«Scavare con questo fango è impossibile!» esordì Picche, con la pala tra le mani.
Annuii, accennando un sorriso che strideva con il mio stato d’animo.
«Stai bene?»
«Sì,» mentii, «ma preferisco di gran lunga il turno delle esecuzioni.»
«Già! Scavare, trascinarli, sistemarli, ricoprirli…» disse, accompagnando ogni parola con un gesto che simulava l’azione. Scosse la testa e ritornò a scavare.
Poggiato alla pala, ripensai alle nostre parole. Forse Picche le aveva già dimenticate. Io no. Era vero: ammazzarli era più facile. Premevi il grilletto, li vedevi cadere, e il gioco era fatto. Seppellirli era tutta un’altra cosa: trascinare i corpi era faticoso, era faticoso scavare una buca nel fango, posizionarli in modo che occupassero meno spazio possibile; al momento di ricoprirli, era faticoso vedere le espressioni di dolore in quegli occhi spenti.
Quegli occhi ci accusavano. Erano morti, ma ci accusavano.
Dopo un paio d’ore constatammo che le dimensioni della buca erano sufficienti allo scopo, posammo le pale e prendemmo le carriole.
Prendemmo le carriole, quelle che normalmente si usano per trasportare sacchi di farina, cemento, legna… quel giorno, come tanti altri giorni, Picche e io le usammo per trasportare i loro corpi destinati alle fosse che avevamo appena scavato.
Pensavo che non ce l’avrei fatta: andavamo a rilento, mi sembrava di impazzire. Poi, come drogati dall’odore, dimenticammo il luogo, il tempo, i cadaveri: io e Picche trasportavamo solo grossi sacchi di farina.
I sacchi erano posizionati lungo il muro della Base, in una piccola collinetta. Avevo percorso già diverse volte il tragitto dalla collinetta alla buca, e ogni volta che tornavo a caricare un sacco di farina mi sembrava che pesasse sempre di più. Sapevo, però, che non avrei dovuto fermarmi, non sarei più stato in grado di continuare.
Pioveva ancora, imprecai e alzai gli occhi al cielo come se l’acqua potesse purificarmi. Nonostante le nuvole, un ultimo raggio di sole, ormai al tramonto, manteneva la temperatura gradevole. Sospirai e voltai lo sguardo verso Picche, indaffarato a scaricare il suo sacco.
Quel sacco di farina era il corpo di una donna: nudo, tranne che per qualche straccio che le copriva ancora le gambe. Il colore rosso del sangue si intrecciava con il grigio del fango, un miscuglio che risultava esteticamente piacevole. Ad arricchire l’opera d’arte, un disegno macabro si estendeva dal collo fino all’inguine: certo non era stata un’esecuzione ordinaria. Contai una cinquantina di proiettili e realizzai come i fori nella pelle avessero un loro specifico significato.
Una firma.
I punti rossi, con relativi rivoletti di sangue, si chiudevano a formare una grande C che si estendeva distorta fino ai genitali, dove scoppiava in un’apoteosi di colori.
Senza alcuna esitazione, riconobbi la firma del Cane.
Picche non resse e vomitò nella carriola. Si rialzò con la bocca sporca, girando lo sguardo verso di me: roteò gli occhi, mostrandomi la parte bianca, farfugliò qualcosa e alla fine diede di matto.
«Chi va là?»
…
«Questa volta non la farete franca!»
…
«Ora vi sbatterò al fresco!»
…
Avevo imparato che Picche si perdeva nella sua pazzia per un tempo limitato, quella volta, però, i suoi numeri cominciarono a inquietarmi. Quell’uomo basso, vestito come un aviatore della seconda guerra mondiale, con le carte francesi in una mano, una pala nell’altra, la bocca sporca di vomito, correva tra corpi martoriati di pallottole. Appena a tiro, gli mollai un pugno diritto nel viso.
Funzionò.
Cadde a terra e dopo qualche secondo si riprese: era tornato in sé.
Picche era matto, completamente matto, ma era l’unico della Base al quale avrei affidato la mia esistenza. Giaceva nel fondo della sua intermittente follia un seme d’umanità che era scampato alla devastante forza della guerra e brillava nei suoi occhi. Ora, però, quegli occhi assomigliavano ai miei: disperazione, dicevano.
Riprendemmo a trasportare i sacchi di farina, verificando con estremo sollievo che il Cane non aveva apposto la sua firma su nessun altro corpo di donna.