Vent­uno

Un fiume scuro ci separa: il Cane è su una sponda, io sull’altra. I suoi occhi mi fissano e diventano sempre più rossi, mentre alle mie orecchie giungono suoni che escono ininterrottamente dalle sue labbra: «Stai attento, un passo falso e ti faccio a pezzi!».

Una, due, tre, infinite volte ripete queste parole, gli occhi di sangue.

Un passo falso e ti faccio a pezzi!

Distolgo lo sguardo dal muso del Cane, constatando che quel mare è in realtà un oceano scuro rosso di sangue.

Un passo falso e ti faccio a pezzi!

Tronchi galleggianti vengono fuori dall’acqua e assumono una forma precisa: la sua firma, il Cane.

Un passo falso e ti faccio a pezzi!

L’immagine si trasforma e quel fiume rosso ha ora le sembianze di un corpo, morto. Il corpo di Drazen.

Mi svegliai in preda al panico.

Aprii gli occhi alla luce del sole, emisi un lungo sospiro e a fatica mi sollevai dal letto.

Provavo a distrarmi, sgranchendo gambe e braccia, ma fui sorpreso dal mio stesso sguardo nello specchio malconcio all’angolo della parete.

Severi, i miei occhi esaminavano ogni centimetro del mio viso, chiedendo dove fosse finito quel briciolo di coraggio che credevo di avere.

«Drazen è uno di loro» sospirai, giustificandomi con me stesso.

Gli occhi sorrisero, dicendomi che parlavo proprio come mio padre.

«Che cosa posso fare, io? Sono solo un vigliacco. Non posso tradire mio padre, non posso affrontare il Comandante…»

Un fruscio lontano raggiunse la mia coscienza ancora assonnata distogliendomi da quei pensieri, poi un brusio, e infine esplose chiaro un vociare di gente. Mi fiondai fuori dalla stanza, e attraverso lo squarcio della parete la purezza della giornata appena iniziata assalì i miei occhi umidi di sonno. Voltai lo sguardo a sinistra verso l’ufficio del Comandante: era vuoto. La porta della stanza di Alek era chiusa come sempre, ma ero sicuro che nemmeno lui ci fosse. Preoccupato, mi diressi verso il corridoio da cui provenivano rumori sempre più distinti. Scesi le scale di corsa, ma un piede poggiò su un gradino sbeccato e scivolai. Riuscii a non cadere, ma urtai con il ginocchio destro sulla porta della prima cella a sinistra. Degli strilli si propagarono dalla cella.

«Silenzio!» gridai.

Verificai di non essermi fatto troppo male, e presi a camminare, ma dopo un passo mi fermai. Stava succedendo qualcosa di strano: la Guardia non era al suo posto, la porta di una cella era stata forzata, e un mare grigio ondeggiava a pochi metri da me. Chiusi gli occhi, li riaprii e avanzai di due passi. “Sono solo fantasmi” pensai scuotendo la testa.Chiusi gli occhi, li riaprii, avanzai di altri due passi e cominciai a vedere il secchio rovesciato, le lingue, le bocche, i denti, le teste, le mani, i pugni, le spinte e il pane ammuffito disseminato sul pavimento, preda del famelico bisogno dei prigionieri della cella centrale.

Sarebbero potuti scappare facilmente, e invece, storditi dalla fame, raccattavano quel cibo come fosse caviale pregiato, si spingevano, si picchiavano. Uno alzò lo sguardo verso di me. Rimasi immobile, rendendomi conto solo in quel momento che non avevo il fucile. Lui si allungò sul pavimento per proteggere il suo cibo e tornò a mangiarne.

«Rientrate nella cella!»

Non alzarono nemmeno gli occhi, piuttosto ricominciarono a ingurgitare quella poltiglia ancora più velocemente. In piedi tra loro, scalciavo con tutte le mie forze, ma i miei colpi venivano recepiti a malapena. Gridai, picchiai, e caddi. Mi ripresi, mi rialzai, e notai un altro secchio pieno di rifiuti. Li lasciai mangiare, afferrai il secchio e tornai indietro. Aprii una delle celle già vuote e rovesciai il contenuto del secchio al centro della stanza: si precipitarono all’interno e divorarono tutto ciò che ricopriva quel pavimento sudicio. Posai il secchio e rigirai la serratura. A lavoro compiuto, poggiai la testa sul metallo della porta ed emisi un sospiro profondo.

