Quel mattino era un bel mattino: il cielo era blu e senza nuvole, e il sole prometteva di riscaldare più di quanto avesse fatto fino a quel momento. Quel mattino era un bel mattino, avremmo fatto fuori Darka e Drazen.
Scendendo le scale, pensai che avrei potuto escogitare un piano per rallentare le esecuzioni. Poi mi convinsi che poche ore in più non avrebbero avuto alcuna importanza. Cambiai idea: mi dissi che sì, perfino un minuto poteva essere prezioso. Cambiai idea ancora, e ancora e ancora.
Mi diressi nella cella dove avevo incontrato Tin qualche ora prima, e constatai che erano tutti svegli. Dall’interno sentivo parlottare nervosamente, si chiedevano rassegnati cosa ne sarebbe stato di loro. Credo che aspettassero la morte, ormai: ogni speranza era persa.
Uno dei sei sopravvissuti ricordava vagamente le fattezze di una donna. Seduta, con la testa inclinata verso il basso, rivolgeva gli occhi verso una fuga infinita che i miei mai avrebbero potuto raggiungere. Aspettava le esecuzioni, aspettava la fine.
Un uomo distrattamente le teneva la mano. Aveva la barba rossa e lunga, e un piccolo grumo di sangue si confondeva col colore dei peli. Quando si alzò, mi resi conto che la stima della sua altezza era sbagliata: era ancora più basso di quanto avrei creduto. Si avvicinò, e con un sussulto chiese: «Cosa ci farete, ora?».
Nelle sue parole non intravidi il minimo cenno di sfida: voleva sinceramente sapere cosa gli sarebbe accaduto, temendo, forse, qualche altro giochino.
«Ti uccideremo velocemente» lo rassicurai, usando il tono più compassionevole di cui disponevo.
Rincuorato dalla risposta si sedette e, con gli occhi fissi su un insetto arrampicato sul muro, lasciò andare la mano in quella della donna.
Un secondo uomo tremava. Qualcuno, mi dissero, lo aveva costretto in una botte d’acqua solo per scoprire se sarebbe sopravvissuto al freddo della notte. Sarebbe comunque morto per primo davanti al plotone di esecuzione.
Scorsi Drazen al suolo: la testa rialzata contro la parete ammuffita, ancora vivo, pronto a morire.
Ricambiò il mio sguardo e, incredibilmente, serenità si riversò dai suoi occhi ai miei.
Pensai che ci saremmo salvati.
Ma come avrei potuto io salvarmi? Mi ero reso complice e colpevole di delitti indicibili, ero morto, erano morti Drazen e Darka, ed erano morti tutti quelli della Base.
Quel giorno, il settimo giorno di Drazen, il primo a morire fu l’uomo tremante. Era sul palco, tremava e dondolava. Tra noi e lui, il Comandante, come sempre, fumacchiava una paglia mezzo accesa che gli pendeva all’angolo della bocca. Io ero in fila nel plotone, il secondo da destra.
Eravamo pronti.
C’è stato un tempo in cui aspettavo con impazienza il momento delle esecuzioni. Quando premevo il grilletto il potere si concentrava nelle mie mani, e il dolore, come essenza succhiata dalle loro anime, mi infondeva energia. Se noi vivi avessimo avuto la possibilità di vederle, quelle anime, avremmo assistito a dialoghi accesi tra spiriti respinti persino dall’inferno.
«Hai un ultimo desiderio?» recitò il Comandante fedele alla tradizione.
L’uomo tremante prese a battere i denti: fino a quel momento era riuscito a governarli, ma il controllo gli sfuggì quando tentò di parlare. Si morse la lingua e, oltre a un gridolino smorto, gli calarono dalla bocca alcune gocce di sangue. Non sarebbero state nulla in confronto al fiotto che sarebbe sgorgato dal suo petto.
Puntare. Mirare. Sparare.
I muscoli si tesero. Il dito si irrigidì. Un colpo secco raggiunse il cuore del nemico. Un urlo di soddisfazione si levò dal gruppo. Rompemmo le righe.
Uno era andato.
Ne mancavano altri cinque.
Mentre Picche e Igor caricavano il corpo e lo gettavano sul lato posteriore del palco su cui si sarebbe dovuta formare una collinetta di sei persone, mi diressi alla cella dove l’uomo con la barba rossa attendeva impaziente il suo turno. Ripercorsi il solito tragitto, mi avvicinai alla porta e guardai attraverso lo spioncino: gli occhi di Drazen mi incontrarono ancora, e ancora una volta seppero calmarmi.
