Sopra il palco, come ogni giorno, il plotone era schierato. Il prigioniero in attesa. Io immobile.
Puntare. Mirare. Sparare.
Il plotone puntava, e io osservai me stesso puntare. Il plotone mirava, e io osservai me stesso mirare. Il plotone sparava e io, come fossi un manichino guidato da fili invisibili, osservai me stesso inspirare, espirare e premere il grilletto. Un colpo partì, un prigioniero morì.
Puntare. Mirare. Sparare.
Picche ripulì il palco, il Comandante accese una paglia, il plotone riposò per alcuni minuti e io di nuovo immobile.
Igor arrivò con un altro prigioniero, il plotone si ricompose, il Comandante prese posizione e disse: «Puntare. Mirare. Sparare».
Partecipai agli omicidi, finché la quarta esecuzione non fu interrotta da una voce familiare.
«Vi vedo annoiati. Adesso la rianimo io, questa festa!» Il Cane apparve all’ingresso della mensa accompagnato dalla Guardia e da un gruppetto di prigionieri terrorizzati.
Ripresi possesso del mio corpo e risposi con astio: «Dove cazzo sei stato?».
«Non preoccuparti» mi bloccò. Indicò i prigionieri e ordinò: «Aiutatemi con questi bastardi e venite con me».
«Non hai risposto: dove sei stato?» sputò il Comandante, lasciando cadere la paglia.
«Venite con me e non vi pentirete!»
«Se è un’altra delle tue, questa volta va a finire male» ammonì il Comandante avvicinandosi al Cane. Blaterarono qualcosa, e con un cenno della testa ci invitarono a uscire all’esterno della Base, dove Picche e io avevamo ritrovato il corpo di donna torturato dai proiettili. Ma ora non c’erano più cadaveri, no… Ora si apriva davanti a me una schiera di condannati a morte. Tra loro, Drazen e Darka.
Un vento improvviso soffiò gelando i muscoli del mio viso in un’espressione di paura. Ritornai in me e la paura diventò sgomento quando vidi gli occhi duri del Comandante indugiare sui prigionieri. Temetti allora che avrebbe riconosciuto Drazen, che avrebbe rivisto il compagno di antichi giochi, che avrebbe capito. Poi lo sguardo del Comandante si spostò su di me: scrutava tra pensieri, ricordi, emozioni, cercando, forse, un indizio che ribadisse la promessa di un tempo, o che potesse, invece, svelare il seme del tradimento. I suoi occhi andarono di nuovo sui prigionieri e si fermarono prima su Darka, poi su Drazen. Per un momento mi sembrò di cogliere un riflesso di pietà.
Fu solo un attimo: i suoi occhi tornarono severi, ma scivolarono sul corpo desolato di Drazen senza conseguenze. La guerra lo aveva camuffato meglio di qualunque travestimento.
«Ecco a voi il percorso della morte» annunciò il Cane, additando dei cumuli di terra ricoperti da pneumatici di diversa grandezza. Non ci fu tempo di replica, chiamò a sé uno di loro e disse: «Vieni qui! Sai contare?».
«Ehm… sì, co… contare» balbettò sorpreso da quella domanda.
«Fammi vedere: conta, imbecille» incalzò.
«Uno, d… due, tr… tre, quattro…»
Il Cane gli scaricò il peso della pistola sulla schiena e quello cadde a terra sanguinando da qualche parte tra le spalle. Il Comandante si irrigidì e lo richiamò con scarsa convinzione.
«Come conti? Devi scandire bene i secondi…» il Cane indugiò, ingoiando la rabbia che lo aveva travolto. «Riprova» aggiunse, cercando di dominarsi.
«Uno, due, tre, qua… qua… quattro…»
Questa volta il Cane andò su tutte le furie e non ripeté la cortesia di prima: gli puntò la pistola contro e sparò.
«Alek, adesso basta con questi giochetti!» urlò il Comandante.
«Hai ragione,» ammise Alek, «ma quel bastardo mi ha fatto perdere la pazienza.»
Restammo immobili, noi e loro, incapaci di prevedere cosa sarebbe successo.
Il Comandante si guardò intorno, poi si avvicinò al Cane, gli strappò di mano la pistola e, tra gli sguardi persi dei sopravvissuti, la consegnò a Picche.
Solo fino a qualche settimana prima, il Comandante avrebbe fatto pagare a caro prezzo questo comportamento. Aveva governato la Base imponendo a tutti una disciplina ferrea, arginando così la furia sadica del Cane. E durante le esecuzioni, pur adottando un rituale perverso, aveva sempre concesso l’ultimo desiderio e fatto in modo che un unico fucile fosse carico: proprio come nelle storie di guerra più vere. Ma ormai il Comandante stava perdendo la sua autorevolezza, e con lui, la Base precipitava in una pericolosa anarchia. Era la stanchezza della guerra che si insinuava dentro di noi portandoci alla pazzia. Stavamo cadendo nella rete d’orrore che noi stessi avevamo costruito con tanta cura, e forse per questo motivo il Comandante sembrò placarsi e fece continuare il gioco: «Spiegaci cos’hai in mente».
