Vetri a pezzi, bottiglie fracassate, pozzanghere d’acqua e sangue raggrumato. Mi destreggiai tra le rovine del Diksi verso la stanza più grande. In fondo, sul lato destro, un bancone lungo quasi cinque metri, vuoto, senza un barista a dirmi “Signore, prende qualcosa?”. I tavolini e le sedie in ferro battuto erano i soli sopravvissuti. Il poster dietro il bancone era bruciato, la didascalia diceva tristemente: “The Rolling Stones”. I mobili erano ridotti a legna fradicia, gli specchi infranti, le mensole in frantumi: del Diksi rimaneva solo l’intelaiatura, che probabilmente avrebbe ceduto al prossimo giro di bombe, e della mia Venere non c’era più traccia.
Raddrizzai lo sguardo verso il fondo della sala, parte di un edificio antico, uno di quelli con le camere l’una dentro l’altra: se non fosse stato per il disordine, i cocci di vetro e per un orologio fermo sulle due, quella stanzetta mi sarebbe apparsa così come io la ricordavo. Mi tornarono in mente Drazen, Schiele e la famiglia, sorrisi di un sorriso amaro che morì presto sulle mie labbra: in fondo alla sala, fra le macerie, tre cadaveri. Il tanfo di quei corpi raggiunse la mia coscienza, cogliendomi di sorpresa: capii di non poter lottare contro la forza di quell’odore e cominciai a correre, come in preda a un panico inspiegabile. Qualcosa andò storto, inciampai e ricaddi davanti all’ingresso del locale. Dolorante e indifeso, fui preso in ostaggio da quel fetore nauseabondo. Vomitai tutto quello che avevo in corpo, come se ognuno di quei disgustosi conati potesse liberarmi dal peso che mi portavo dentro. Ma mi ripresi e, contro ogni logica, tornai indietro nel Diksi.
Portai la manica della camicia al viso per difendermi da quell’odore e mi ritrovai nella sala, calpestando qualsiasi cosa capitasse sotto i miei piedi: giacevano davanti a me un uomo, una donna e un bambino. La madre era al centro e dal suo corpo due brandelli di carne nera si allungavano verso l’uomo e verso il bambino. Il viso del padre era consumato: i denti scoperti risplendevano in un sorriso raggelante. Il figlio aveva piantato nello stomaco un pezzo del soffitto, che gli aveva procurato una grossa ferita dove ora i vermi stavano banchettando.
Dovevano essere morti in seguito a dei colpi d’arma da fuoco: i fori sulla fronte, perfettamente tondi con bruciature lungo i bordi, non lasciavano dubbi.
Lanciai un ultimo sguardo alla famiglia e proseguii verso il magazzino del Diksi: la porta si arrese a me con insperata facilità e mi apparve uno stanzino stretto e polveroso a malapena illuminato dalla luce che sbucava dal soffitto. Non potevo credere ai miei occhi: la famiglia aveva fatto buona guardia. Le credenze in ferro appoggiate ai muri erano piene di cibarie, bibite, alcol puro e rum. Aprii una bottiglia e ne rovesciai il contenuto nella bocca: il liquido, con il suo sapore intenso, salì fino alla testa, per poi scendere a placare il mio animo.
Rasserenato dal rum, fui attratto da una figura grigia nel grigio della parete: stava di fronte a me, quasi mi sorrideva…
Ma non poteva essere: scossi la testa per ritornare al mondo reale e quello che erano stati capelli, occhi e viso divenne carne informe pizzicata e mangiata da una miriade di ratti. Spaventato, barcollai. Persi l’equilibrio, rischiando di cadere e perdere la preziosa bottiglia.
Decisi di andare via in fretta.
Acchiappai dalle credenze tutto quello che potevo trasportare con i sacchi che avevo con me, lasciai la stanza, salutai la famiglia e corsi via.
L’aria della sera aveva un profumo piacevole, la temperatura si manteneva mite e il tramonto ravvivava l’orizzonte. Seduto sull’erba umida e con le mani in tasca, godevo di quella vista poggiando la schiena alla base della Torre, un deposito d’acqua alto quasi cinquanta metri che per miracolo era rimasto in piedi. Non so se avesse mai veramente funzionato, ma oramai era solo un monumento inutile: la parte superiore era attraversata da un’infinità di fori, tagli e lesioni e da un’apertura che si propagava per quasi tutta la sua larghezza.
