie erano state spazzate via insieme al fascino antico della Città.
Scossi la testa per scacciare via quel pensiero, e cercai tra gli squarci delle case, sulla collina lontana, la chiesa di San Filip e il monastero francescano. Niente era stato risparmiato: della chiesa rimaneva solo la facciata, ma sfregiata con una scritta minacciosa: “Questa è la Nazione e la Nazione non dimentica”. Il monastero era stato raso al suolo. Un’intera collezione di libri di storia medievale era finita tra le fiamme.
Tre mesi di assedio. Nessun vincitore. Un’infinità di sconfitti.
Affrettai il passo: dovevo andare avanti.
Un’insegna, ondeggiando al soffiare del vento, sfidava la guerra. Era il Café Bar Diksi.