Come un animale in gabbia, il Cane camminava lungo la fila dei prigionieri superstiti, analizzandoli a uno a uno. Alle loro spalle il plotone e io seguivamo attentamente la scena, il Comandante a un metro dal Cane e Picche al suo fianco, fiero, con la pistola in mano.
«Mi serve qualcuno che conti bene come un cronometro. Qualche volontario?» chiese il Cane con tono provocatorio.
Qualcuno fece un passo avanti: una bambina magrissima, nascosta in un cappotto blu, i capelli rasati a zero.
Soddisfatto di aver trovato un altro cronometro umano, richiamò quattro prigionieri e cominciò a parlare.
«Due alla volta attraverserete il percorso. Ci sono due circuiti paralleli. Chi arriva secondo viene eliminato…» rivelò assaporando la tensione evidente sui loro volti. «Credo che sappiate cosa voglia dire essere eliminati» disse scoppiando in una folle risata. «Gli altri due attenderanno il loro turno qui» concluse.
Il Comandante, Picche, il plotone, i superstiti, la bambina con il cappotto blu e io eravamo nei pressi del percorso, ma il Cane, preoccupato di garantire la regolarità della competizione, ci fece allontanare dal campo. Dalla nostra posizione, a pochi passi dal muro della Base, vedevamo quei quattro disperati che per salvarsi la pelle avrebbero dovuto correre l’uno contro l’altro. Il cuore mi si riempì di pietà quando si diedero l’addio: si abbracciarono come volessero usufruire per l’eternità della profonda pace che quella stretta donava loro, consapevoli che qualsiasi aldilà avessero raggiunto sarebbe stato migliore di questo inferno.
«Tre, due, uno… correte!» Il Cane inaugurò i giochi.
«Diciotto, diciannove, venti…» una grande esplosione lanciò in aria, in un sol colpo, tutti e quattro i corridori.
«Ventiquattro, venticinque, ventisei…» i resti dei corridori ricadevano a terra.
«Trentotto, trentanove, quaranta» contava la bambina, quando il Cane si riprese la scena, lanciandosi nella sua tipica risata.
«Portate l’insalata, portate dell’insalata! La carne la cuciniamo noi!» prese a cantare. Mi guardò negli occhi, io, immobilizzato dalla paura. Si placò. «Ho due sorprese per voi. Questa è la prima…» disse indicando un altro campo minato. «E questa è la seconda» mi sfidò muovendo la testa verso l’ingresso della Base. «I prossimi saranno loro!» In fondo, accompagnati da due dei nostri, Drazen e Darka. «Saranno loro i prossimi concorrenti» confermò, convinto che non avrei avuto mai il coraggio di affrontarlo alla presenza del Comandante.
Pensai al Diksi, ai prati, al Fiume Blu, alle giornate passate con Drazen e a quelle che avrei voluto passare con Darka, e poi ancora all’inizio della guerra, alla morte di mia madre, allo scempio che tutti noi avevamo commesso e, sorprendendo me stesso, e sorprendendo tutti gli altri, mi scagliai sul Cane, mandandolo a terra. Lo colpii una, due, tre volte, prima che potesse rendersi conto di ciò che stava succedendo.
Vidi una macchia confusa: gambe e braccia e occhi e visi.
Noi e loro, insieme come un tempo.
Sorrisi.
Il Cane ne approfittò e picchiò al centro della mia bocca, e il sorriso si trasformò in un ghigno di dolore.
Come se non fossi il protagonista di quelle scene concitate, ma uno spettatore distratto, lo vedevo allungarsi sopra di me e afferrare il mio collo in una morsa. I prigionieri, Picche, i soldati, Drazen, Darka, il Comandante, e persino il Cane scomparvero…
Drazen legge una poesia, Darka, piccola alle sue spalle, serve i caffè. Attraverso il giallo delle pareti e il verde delle vesti porta in giro i suoi occhi azzurri. Vedo una coppia in silenzio, una signora anziana che legge un giornale, una madre e un padre che ridono quando il bambino pronuncia male una parola difficile, Zeljko e Marko mi guardano fisso. Senza preavviso, una mina esplode, si fa tutto bianco e sangue e polvere e nessun respiro.
Aprii gli occhi: il sole mi accecava. Il freddo del fango premeva sulla pelle. Il cuore affaticato. Paura: il Cane era su di me, io pronto a morire.
Due ragazzini sfrecciano e annusano l’aria che attorno è profumata. Guardano il cielo che è sereno. Ascoltano il fiume che è blu. I loro capelli ondeggiano al vento, ma i riflessi sono grigi. Tremo: le giacche cominciano a sfilacciarsi, le loro risate a diventare grida. La polvere ricade e, nel bianco sporco fatto di infinite particelle, riappare il Diksi.