Nel silenzio della sera riconobbi subito il ronzio familiare del trabiccolo di Igor che danzava prudentemente tra le buche della strada di fango e ciottoli. Mi sollevai, raccolsi le sacche con le preziose bottiglie e, attento a non scivolare, andai verso di lui. Quando fui vicino, Igor esultò mostrandomi la sua povera dentatura: «Abbiamo recuperato venti litri di gasolio!».
Sorrisi in silenzio e montai in groppa al veicolo sgangherato, che riprese a serpeggiare tra i cumuli di macerie sparse qua e là, arrancando per la scarsa potenza del motore.
«Hai trovato qualcosa anche tu?» chiese Emir, seduto al centro della cabina del furgoncino. Il cappellino Nike sventolava sotto la forza dell’aria che si infilava dai finestrini, coprendo in parte quei ricci biondi che rimbalzavano sulla fronte.
«Sì! Anch’io ho trovato un po’ di cose» risposi, agitando le sacche piene. Guardai ancora Emir al mio fianco, e poi Igor, concentrato con le mani sullo sterzo. Sorrisi: quelle gambe troppo lunghe, quelle spalle troppo grosse e quella sua testa che arrivava a toccare il tetto bucherellato del nostro trabiccolo facevano di lui una figura buffa. Quel pensiero mi rattristò.
Mi lasciavo cullare dal ritmo del camioncino, ma non riuscivo a scacciare l’immagine di quella famiglia, i buchi dei proiettili, le loro carni disfatte. Allora, senza pensarci su, chiesi: «Emir… i tuoi genitori?».
Mi pentii immediatamente di quella domanda così stupida. Alcuni rispondevano “sono stati portati via”, altri “sono stati torturati”, altri ancora “sono stati uccisi”…
«Non lo so» rispose Emir con indifferenza. «Non ricordo molto… no no… ricordo solo che i capi mi portarono in un posto non lontano da qui…».
Annuii, e lasciai che continuasse.
«C’era un rifugio dove io giocavo con altri bambini. Ci piaceva soprattutto quando loro arrivavano… sì sì. Giocavamo con loro come con le lucertole, ma con loro era più divertente.» Il camioncino prese una curva stretta a sinistra, e sentii Emir appoggiarsi al mio corpo. Mi mostrò un sorriso spaventoso che io non riuscii a reggere. Abbassai lo sguardo. «Ma poi un giorno i capi mi hanno detto che ero troppo grande per continuare a giocare… Ma io non sapevo che cosa fare, ero ancora piccolo… e così i capi mi insegnarono a usare il fucile: era come un gioco, sì sì… ma non era un gioco… no no… Il fucile era molto pesante. All’inizio mi esercitavo con lorolegati a un palo: quello era facile, non si muovevano, no no. Poi li lasciavamo liberi di muoversi, e quello era più difficile. Dovevo essere veloce, sì sì… veloce. Mi piaceva, era divertente, sì sì… divertente. Quando poi sono diventato bravo, i capi hanno detto che io ero Emir il Cecchino, e che dovevo stare tutto il giorno in una delle case vicine al rifugio. Mi portavano da mangiare e io dovevo solo sparare alla gente… sì sì… facile… e mi piaceva, era divertente… sì sì… divertente. Finché un giorno… i capi non sono più venuti.» Fece una pausa breve, mi guardò e aggiunse: «Dovrò essere Emir il Cecchino anche alla Base?».
Sbarrai gli occhi e cercai lo sguardo di Igor. Mi rivolse un’espressione allarmata e tornò alla guida lasciando a me il compito di rispondere.
«No, Emir,» balbettai, «alla Base non avrai più bisogno di essere il Cecchino.»
«Peccato! Sono bravo, sai?»
Mi voltai a guardare la strada, sperando che dal quel terribile cilindro non venissero fuori altre parole.
«Era tuo amico?» mi interrogò poi.
Il ronzio del motore in affanno tornò a solleticare le mie orecchie, l’arietta della sera a punzecchiare la mia pelle, mentre la sua voce ripeteva ancora: “Era tuo amico?”.
Agitai le palpebre un paio di volte come se dovessi risvegliarmi da un incubo infinito: Emir sapeva?
Anche Igor, con le mani ancora sul volante del catorcio, si era voltato con aria sorpresa.
Era tuo amico?
«Sì, Emir, era mio amico» mi sentii rispondere, e quell’attimo di silenzio mi parve infinito.