Respirava a fatica, seduto su una panca di legno con la gamba stesa e la testa appoggiata al muro. Drazen era vivo, ma mi sembrava di non riconoscerlo: i pochi capelli crespi coprivano il viso scavato dalla fame, gli occhi infossati eclissavano lo sguardo vispo, le mani, ricoperte di tagli e sangue, raccontavano della sua lotta contro un destino per lui intollerabile.
Intollerabile per me. E per chiunque.
Entrai nella cella.
Fino ad allora nessuno aveva avuto il coraggio di fiatare, ma quel giorno un’esile voce di donna prese forma e domandò: «Che cosa ci farete?».
Mi voltai: nonostante la cappa nera che la guerra aveva disegnato sulla sua pelle, la bellezza di quella giovane donna brillava.
«Perché lo stai aiutando, se poi lo ucciderai?»
Il fiato accelerò nei polmoni, ma rimasi in silenzio. Esitai.
Perché lo stai aiutando, se poi lo ucciderai?
Delle bombe tuonarono e, tra le grida esplose nella cella, la donna gridò: «Lasciaci andare! Qui dentro moriremo sotto le bombe…» e scuoteva il corpo ritmicamente: «Sotto le bombe… sotto le bombe… sotto le bombe…».
Raccolsi tutte le mie forze e la colpii sul viso: la donna stramazzò a terra.
«Silenzio, ora. Presto morirete tutti comunque.»
Il mio sguardo incrociò quello di Drazen. Sospirai. Io dovevo agire così, altrimenti loro si sarebbero ribellati al primo passo falso. Allontanai gli occhi da quelli di Drazen, quando, nell’eco delle urla dei prigionieri, sentii la voce di Emir provenire dal fondo del corridoio: «Sono finiti, sono finiti!». Agitato, richiusi la porta in metallo dietro di me e uscii all’esterno della cella.
La mia gente fuori dal rifugio. Uno ad uno escono, come miracolati, pronti per tornare alla macabra consuetudine della Base. Emir, l’unico, si muove con passo veloce.
Il Fischio si avvicinava, la terra tremava ancora, e la Base cominciò a vibrare fin dalle fondamenta.
Io, fermo a pochi metri dalla cella di Drazen, scorgo la mia gente alle spalle di Emir riparare verso il rifugio, ma lui continua a correre verso di me. Osservo tutta la scena.
Il Fischio circondava ancora la Base, ma io, sordo, uscii all’aria tiepida. Guardai in cielo e lanciai un urlo che si perse fra i lamenti delle bombe. E correvo, e scappavo, e sparivo.
Il Fischio è sulla Base, ora, e la finestra del corridoio decide che quella musica è l’accompagnamento ideale per cedere ai tanti anni e alle tante bombe.
Perso a qualche centinaia di metri dalla Base, crollai a terra esausto, con i polmoni annegati nello sforzo. Il Fischio sfumava e ne nasceva un canto regolare, pacifico, un suono che danzava attorno alle mie orecchie placandole, dopo l’orrore dei minuti precedenti.
Il corpo di Emir, illuminato dallo scoppio, era sangue e polvere e nessun respiro.