«Forse la bambina non morirà».
«Sono contenta» disse Mina.
Ero seduto sul muretto, più o meno a un metro da lei.
«Oggi non sei andato a scuola».
«Non stavo bene».
Annuì.
«Non mi sorprende, visto quello che stai passando».
«Neanche tu sei andata a scuola» dissi.
«Io non ci vado».
La fissai.
«Mi insegna mia madre. Secondo noi la scuola inibisce la curiosità, la creatività e l’intelligenza naturali dei bambini. La mente ha bisogno di essere aperta verso il mondo, non chiusa in un’aula grigia».
«Oh» feci.
«Non sei d’accordo, Michael?»
Io pensai a quando scattavo per il campo con Leakey e Coot. Pensai alle scenate di Orango Mitford. Pensai alle storie della signorina Clarts.
«Non saprei».
«Il nostro motto è scritto sulla parete in camera mia» disse. «‘Un uccello, ch’è nato per la gioia, può mai cantare se lo chiudi in gabbia?’ È di William Blake». Indicò l’albero, in alto. «Ai piccoli nel nido non servirà una scuola per imparare a volare, no?»
Feci no con la testa.
«Infatti. Anche mio padre la pensava così».
«Tuo padre?»
«Sì. Era un uomo meraviglioso. È morto prima che nascessi. Lo pensiamo spesso, che ci guarda dal cielo».
Poi Mina guardò me, con quegli occhi che sembravano entrarti dritti dentro.
«Sei uno di poche parole» mi disse.
Non sapevo che cosa dire. Lei ricominciò a leggere.
«Tu ci credi che discendiamo dalle scimmie?» le chiesi.
«Non è una questione di credere o no. È un fatto dimostrato. Si chiama evoluzione. Devi per forza saperlo. E la risposta è sì».
Alzò gli occhi dal libro.
«Però vorrei sperare» continuò, «che abbiamo anche degli antenati un po’ più belli. Tu no?»
Mi guardò di nuovo.
«Sì» dissi.
Ricominciò a leggere. Guardai il merlo volare fra i rami con i vermi che gli pendevano dal becco.
«È stato bellissimo vedere i gufi» dissi.
Lei sorrise.
«Sì. Certo, sono selvatici. Uccidono, sono sanguinari. Sono meravigliosi».
«Ho sognato che li sentivo, tutta la notte».
«Anch’io rimango ad ascoltarli. A volte in piena notte, quando non c’è più traffico, li sento chiamarsi fra loro».
Unii le mani, lasciando uno spazio fra i palmi e uno fra i pollici.
«Sta’ a sentire» le dissi.
Soffiai piano nello spazio fra i pollici e feci il verso del gufo.
«Fantastico!» esclamò Mina. «Insegnami come si fa».
Le feci vedere come unire le mani e come soffiare. Non ci riuscì all’inizio, ma poi sì. Fece «huu!» e rise.
«Fantastico» ripeté. «Fantastico».
«Me l’ha insegnato Leakey. È un mio compagno di scuola».
«Mi chiedo... se lo facessi di notte, i gufi verrebbero?»
«Può darsi. Forse dovresti provare».
«Sì. Proverò stanotte».
«Huu!» fece. «Huu! Huu!»
«Fantastico!» disse e poi applaudì.
«C’è una cosa che posso farti vedere anch’io. Come tu mi hai fatto vedere i gufi».
«Cos’è?»
«Non lo so. Non so neanche se è vero o è un sogno».
«Non fa niente. Verità e sogno si mischiano sempre».
«Ti ci devo portare, per fartelo vedere».
Spalancò gli occhi e fece un sorrisone, come se fosse pronta ad andarci anche subito.
«Adesso non si può» dissi.
Più in giù nella via, papà aprì la porta e mi chiamò con la mano.
«Devo andare. Devo andare a prendere il ventisette e il cinquantatré».
Lei alzò gli occhi al cielo.
«Sei un uomo misterioso, tu».
Il merlo volò di nuovo via dall’albero.
Mi alzai per andarmene e le chiesi: «Lo sai a cosa servono le scapole?»
Lei ridacchiò.
«Ma non sai neanche quello?»
«E tu?»
«È un fatto dimostrato, si sa. Le scapole sono dove avevi le ali e dove ti cresceranno di nuovo». Rise. «E adesso vai, uomo misterioso. Vai a prendere i tuoi misteriosi numeri».