Diciotto

Il sole scompariva tra le nuvole cariche d’acqua. Il Cane aveva finito con la Ragazza. E il mio cuore aveva smesso di battere.

Tre colpi. Silenzio. Oblio.

Spostavo distrattamente i piedi sulla superficie irregolare del pavimento tra mattonelle nere, collinette e buche, quando fui conquistato dal ritratto della mia ombra che giocava tra le crepe delle pareti: danzava in un ballo popolare di musica allegra, e, mentre alla Base era l’ombra di un aguzzino, in quel regno lontano si accendeva di gioia. Incantato dal percorso delle luci, un desiderio mi sorprese: andare via, perché ovunque sarebbe stato meglio che qui. Via, quando il Bar Diksi era ancora in piedi; via, quando la Città era ancora popolata da turisti; via, quando Drazen mi raccontava d’arte e Darka ci serviva i caffè.

Trascinai i miei piedi lungo il corridoio e arrivai alla loro cella. Guardai dentro: al centro, Darka e Drazen.

Lui era disteso su una panca di legno, gli occhi spenti in una smorfia di dolore; lei smagrita, capelli crespi, viso sporco, labbra screpolate. Teneva la testa di lui sul proprio grembo e gli sfiorava il viso, accarezzando con cura ogni nuova ruga nata in quegli anni di guerra.

E allora capii.

Avevo permesso che facessero e che facessi.

Che torturassero e che torturassi.

Che uccidessero e che uccidessi.

Solo, come un bambino che ha appena imparato a camminare, presi a barcollare. Volevo piangere, unirmi a quell’abbraccio che mi avrebbe ucciso, ma al tempo stesso salvato.

La pioggia aveva smesso di cadere, ma una nuvola nera come un cattivo presagio aveva inghiottito il sole, scagliando la Base in un’oscurità surreale. E i mucchi di rovine, le case distrutte, le auto ferme, i pali di legno e persino il fango incutevano terrore. E incuteva terrore il terreno che costeggiava il perimetro posteriore della Base: qui si apriva uno spiazzo accidentato le cui macerie, fatte di tronchi d’albero, erano state malamente ricoperte da una colata di catrame da cui spuntava un’infinità di oggetti. All’estrema destra di questo deprimente patio si estendeva un terreno che sembrava appena arato. I cumuli di terra più chiara, che si rialzavano come gigantesche tane di talpa, non erano altro che il sepolcro dei nostri nemici. Guardai quello spettacolo e solo allora mi resi conto che la terra sotto i miei piedi brulicava di corpi in decomposizione. Dalla parte opposta, il mio sguardo fu catturato dal fascino spaventoso della Base: i suoi mille occhi mi spiavano attraverso finestroni ridotti a pochi mattoni. I resti dei piani superiori formavano una cresta di capelli neri mal curati, due protuberanze non identificabili ai lati esterni dell’edificio ricordavano orecchie sorde ai suoni della guerra, e infine una bocca centrale, resa famelica dalle bombe, si apriva regalandomi un sorriso senza denti: la Base era un mostro che ingoiava carne e sputava ossa, era un mostro che mangiava uomini e vomitava soldati.

Riprese a piovere e alcune gocce mi bagnarono le guance, mentre fissavo il nulla inconsolabile della mia Patria. Insieme alle gocce d’acqua, due piccole lacrime salate percorsero i solchi di vita del mio viso, sospinte dall’immagine, ancora fuoco nella mia mente, di Drazen e Darka insieme.