Era appena prima dell’alba, il giorno dopo.
Gli illuminai di nuovo la faccia bianca con la torcia.
«Ancora tu» gracchiò.
«Altri ventisette e cinquantatré».
«Il cibo degli dei».
Mi infilai tra le casse per mettermi vicino a lui, gli tenni la vaschetta e lui iniziò ad assaggiare il cibo col dito. Succhiò facendo rumore, leccò, masticò.
«Nettare» sussurrò.
«Come fai a sapere del ventisette e del cinquantatré?» gli chiesi.
«I preferiti di Ernie. Lo sentivo al telefono. ‘Ventisette e cinquantatré’ diceva. ‘Portatelo a casa, e in fretta’».
«Tu eri in casa?»
«In giardino. Lo guardavo dalla finestra. Lo ascoltavo sempre. Non è mai stato bene. Non riusciva a mangiare tutto. Trovavo gli avanzi nel bidone, la mattina dopo. Ventisette e cinquantatré. Il più dolce dei nettari. Un piacevole cambiamento, rispetto a ragni e topi».
«Lui ti vedeva? Sapeva che c’eri?»
«Non l’ho mai capito. Guardava nella mia direzione, ma oltre me, come se non ci fossi. Povero vecchio. Magari credeva che fossi una visione».
Si appoggiò sulla lingua pallida una striscia lunga e appiccicosa di maiale e germogli di soia, poi mi guardò con gli occhi iniettati di sangue.
«Tu mi credi una visione?»
«Non so che cosa sei».
«Allora va bene».
«Sei morto?»
«Aah!»
«Sì o no?»
«Sì. Lo sanno tutti che i morti mangiano ventisette e cinquantatré e soffrono di artrite».
«Ti servono altre aspirine?»
«Non ancora».
«Nient’altro?»
«Ventisette e cinquantatré».
Passò il dito tutto intorno alla vaschetta e raccolse gli ultimi grumi di salsa. Si leccò le labbra pallide con la lingua pallida.
«La bambina è all’ospedale» dissi.
«Mi piace scura».
«Scura?»
«Birra scura. È un’altra cosa che Ernie prendeva sempre e non riusciva a finire. Comprava più di quanto potesse mangiare. Un’altra cosa che tiravo fuori dal bidone, se la bottiglia non si era inclinata e non si era rovesciata tutta».
«Okay» dissi.
«Birra scura. Il più dolce dei nettari».
Ruttò, ebbe un conato, si sporse in avanti. Feci luce con la torcia sulle grandi sporgenze che aveva sulla schiena, sotto la giacca.
«C’è una persona che vorrei portare a vederti» dissi, quando si fu sistemato di nuovo.
«Qualcuno che ti dica che esisto davvero?»
«È carina».
«Impossibile».
«È intelligente».
«Nessuno lo è».
«Lei saprà aiutarti».
«Aah!»
Rise, ma senza sorridere.
Non capii perché, ma ricominciai a tremare.
Lui fece schioccare la lingua e sospirò rumorosamente.
«Non so cosa fare» dissi. «Il garage sta per crollare e tu sei malato di questa artrite. Non mangi bene. Quando mi sveglio penso a te, ma io ho altre cose a cui pensare. La bambina è malata e speriamo che non muoia, ma potrebbe morire. Davvero».
Lui tamburellava con le dita sul pavimento del garage, poi le passava fra le palline impolverate che c’erano per terra.
«È carina» gli dissi. «Non lo dirà a nessuno. È intelligente. Saprà come aiutarti».
Lui scosse la testa.
«Al diavolo i ragazzini» disse.
«Si chiama Mina».
«Porta tutta la strada. Porta tutta la città, già che ci sei».
«Solo io e Mina».
«Ragazzini».
«Come ti devo chiamare?»
«Eh?»
«Come devo dirle che ti chiami?»
«Nessuno. Il signor Nessuno. Il signor Ossa e il signor Sono Stufo e il signor Art Rite. Adesso vai via e lasciami solo».
«Va bene» dissi.
Mi alzai e feci per uscire camminando all’indietro fra le casse, ma esitai.
«Penserai alla bambina?» chiesi.
«Eh?»
«Penserai a lei che è in ospedale? Penserai a farla stare meglio?»
Lui fece schioccare la lingua.
«Per favore» dissi.
«Ma sì, sì, che cavolo».
Andai verso la porta.
«Sì» lo sentii ripetere. «Sì, va bene».
Fuori la notte aveva quasi ceduto al giorno. Il merlo era sul tetto del garage e cantava a pieni polmoni. Nero, rosa e blu si mischiavano nel cielo. Mi tolsi di dosso le ragnatele e i mosconi. Mentre mi voltavo verso la casa sentii il verso.
«Huu! Huu, huu, huu!»
Guardai il cielo sopra i giardini e vidi i gufi che andavano verso casa con le loro grandi ali silenziose. Unii le mani e soffiai nello spazio fra i pollici.
«Huu! Huu, huu, huu!»
Poi mi sembrò di vedere una faccia pallida e tonda nel buio di una finestra al primo piano della casa di Mina. Unii di nuovo le mani.
«Huu! Huu, huu, huu!»
Qualcosa rispose.
«Huu! Huu, huu, huu!»