20

Le feci strada svelto lungo la via, poi girai nel vicoletto, che costeggiava i muri alti sul retro dei giardini.

«Dove andiamo?» chiese.

«Non lontano».

Guardai la camicetta gialla e i jeans che aveva addosso.

«È un posto lercio» le dissi. «E pericoloso».

Lei si abbottonò la camicetta fino al collo. Strinse i pugni.

«Bene!» disse. «Vai pure, Michael!»

Aprii il nostro cancelletto sul retro.

«Qui?»

Mi fissò.

«Sì, sì!»

Arrivai davanti alla porta del garage e mi fermai. Mina guardò nel buio. Raccolsi la birra e la torcia.

«Ci serviranno» dissi. Mi tolsi dalla tasca le capsule di olio di fegato di merluzzo. «E anche queste».

Socchiuse gli occhi e sembrò trapassarmi con lo sguardo.

«Fidati» le dissi.

Poi esitai.

«Non è solo che è pericoloso» le dissi. «Ho paura che non vedrai quello che vedo io».

Lei mi prese la mano e la strinse.

«Vedrò quello che c’è. Portami dentro».

Accesi la torcia ed entrai. Qualcosa strisciò e raspò sul pavimento. Sentii Mina tremare. La sua mano cominciò a sudare.

Gliela strinsi.

«Va tutto bene» dissi. «Stammi vicina».

Ci infilammo fra la robaccia e i mobili rotti. Le ragnatele si spezzarono sui nostri vestiti e sulla nostra pelle. I mosconi morti ci si appiccicarono addosso. Il soffitto scricchiolò e dalle travi marce cadde un po’ di polvere. Quando ci avvicinammo alle casse, iniziai a tremare. Forse Mina non avrebbe visto niente. Forse mi ero sbagliato fin dall’inizio. Forse sogni e verità erano solo un pasticcio inutile nella mia mente.

Mi sporsi in avanti e feci luce nello spazio dietro alle casse.

«Ancora?» gracchiò lui.

Sentii Mina soffocare un grido. Sentii la sua mano che si irrigidiva. La tirai verso di me.

«Va tutto bene» le sussurrai. E a lui: «Ti ho portato la mia amica, come ti avevo detto. Lei è Mina».

Girò gli occhi verso di lei, poi li abbassò di nuovo.

Gli mostrai la birra scura.

«Ho portato anche questa».

Rise, ma senza sorridere.

Passai tra le casse. Stappai la birra con l’apribottiglie del coltellino e mi chinai verso di lui. Piegò la testa all’indietro perché potessi versargliela in bocca. Ne mandò giù un po’. Un altro po’ cadde fuori dalla bocca, sul completo nero.

«Nettare» sospirò. «La bevanda degli dei».

Inclinò di nuovo la testa e ne versai altra.

Mi voltai a guardare la forma scura di Mina che ci fissava dall’alto, la faccia pallida, bocca e occhi spalancati per lo stupore.

«Chi sei?» sussurrò.

«Il signor Sono Stufo Di Te» gracchiò lui.

«Ho parlato con un dottore» dissi. «Non il Dottor Morte. Uno che potrebbe metterti a posto».

«Niente dottori. Nessuno. Niente. Lasciami stare».

«Ma morirai. Crollerai a pezzi e morirai».

«Crolla, crolla». Tirò indietro la testa. «Altra birra».

La versai.

«Ho portato anche queste» dissi.

Gli allungai una capsula di olio di fegato di merluzzo.

«Certi ci credono ciecamente» dissi.

Lui annusò.

«Puzza di pesce. Cose viscide sfuggenti che nuotano».

Mi vennero le lacrime agli occhi.

«Se ne sta qui e basta» dissi a Mina. «Non gliene importa di niente. È come se aspettasse di morire. Non so cosa fare».

«Non fare niente» gracchiò lui. Poi chiuse gli occhi e abbassò la testa.

