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Gli occhi di Mina erano freddi, mentre mi guardava dall’alto dell’albero. La voce era sarcastica, sembrava una cantilena:

«‘Grazie al cielo la mamma non mi ha mai mandato a scuola.

Bacchettate, amici scemi, alle idee la museruola’».

«Tu non ne sai niente» le dissi. «Non ci bacchettano più e i miei amici non sono scemi».

«Aah!»

«Infatti. Non ne sai niente. Credi di essere speciale, ma sei ignorante quanto tutti gli altri. Saprai anche chi è William Blake, ma non sai niente di quello che fa la gente normale».

«Aah!»

«Proprio, ‘aah’!»

Mi guardai i piedi. Mi mordicchiai le unghie. Diedi calci al muretto del giardino.

«Mi odiano» disse. «Glielo si legge negli occhi. Pensano che ti stia portando via da loro. Sono stupidi».

«Non sono stupidi!»

«Stupidi. Calciano palloni, si saltano addosso, gridano come iene. Stupidi. Sì, iene. Anche tu».

«Iene? Be’, loro invece dicono che sei una scimmia».

Voleva incenerirmi con lo sguardo. Era paonazza.

«Visto? Hai capito? Non mi conoscono neanche e mi odiano».

«E tu ovviamente sai tutto di loro, eh?»

«So quanto basta. Non c’è niente da sapere. Calci, urla e fare gli stupidi».

«Aah!»

«Proprio, ‘aah’! E quello basso e rosso...»

«Anche Blake era basso e rosso».

«Come fai a saperlo?»

«Vedi? Sei convinta che solo tu puoi sapere le cose!»

«Non è vero!»

«Aah!»

Aveva serrato le labbra per la rabbia. Appoggiò di nuovo la testa al tronco dell’albero.

«Vai a casa» disse. «Vai a giocare a calcio o a qualcos’altro di stupido. Lasciami stare».

Diedi un ultimo calcio al muretto, poi la lasciai. Andai nel mio giardino. Entrai in casa dalla porta principale, che era aperta. Papà mi gridò: «Ciao!» da qualche parte di sopra. Andai dritto nella giungla, mi chinai nell’erba e chiusi forte gli occhi per cercare di fermare le lacrime.