31

Non avevamo la torcia. La luce che entrava dalle fessure era pallida e debole. Andammo avanti a tentoni, tenendoci per una mano e allungando l’altra in avanti. Urtammo contro le pareti. Sbattemmo gli alluci sulle assi che sporgevano. Inciampammo salendo le scale. Attraversammo lenti il primo pianerottolo. Cercammo alla cieca la maniglia della stanza dove ci sembrava di averlo lasciato. Aprimmo appena la porta.

«Skellig! Skellig!» sussurrammo. Nessuna risposta. Ci muovemmo con prudenza, le braccia in avanti, tastando col piede prima di ogni passo. Avevamo il respiro corto, leggero, incerto. Il cuore mi batteva forte. Spalancai gli occhi e guardai nel buio, cercando la sua forma sul pavimento. Non c’era niente, solo le coperte, il cuscino, il piatto di plastica e la bottiglia di birra che rotolò via quando il mio piede la colpì.

«Dov’è?» sussurrò Mina.

«Skellig!» lo chiamammo piano. «Skellig! Skellig!»

Tornammo verso il pianerottolo, salimmo inciampando per un’altra rampa, aprimmo diverse porte, ci affacciammo in stanze dove c’era buio pesto, sussurrammo il suo nome, ma non sentivamo altro che il nostro respiro, i nostri passi incerti, l’eco del suo nome che rimbalzava sui pavimenti e sulle pareti nude. Tornammo sul pianerottolo e salimmo un’altra rampa.

Ci fermammo. Ci prendemmo per mano e stringemmo forte. Ci sentimmo tremare. Avevamo le teste piene del buio della casa. Accanto a me non c’era altro che la faccia di Mina, col suo colore argenteo.

«Dobbiamo stare più calmi» sussurrò. «Dobbiamo ascoltare, come abbiamo ascoltato il pigolio dei pulcini di merlo».

«Sì».

«Resta fermo. Non fare niente. Ascolta i punti in cui il buio è più profondo, profondissimo».

Ci tenemmo per mano e ascoltammo la notte. Sentimmo il rombo infinito della città intorno a noi, gli scricchiolii e i rumori della casa, il nostro respiro. Ascoltando più attentamente, sentii il respiro della bambina dentro di me. Sentii il battito lontano del suo cuore. Sospirai per il sollievo, sapendo che stava bene.

«Hai sentito?» disse Mina.

Ascoltai e fu come se lei mi stesse guidando a sentire quello che percepiva. Fu come ascoltare i piccoli di merlo cinguettare nel nido. Veniva da sopra di noi, un suono gracchiante, un fischio lontano. Il respiro di Skellig.

«Lo sento» sussurrai.

Salimmo l’ultima rampa, verso l’ultima porta. Piano, impauriti, girammo la maniglia e lentamente aprimmo la porta.

Il chiaro di luna entrava dalla finestra ad arco. Skellig era seduto davanti al telaio, inarcato in avanti. Vedemmo la sagoma nera della sua faccia pallida, delle spalle curve, delle ali ripiegate proprio sopra le spalle. Alla base delle ali c’era la sagoma della camicia strappata. Doveva averci sentito entrare e rannicchiarci contro il muro, ma non si voltò. Non parlammo. Non osavamo rivolgerci a lui. Arrivò un gufo, che su ali silenziose scese dal cielo alla finestra, tutti e due illuminati dalla luna. Si posò sul telaio della finestra. Si sporse in avanti, aprì il becco, lasciò cadere qualcosa sul davanzale e poi volò di nuovo via. Skellig piegò la testa verso il punto dove si era posato il gufo. Appoggiò le labbra al davanzale. Poi lo stesso gufo, o forse l’altro, tornò alla finestra, si posò, aprì il becco e volò via di nuovo. Skellig si piegò di nuovo in avanti e masticò.

«Gli stanno portando da mangiare» sussurrò Mina.

Ed era vero. Ogni volta che i gufi ripartivano, Skellig prendeva quello che gli avevano lasciato, lo masticava e lo inghiottiva.

Finalmente si voltò verso di noi. Non vedevamo né gli occhi né le guance pallide: solo la sagoma nera contro il luccichio della notte. Io e Mina ci tenevamo per mano, ma anche così non osavamo avvicinarci.