Mina venne a mettersi vicino a noi. Si chinò, gli guardò la faccia, che era secca e pallida come gesso, i mosconi morti e le ragnatele, i ragni e gli insetti che gli correvano addosso. Mi prese la torcia. La puntò sul corpo sottile nel completo scuro, sulle lunghe gambe distese per terra, sulle mani gonfie, ferme lungo i fianchi. Raccolse una delle palline impolverate.

«Chi sei?» sussurrò.

«Nessuno».

Allungò una mano e gli toccò la guancia.

«Secca e fredda. Da quanto sei qui?»

«Da abbastanza».

«Sei morto?»

Lui emise un gemito.

«Le domande dei ragazzini. Sempre le stesse».

«Parlale» dissi. «Lei è intelligente. Ti dirà cosa devi fare».

Lui rise, ma senza sorridere.

«Fammela vedere bene» disse.

Mina girò la torcia e la faccia le diventò di un bianco brillante, con fori nerissimi al posto della bocca e degli occhi.

«Mi chiamo Mina».

Sospirò.

«Sono Mina» ripeté. «E tu...?»

«Tu sei Mina. E io sono Stufo Marcio».

Lei gli toccò le mani. Sollevò i polsini lerci e gli toccò i polsi stecchiti e contorti.

«Calcificazione» disse Mina. «Il processo per cui l’osso si indurisce e non è più flessibile. Il processo per cui il corpo diventa di pietra».

«Non è stupida come sembra» gracchiò lui.

«È collegata a un altro processo per cui anche la mente diventa rigida» continuò Mina. «Smette di pensare e di immaginare. Diventa dura come le ossa. Non è più una mente. E un blocco d’osso avvolto in un muro di pietra. Questo processo si chiama ossificazione».

Lui sospirò.

«Altra birra» disse.

Gliela versai in bocca.

«Portala via» sussurrò lui.

Il tetto tremò per la brezza. Della polvere ci cadde addosso.

Io e Mina ci avvicinammo, chinati, con le ginocchia quasi appoggiate su di lui. Lei fece una smorfia sentendo la puzza del suo alito. Le presi la mano e la guidai verso una scapola. Le premetti la punta delle dita contro le sporgenze sotto la giacca. Lei si sporse e toccò anche l’altra. Quando mi guardò, gli occhi splendevano nella luce della torcia.

Aveva la faccia che quasi toccava quella di lui. Le loro pelli bianche scintillavano.

«Che cosa sei?» gli chiese.

Nessuna risposta.

Lui stava seduto con la testa bassa, gli occhi chiusi.

«Possiamo aiutarti».

Sentii le lacrime che mi scendevano.

«Ho un posto dove possiamo portarti» disse Mina. «Sarai più al sicuro. Non lo saprà nessuno. Potrai anche stare lì ad aspettare di morire, se è davvero quello che vuoi».

Qualcosa ci passò accanto. Puntai la torcia in basso e vidi Bisbiglio che entrava nello spazio dietro le casse.

«Bisbiglio!» disse Mina.

Il gatto gli si mise al fianco e si strusciò contro le sue mani rovinate. Lui fece un sospiro.

«Liscio e morbido» sussurrò.

Mosse le nocche contro il pelo.

«Che dolce».

Bisbiglio faceva le fusa.

Le travi scricchiolarono. Ci cadde addosso altra polvere.

«Lasciati portare in un altro posto, per favore» dissi.

«Altra birra».

Gli allungai una capsula di olio di fegato di merluzzo.

«Prendi anche una di queste».

Lui buttò la testa all’indietro. Io versai la birra e lasciai cadere la capsula sulla lingua pallida.

Aprì gli occhi. Guardò Mina nel profondo. Lei guardò nel profondo in lui.

«Devi lasciarti aiutare» disse Mina.

Lui restò in silenzio per un bel po’.

«Fate quello che volete» sospirò alla fine.