Quel mattino non sorvegliai i prigionieri, non parlai con il Comandante, non partecipai alle esecuzioni. Quel mattino decisi di portare Emir fuori dalla Base. Ma forse ero io che avevo bisogno di liberarmi dall’odore che impregnava i corridoi e le celle.
Dovevo allontanarmi. Dovevo allontanarmi anche solo per qualche ora, allontanarmi dalla Bestia che prima o poi ci avrebbe ucciso.
Emir e io avevamo trovato riparo in una casa abbandonata. Delle mura recintavano il caseggiato principale, un balcone circondava l’intero perimetro del secondo piano e si affacciava su un giardino ricoperto per lo più di ghiaia fina; la vegetazione era fitta, un pozzo nell’angolo lontano aveva abbeverato animali e padroni e, a pochi metri, una stalla si apriva su un porticato in legno. Quelle zone lontane dal centro potevano riservare brutte sorprese, quello sarebbe stato un buon nascondiglio dove aspettare Igor.
«Pensi che riusciremo a sopravvivere?» esordì Emir, masticando pane e parole.
Sopravvivere…
Non mi aspettavo quella domanda da un bambino.
«Certo che sopravvivremo. Non ci pensare neanche a queste stronzate!»
Ed Emir alla parola “stronzate” sorrise e buttò giù un altro boccone. Ma aveva lo sguardo triste: era solo un bambino imbronciato che mangiava pane ammuffito e beveva acqua sporca, un bambino che passava le notti sognando di vecchi massacri, era solo un bambino che aveva conosciuto la morte perché l’aveva generata.
«Sai, io pensavo all’Italia» rivelai, rompendo quel silenzio che ci aveva rigettato nelle nostre solitudini.
Mi guardò affascinato. In una mano aveva ancora un pezzo di pane, con l’altra giocava coi suoi riccioli biondi.
«L’Italia?» ripeté trasognato.
«Sai dov’è l’Italia?»
«È vicina? No?»
«È incredibilmente vicina! Meno di dieci ore con una buona barca» dissi scrutando la sua reazione alle mie parole.
«E la guerra c’è pure in Italia?» mi chiese.
«No, lì c’è la pace» esclamai con soddisfazione, mandai giù un sorso d’acqua dalla borraccia, e continuai ad ammirare la sua figura sfocata nel buio.
“Pace” pensai.
«Pace» disse Emir.
Consumammo tutto il pane, sicuri che Igor sarebbe arrivato presto, lasciando ancora un po’ d’acqua a bagnare il fondo della borraccia.
Mi levai e perlustrai la stalla. Sul terreno sconnesso, i piedi urtarono una specie di botola. La sollevai: un odore tremendo. Ci entrai. Tutto sommato, quella cantina che emanava puzza di chiuso e di umido sembrava sicura. Quando mi voltai vidi sbucare la testa bionda di Emir.
«Allora?» domandò alzando la voce perché lo sentissi.
«Allora…» dissi risalendo le scale che mi avrebbero riportato nella stalla. «Allora raccogliamo un po’ di paglia e ci trasferiamo nella suite al piano inferiore!»
Prese a correre felice. Scossi il capo. Recuperammo la paglia e la spargemmo nell’angolo più lontano. Ci sdraiammo.
«Andremo in Italia?» chiese, fissando un punto del soffitto malandato.
«Emir, riposati.»
«Davvero, andiamo in Italia?»
«Sì» dissi, perché sognasse di pace e non di guerra.
«Ma… se in Italia non c’è la guerra, cosa si fa?» chiese Emir.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire… se non c’è la guerra, i bambini cosa fanno?»
Ero perplesso. Possibile che Emir non ricordasse i tempi senza guerra? Non osai chiedere altro, e continuai a parlare: «La vita senza guerra è bellissima. La città è diversa, la gente è diversa, persino il sapore dell’aria e il colore del cielo sono diversi».
«Come? Non è blu?»
«Certo che è blu! Ma è tutto un altro blu. Un blu che puoi ammirare senza paura di vederci scie bianche, senza paura di sentirci esplosioni…»
«Un blu senza paura» disse Emir.
Rimasi in silenzio per un po’. Emir si addormentò quasi subito: il cappellino su un lato, i ricci srotolati lungo la fronte, la bocca socchiusa e gli occhi spalancati su un mondo fantastico.
Sereno, mi addormentai anch’io.
Quando riaprii gli occhi Emir non era più con me.
La botola era aperta e una luce soffusa, entrando dall’esterno, offriva più dettagli al mio sguardo: le pareti, ricoperte di vecchio stucco, erano segnate da diverse crepe; negli angoli la muffa mangiava quella che in origine era tinta giallognola; di fronte, vecchie bottiglie erano sparse su mensole in metallo. Sentivo voci confuse e grida.
Mi inquietarono.
«Chi va là?» urlai.
Nessuna risposta.
Scossi la testa per tornare alla realtà, mi alzai e raggiunsi l’apertura che portava all’esterno: due ombre allungate delineavano forme inequivocabili. Trattenni il respiro, sperando che il mio battito non fosse troppo rumoroso. Dalla mia posizione potevo vedere l’espressione spaventata di Emir, fermo di fronte all’altro che gli puntava una pistola contro. La sua figura era quella di un ragazzo di pochi anni più grande, il cui viso aveva assunto una strana deformazione dovuta alla luce di una lanterna che si trovava a un paio di metri di distanza. «Adesso sei morto» gridò la voce del ragazzo con la pistola.
«No, ti prego!» implorò Emir, inginocchiandosi.
Non attesi un secondo di più, afferrai la pistola: caricai e puntai, mi concentrai per evitare di sbagliare bersaglio e sparai.
Lo osservai cadere mentre la sua ombra disegnava affascinanti chiaroscuri lungo la parete in fondo. Cadeva lentamente, e lentamente la figura di Emir si scopriva davanti ai miei occhi. Era ancora inginocchiato e parve accorgersi della mia presenza solo in quel momento, quando, sul suo viso, la paura lasciò il posto a un’espressione di stupore che giudicai sbagliata.
Raggiunsi Emir.
Stupore.
«Perché?» chiese.
«Perché?» chiesi a lui, e a me stesso.
Alla ricerca di una risposta, guardai verso il ragazzo: a terra, bagnato del suo stesso sangue, una mano al petto, l’altra, lontana, stringeva ancora la pistola.
Era ormai morto.
E la pistola era solo un giocattolo.