La nostra terapia aveva funzionato: la loro dignità era distrutta, e quegli uomini erano, ormai, animali.

Mi allontanai dalla cella, sentii un fruscio, un passo e un brusio, un altro passo e un vociare sempre più forte: non erano grida di dolore, ma di gente che incitava.

Istintivamente andai alla cella di Drazen: era vuota; solo uno straccio dimenticato copriva parte del pavimento. Mi sforzai di ricordare se fosse appartenuto a lui, ma i loro vestiti erano troppo uguali perché potessi distinguerlo dagli altri. Notai poi un fiumiciattolo di sangue sulla porta aperta, e una scarpa in un angolo.

D’improvviso, spari accompagnati da grida di dolore mi trafissero il cervello, e miracolosamente riacquistai la capacità di muovermi. Corsi verso la mensa. Entrai. Vidi un gruppo di persone schierate ai piedi del palco, sotto la grande finestra che forniva luce all’intera sala.

Spingendo e sgomitando, mi feci strada tra i nostri: agitati, sporchi e stanchi, non mi sembravano tanto diversi dai prigionieri che solo qualche giorno prima avevamo stipato in quello stesso luogo.

«Qui c’ero già io» protestò qualcuno. Lo spinsi a fatica lontano da me.

«Che succede?» gli chiesi poi. Rinunciando a una risposta, giunsi ai piedi del palco.

Padrone della scena era il Cane.

Tuta mimetica, foulard verde al collo, anfibi ai polpacci, pistola ben salda nella mano: il Cane sorrideva mostrando i denti in un ghigno spaventoso. Gestiva la ressa dalla destra del palco, agitando mani e parole, senza fermarsi. Di fianco a lui stavano cinque prigionieri con il volto al pubblico e le teste vicine quasi fino a toccarsi. I primi tre non li avevo mai visti: negli occhi del primo la consapevolezza che sarebbe morto, nel secondo e nel terzo, terrore.

«Signore e signori, lo spettacolo continua. Adesso cercherò di superare me stesso! Forza, un bell’urlo di incitamento… Sì, così… Ancora…»

E scoppiò il putiferio.

Mi girai verso la schiera dei nostri: i fucili, le facce, gli sguardi, le divise malandate si fusero in un’unica massa informe vestita di un’unica giacca bucherellata, con un unico paio di pantaloni ingrigiti.

Per la prima volta i nostri mi apparvero come un’unica Bestia colma d’odio e assetata di morte. Al mio fianco Igor, disorientato come me.

«Con un colpo solo, proverò a farli fuori tutti… Lo so, è difficile. Per questo ho bisogno di voi! Forza, un altro urlo! Forza!»

La gente impazziva, mentre io guardavo i tre sconosciuti sul palco: sarebbero morti, ne ero certo. Gli ultimi due, quelli che avrebbero permesso al Cane di superare sé stesso, erano Drazen e Darka.

«Silenzio!» zittì la calca, alzando le mani al cielo, nella destra la pistola ancora carica. «Volete stare fermi, animali?» abbaiò rivolgendosi a loro.

Godeva. Questo era evidente.

Godeva quando richiamava le dita per far esplodere il colpo. Perdeva bava dalla bocca al pensiero del sangue che sarebbe fuoriuscito a fiotti. Mostrava occhi rossi di eccitazione alla vista di quei corpi in preda all’angoscia. Quel godimento, quella bava, quegli occhi…

Alla fine sparò.

Una lugubre assenza di rumori inghiottì la mensa, turbata solamente dal suono cupo dei cinque corpi caduti. E allora urlai con tutte le mie forze, un urlo che rintronò per l’intera Base, esplodendo nei corridoi, e sfogandosi nelle infinite crepe dei muri. Gli occhi della Bestia, gli occhi dei condannati e gli occhi del Cane furono su di me. Con lo sguardo fisso nel mio, mi rivelò che presto mi avrebbe ucciso.