«Ho aspettato questo momento da settimane» sussurrò il Cane avvicinando il suo alito mortale al mio. Si piegò e poggiò il gomito sulla mia gola a fermare un respiro già stanco. «E dopo sai cosa succederà? Picche getterà il tuo corpo in mezzo al fango. Il Comandante finalmente capirà che sei un traditore. E io… io sai cosa farò?» Esitò per assaporare la sua stessa battuta. «Io correrò dal tuo amichetto, ma non per ucciderlo. No! Lo osserverò, lo esaminerò, ci giocherò un po’… e poi farò a lui tutto quello che loro hanno fatto a me. E quando il dolore sarà diventato insopportabile e implorerà la morte in ginocchio, allora lo lascerò morire nel freddo della cella!… E poi a quella, alla tua puttanella… sai cosa l’aspetta, no?»
Una luce bianca brilla da una fonte che non riesco a identificare, una luce che non mi permette di capire dove siamo: niente odori, niente sapori, niente suoni. Solo io e Darka e una luce bianca attorno. Mi avvicino, e nonostante io faccia mille passi, passi lunghissimi, non riesco a raggiungerla. Cammino, corro, sudo, ma è lontana da me, eppure riesco a vederla benissimo. La chiamo per nome, quando la luce comincia a dileguarsi, e nel buio nascono le immagini.
Provai a liberarmi dalla presa del Cane, ma ero ormai troppo debole. Stringeva sempre di più, le gambe venivano meno, mi rimaneva poca aria nei polmoni: morivo.
Tra la Folla, finalmente la ritrovo: i capelli corti, il viso allungato e bello, la gobbetta intrigante del naso, le labbra sottili e sensuali, i grandi occhi azzurri. È Darka che danza al ritmo della musica. Ondeggiando sulle gambe, raggiunge il bordo della terrazza del Purgeraj e appoggia entrambi i gomiti sulla ringhiera. Rimane così per secoli, lasciandosi guardare.
Una bambina, stretta in un cappotto blu, si avvicina a lei. Parlano e ridono, ma è un blu debole, lo sento. Lo vedo: sbiadisce in un grigio scuro. Un grigio strisciante che inghiotte il blu, la bambina, Darka, la Folla, la terrazza, il cielo, la luna, e risputa tutto in un buio limpido. E in quel buio, nei dintorni di Maksimir, delle luci sorde esplodono nell’aria.
Ancora un bagliore.
E ancora un altro.
E un altro ancora.
Sirene confuse con il suono delle autoambulanze, un tram devastato, nuvoloni su tetti come ciminiere, la Folla è impazzita. Darka stringe la bambina con il cappotto blu, la Folla grida, si accalca, si scontra. Darka bacia la bambina, la Folla corre, inciampa, si rialza. D’un tratto capisco: i nostri cannoni stanno uccidendo Zagreb.
La morte. I cannoni. La guerra. Le esecuzioni. Il fango e le mani al collo, il respiro e la morte, la Base. E prima del buio, un altro colpo di pistola.
Il braccio del Cane si abbatté sul mio petto, un fiotto caldo mi bagnò il viso, e il peso del suo corpo mi schiacciò i polmoni.
“Il Cane sta morendo?… Il Cane sta morendo?… Il Cane sta morendo?” recitai nei miei pensieri come fosse una litania.
Sì, il Cane moriva su di me. E nonostante lo avessi temuto e odiato ogni giorno, una pietà inattesa mi fermò il respiro.
Il Cane era morto.
Il Cane era morto!
Il Cane era solo un incubo: su di me, ancora caldo, giaceva il corpo di Alek.
Picche in piedi, di fronte a me, con la pistola fumante tra le mani e lo sguardo smarrito, diede vita al suo spettacolo personale: «Chi va là? Questa volta non la farete franca!… Ora vi sbatterò al fresco!».
Il Comandante fece un passo verso di lui, gli sfiorò la spalla, come per tranquillizzarlo, e gli sfilò dalle mani la pistola che solo qualche attimo prima gli aveva consegnato. Ripose l’arma tra la cinta e i calzoni e, rivolgendosi ai soldati, tuonò: «Portate i prigionieri nelle loro celle!».
Di fronte alla potenza della sua voce, il plotone, Picche, la bambina col cappotto blu, Drazen, Darka e io rimanemmo tutti immobili, in attesa di un’altra parola, di un gesto o di un segno.
Il Comandante, fermo.
Poi cercò con la mano destra nelle tasche, tirò via una sigaretta, la fece rullare tra le dita per alcuni giri, la portò alla bocca, la accese e mi disse: «Pulisci questa merda!». Inspirò ancora tre volte e lasciò cadere la sigaretta nel fango. «Che nessuno mi disturbi, devo pensare, ora» si congedò. Sull’ingresso della Base si fermò ancora, alzò la voce e, come se solo io potessi sentirlo, ordinò: «Quando hai finito, voglio vederti».