Entrai e indicai l’uomo con la barba rossa: «Coraggio, andiamo, tocca a te!».
Mi seguì senza opporsi, ma si concesse un breve monologo.
«Spero di non andare all’inferno. Ne ho uccisi, di tipi come te…» disse.
La Guardia mi venne in aiuto, chiudendo la porta alle mie spalle e verificando che tutto andasse liscio mentre accompagnavo il prigioniero alla mensa.
«Andiamo, si sta facendo tardi» esortò il Comandante e indicò con la punta della sigaretta fumante il palco delle esecuzioni.
Gli feci un cenno d’intesa, lasciai l’uomo al suo destino e guadagnai il mio posto nel plotone.
«Il tuo ultimo desiderio!» tuonò il Comandante, perpetrando il rito che in quel luogo aveva celebrato per decine di anime.
«Sparatemi al cuore» rispose il prigioniero, la cui voce a malapena si distinse dai rumori della guerra che, per la prima volta da giorni, risuonarono in lontananza. L’agitazione nel plotone saliva, e qualcuno cominciò a chiedersi se non fosse il caso di rifugiarsi nella cantina. Qualcun altro addirittura accennò a un movimento, ma il Comandante, imperterrito, procedette alla recita della sua classica battuta: Puntare. Mirare. Sparare.
Un colpo sordo. L’uomo cadde al suolo.
Dopo i due uomini, anche la donna che aspettava la fine con gli occhi rivolti verso una fuga infinita era stata accontentata: morta ai piedi del palco. Con quel suo sguardo stampato nella mente, trascinavo i piedi nel corridoio improvvisamente ripido come una parete rocciosa. Sentivo il freddo e la solitudine delle celle vuote, ma l’aria che traspirava dalla miriade di fessure manteneva i miei polmoni caldi.
A ogni passo rileggevo nella mente la terribile scaletta che avevo preparato: i due uomini, la donna e poi Tin… Fin qui, la scelta non mi era costata molta fatica.
Ma dopo, chi avrei ucciso?
Drazen o Darka?
Un altro passo, e ritornavo a leggere la mia lista mentale.
I due uomini, la donna,Tin e…
Emisi un sospiro che durò quattro passi.
Chi avrei portato a morire?
I due uomini, la donna,Tin e…
Che cosa avrebbe fatto Drazen al mio posto? E cosa avrebbe fatto Darka?
Altro passo.
I due uomini, la donna,Tin e…
Raggiunsi la cella, poggiai la mano destra sulla serratura, tenendo il fucile stretto nella sinistra.
“Drazen o Darka?” mi chiesi.
I due uomini, la donna,Tin e…
«Sono gli ultimi prigionieri: voglio scegliere io il prossimo!» annunciò.
Il Comandante, il nostro Comandante, il mio Comandante mi sorprese alle spalle. Mi voltai disorientato, mantenendo il silenzio. Mi stava di fronte, aspirò dalla sua sigaretta e liberò il fumo. La nuvola al profumo di tabacco appannava i suoi capelli brizzolati, la sua faccia magra e il suo sorriso sospetto, quando scorsi la figura della Guardia che mi squadrò con sdegno, sorridendo poi con aria soddisfatta.
«Dammi il fucile!» ordinò il Comandante. Sottomesso, consegnai la mia arma, lanciando uno sguardo di odio alla Guardia.
Aprii la porta ed entrammo. I prigionieri, alla vista del Comandante, furono percossi da una scintilla di terrore. Spaventati, non osarono muovere nemmeno un muscolo.
«Vediamo, dov’è questo tuo amico?» chiese.
I due uomini, la donna, Drazen, Tin e Darka.
La lista era ora completa.
Mi avvicinai a Drazen con gli occhi di Darka puntati sui miei. Poca carne era rimasta aggrappata alle sue ossa, eppure sorprese tutti: prese coraggio, urlò parole che io non riuscivo a sentire e, saltando verso di me, cominciò a picchiare con entrambi i pugni contro il mio petto. Mi avrebbe fatto a pezzi se ne avesse avuto le forze. Mi odiava, e questo riuscì per un attimo ad alleviare la pena che da giorni mi affliggeva: l’odio era il sentimento giusto.
La mia debolezza apparve chiara a tutti, misi a fuoco la sagoma dei prigionieri sollevarsi minacciosi, e quella severa del Comandante e della Guardia stringere i loro fucili.
