Vent­otto

Un rosso plumbeo impregna l’aria. Alberi bruciati volteggiano i rami verso il sole rosso del tramonto, e, tra essi, ombre nere sfrecciano veloci, e un corvo accovacciato le segue attento. Ho freddo. Le mie mani sono spiegate come in croce, infangate dal terreno rosso del mio sangue: il mio corpo tremante, il mio corpo stanco, il mio corpo ferito da decine di stoccate. Il Cane mi uccide. Affonda pugni e coltellate sul mio petto di uomo morente, ma non sono più io, non più. Sono il Nemico, e al Nemico il Cane vibra mille colpi fino alla morte. Quel corpo sono di nuovo io, e guardo la mia anima librarsi e gridare e il corvo gracchiare. Il Cane colpisce e grida, ed Emir dice: «Uccideremo il tuo amichetto… Vieni… Uccideremo il tuo amichetto…».

Sbarrai gli occhi, controllai le braccia e il petto e ripresi a respirare: ero vivo.

Mi alzai da quel letto duro come una tavola di legno e cominciai a passeggiare nella stanza. Tornai a letto. Mi misi seduto e, portando i gomiti alle ginocchia, afferrai la testa tra le mani. Fermo in quella posizione, rialzai gli occhi stanchi: il bianco delle pareti si sfarinava nel rossiccio dei mattoni; una crepa tagliava il muro fino all’angolo, risolvendosi in una grossa macchia di muffa che si sarebbe presto seccata; in basso, di fianco al letto, il fucile riposava, pronto per un altro giorno di guerra.

In quella miseria brillava il vecchio ritratto: “Siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra… Il nostro opposto e il nostro complemento”. Era quello il messaggio di Drazen, la dedica che mi aveva lasciato, le parole che avrei portato con me per sempre.

Mi avvicinai alla finestra: era quasi giorno. Non avrei ripreso sonno così facilmente, così mi portai fuori dalla stanza, verso il corridoio.

La Guardia fiutò la mia presenza e si voltò puntando contro di me fucile e torcia. Saltai indietro, colto di sorpresa dal suo gesto rapido.

«Che ci fai qui?» mi chiese sollevato. Eravamo tutti allenati alla guerra, ma pochi avevano ancora voglia di farla.

«Come al solito non riesco a prendere sonno» rivelai con sincerità.

«Ci hai tradito!» attaccò improvviso. «Il Cane era il nostro uomo migliore. Se al posto del Comandante ci fossi io… non cammineresti ancora sulle tue gambe» sputò amaro.

Stavo per allungare una mano, portarla alla sua gola e stringere finché non avesse smesso di respirare. Stavo per farlo, ma qualcosa mi fermò.

«Allora, che credi di fare quaggiù?» chiese ancora.

«Quello che devo fare: controllo i prigionieri» risposi spazientito.

Al buio, e con la luce puntata sulla faccia modellata dai colpi del Cane, dovevo sembrare un mostro. A malapena soffocò un sorriso sarcastico, ed esclamò: «Ti ha conciato proprio bene, sei stato fortunato».

«Vaffanculo!» dissi.

«Abbiamo già distribuito il cibo, li troverai pacifici come angioletti» sospirò, non celando la diffidenza nei miei confronti.

Annuii e mi avvicinai alla cella dei sopravvissuti. Il rumore di ferraglia della porta conquistò l’intero corridoio e, avvolto nell’eco, entrai. Il solito movimento portò i prigionieri lontani da me, rivelandomi l’immagine di Darka e Drazen addormentati l’uno con la testa poggiata su quella dell’altra.

“Meglio così” pensai.

Non avevo nulla da dire: loro erano insieme, ora, io ero il nemico. Improvvisamente non sapevo più cosa fare, non sapevo più dove andare: gli occhi dei prigionieri mi fissavano, feci un passo indietro, loro un passo avanti.

Stavo precipitando nel panico quando da un angolo buio sbucò una figura umana. Il corpo minuto nascosto in un cappotto blu, la testa rasata, gli occhi marroni: era solo una bambina. Mi guardò a sua volta, prima di chinare la testa. Posai una mano sulla sua spalla.

«Tu hai combattuto contro quello cattivo?» mi chiese.

«Sì» risposi mesto.

«Come ti chiami?»

«Tu come ti chiami?»

«Io sono Tin» rispose la bambina con il cappotto blu, tirando su col naso.

«Come sei arrivata qui?» chiesi, ma quando le parole divennero voce, l’assurdità di quel suono rimbombò dolorosamente nella mia testa.

«Sono anni che andiamo su e giù… non stiamo mai ferme nello stesso posto. A volte ci sono quelli cattivi, a volte ci sono quelli buoni. Una volta ci volevano separare… Un soldato buono ci ha lasciato andare insieme. Noi siamo sopravvissute… Non voglio più stare qui. Voglio andare a casa.»

«Con chi sei arrivata?» le chiesi per fugare un dubbio che avevo ormai da giorni.

«Con lei» disse indicando un angolo della cella: Darka addormentata.

«E come siete arrivate, Tin?» chiesi ancora, spaventato da ciò che avrebbe potuto rispondere.

«Con un autobus… pieno di gente e pieno di soldati…» disse, tremando un poco.

Sentivo la rabbia crescere dentro, come se la colpa fosse da attribuire a loro, che non erano riuscite a trovare un riparo sicuro a Ovest, più che a noi, che le tenevamo prigioniere. Guardai quella bambina dritto negli occhi e, stringendo i denti e piegando le mani in due pugni, chiesi: «Ma perché siete tornate?».

«Tornate da dove?» rispose Tin, sorpresa dalla domanda e impaurita dalla mia reazione.

«Non ci siamo mai arrivate» intervenne una voce nel buio. Era Darka. Ed era Darka anche quelle ossa sotto la pelle, quel bacino sottilissimo, quelle gambe filiformi, quel viso scavato e pallido. Si sollevò, lasciandosi Drazen alle spalle, e parlò ancora: «Ci hanno preso prima. Non ce l’abbiamo fatta… Che senso ha fuggire? Neanche a Zagreb, forse, saremmo state al sicuro, quando c’è la guerra, la guerra è ovunque».

Rimasi immobile, nessun rumore, tutto fermo intorno a noi.

«Ti ha fatto molto male?» domandò poi, mentre la sua mano, la mano di Darka, sfiorava il mio viso tumefatto.

«Sto bene» risposi, e lei, in silenzio, mi regalò un sorriso appena accennato.