«Venite qui da me» sussurrò lui.

Noi non ci muovemmo.

«Venite qui da me».

Mina mi tirò per una mano e mi portò da lui.

Lo raggiungemmo in mezzo alla stanza. Stava dritto in piedi. Dava l’idea di essere molto più forte di prima. Prese la mia mano e quella di Mina e restammo lì, tutti e tre, uniti nel chiaro di luna sulle vecchie assi del pavimento. Lui mi strinse la mano come per tranquillizzarmi. Quando mi sorrise sentii la puzza del suo alito, la puzza delle cose che i gufi gli avevano dato da mangiare. Mi venne da vomitare. Era l’alito di un animale che mangiava la carne di altri esseri viventi: un cane, una volpe, un merlo, un gufo. Mi strinse e mi sorrise di nuovo. Si spostò e ci voltammo insieme, lentamente, come se ci stessimo mettendo timidamente a ballare, con molta cautela. A turno, la luna ci illuminava le facce. Ogni faccia passava dall’ombra alla luce, dalla luce all’ombra, dall’ombra alla luce e ogni volta che quella di Mina o di Skellig venivano illuminate erano più argentee e meno espressive. Gli occhi diventavano più scuri, più vuoti, più penetranti. Per un attimo mi venne voglia di staccarmi, di rompere il cerchio, ma la mano di Skellig si strinse ancora di più intorno alla mia.

«Non fermarti, Michael» mi sussurrò.

I suoi occhi e quelli di Mina stavano scrutando dentro di me.

«No, Michael» disse lei. «Non fermarti».

E io non mi fermai. Mi accorsi che stavo sorridendo, che anche Skellig e Mina stavano sorridendo. Il cuore mi batteva forte, veloce, ma poi raggiunse un ritmo oscillante e calmo. Sentivo i cuori di Skellig e di Mina battere insieme al mio. Sentii i loro respiri muoversi al ritmo del mio. Era come se fossimo diventati una cosa sola. Le nostre teste erano scure e subito dopo erano grandi e luminose come la luna. Non sentivo più le assi sotto i piedi. Mi rendevo conto solo delle mani nelle mie, delle facce che giravano nella luce e nel buio. Per un attimo vidi ali fantasma sulla schiena di Mina, sentii piume e ossa fragili alzarsi dalle mie stesse spalle e con lei e Skellig mi sollevai da terra. Insieme facemmo dei cerchi nell’aria vuota di quella stanza vuota in cima a una vecchia casa in Crow Road.

Poi finì. Mi ritrovai accartocciato per terra vicino a Mina, con Skellig chinato accanto a noi. Ci toccò la testa.

«Ora andate a casa» gracchiò.

«Ma come fai a essere così, adesso?» chiesi.

Si mise un dito sulle labbra per zittirmi, poi sussurrò: «I gufi e gli angeli. Ricorda questa notte».

Lasciammo la stanza barcollando. Scendemmo le scale. Uscimmo nel buio dalla porta con scritto ‘PERICOLO’. Esitammo per un attimo.

«È successo anche a te?» le sussurrai.

«Sì. È successo a tutti e tre».

Ridemmo. Chiusi gli occhi. Cercai di sentire ancora le piume e le ossa delle ali sulle mie spalle. Li riaprii e cercai di rivedere le ali fantasma sbucate sulla schiena di Mina.

«Succederà di nuovo» chiese lei, «vero?»

«Sì».

Tornammo in fretta verso casa. All’inizio del vicoletto ci fermammo per riprendere fiato. Fu allora che sentii la voce di papà che mi chiamava.

«Michael! Michael!»

Lo vedemmo uscire dalla giungla, nel vicoletto. Aveva la voce spaventata.

«Michael! Oh, Michael!»

Poi fu lui a vedere noi, mano nella mano.

«Michael! Oh, Michael!»

Corse da noi e mi abbracciò.

«Eravamo sonnambuli» disse Mina.

«Sì» dissi io, mentre lui mi stringeva per tenermi al sicuro. «Non sapevo cosa stavo facendo. Stavo sognando. Ero sonnambulo».