Preso tra due fuochi, tra noi e loro, scattai e spinsi Darka lontano da me con più forza di quanto avrei mai voluto: franò al suolo producendo un gemito.
Ero di nuovo io.
Ero di nuovo l’aguzzino.
Ero di nuovo alla Base.
Feci un passo verso Drazen, sicuro che questa volta nessuno avrebbe reagito. Lo presi delicatamente e, seguito ancora dagli occhi di Darka e quelli del Comandante, lo trascinai via dalla cella. Nel corridoio la rabbia sbollì e, provando una profonda pena, aiutai Drazen a raggiungere la mensa. Non riusciva ancora a camminare e dovetti sorreggerlo. Il Comandante era dietro a controllare che non facessi scherzi.
Passo dopo passo, vedevo scorrere le celle, un tempo colme di anime nascenti, oggi tragicamente svuotate. La luce del giorno bruciava severa, addentrandosi attraverso le piccole aperture del corridoio, per poi esplodere in un giudizio finale attraverso una parete distrutta.
Spinsi Drazen all’interno della mensa. Notai per la prima volta la ragnatela di squarci nel muro: ai miei occhi stanchi, appariva come un groviglio di rami autunnali spogli da sempre. Sul grigiore di questa tela risaltava chiaro il colore rosso del sangue che era schizzato fin sulla parete. Osservati da una galassia di occhi curiosi, ci fermammo ai piedi del palco come dinanzi a una montagna: sembrava insormontabile. Mi voltai con un’espressione di pietà verso il Comandante, che aveva già preso posizione tra noi e gli esecutori, supplicandolo di fermare tutto. Il suo sguardo, invece, chiamava morte.
Aiutai Drazen a salire il primo gradino: posò la gamba sana per prima, trascinò l’altra oramai inservibile ed esalò un mugolio smorto tra le labbra.
Cercai di nuovo il Comandante: come d’abitudine stava caricando un unico fucile che avrebbe poi nascosto fra quelli scarichi da consegnare al plotone. Furono gli occhi di Igor, nascosti lontano, ad alimentare le mie forze.
Ripresi a spingere Drazen. Lo sorressi per evitare che cadesse, e, con un ultimo sforzo, si ritrovò sul palco. Assaporai il contatto della mia mano sulla sua pelle, ultimo disperato saluto, e feci in modo che i miei occhi si perdessero per sempre nei suoi, in una realtà lontana da quella guerra dove io lo avevo accompagnato a morire.
Spensi gli occhi, pochi passi e raggiunsi il Comandante tra il plotone e il palco delle esecuzioni. Mi porse l’ultimo fucile: allungai la mano per prenderlo, ma lui lo ritrasse, facendo cadere nel vuoto la mia presa. I nostri sguardi erano l’uno nell’altro. Mi avvicinai per reclamare con decisione il mio fucile. Questa volta lo afferrai, ma il Comandante, sorridendo, non mollò l’impugnatura. Anzi, tirò il fucile a sé, e con esso avanzai di un altro passo, deciso a non perdere l’arma.
«Attento a te, figlio!» sussurrò.
Mi guardò a lungo e scacciò me e il fucile lontani da lui. Lasciai che i miei occhi sfidassero i suoi ancora per qualche momento, e poi trovai rifugio, per l’ultima volta, in quelli di Drazen.
Sto bene…
Guadagnai il mio posto nel plotone.
Andrà tutto per il verso giusto…
Portai gli occhi sul Comandante: il labbro inferiore si piegò, facendo scivolare via la sigaretta.
Respira…
Quell’innaturale serenità fu squarciata dalle parole gridate dal Comandante che, diversamente dalle altre esecuzioni, non aveva concesso l’ultimo desiderio.
Puntare.
E noi puntammo.
Mirare.
E noi mirammo.
Sparare.
E noi sparammo.
E fu un fruscio di occhi, tensione di dita e un tonfo sordo di fucili. Ma nessun colpo fu esploso: Drazen era ancora vivo. Allora pensai che un dio lo aveva salvato, che io lo avevo salvato, che sarebbe sopravvissuto…
Invece, il Comandante, il nostro Comandante, il mio Comandante estrasse la pistola. La esaminò. Indirizzò la testa verso il palco. Osservò per bene quel corpo decadente, e solo allora riconobbe Drazen: diciassette anni, proprio come me.
Un lampo di dubbio accecò, per un solo istante, la sua follia. Sbatté le palpebre un paio di volte per scacciare un ultimo bagliore di umana pietà, e infine, con un colpo preciso alla testa, sparò.