Mi sbagliavo. Non era morta. Era nel sonno lungo e profondo che veniva dopo l’anestesia. Russava piano sotto alle coperte bianche. Mamma ci raccontò del grosso taglio nel suo minuscolo torace e dell’enorme fasciatura che lo ricopriva. C’erano ancora fili e tubi e una macchina che faceva bip in sincrono col suo cuoricino.
«Per i dottori adesso è tutto a posto, Michael» disse. «Sono sicuri che tutto andrà bene».
Restammo lì seduti, tutti e tre, mano nella mano, a guardare quella creatura delicata.
«Hanno detto che c’è stato un momento in cui hanno pensato di averla persa» continuò abbracciandomi. «Ma poi lei si è ripresa la sua vita».
Arrivò un’infermiera. Controllò i fili e i tubi e la macchina, poi mi accarezzò la testa.
«La tua sorellina ha un cuore forte» disse. «È una piccola guerriera. Non si arrenderà».
«Dici ancora le preghiere per lei?» chiese mamma.
«Sì».
«Stavamo di nuovo pensando a come chiamarla» disse papà.
«Persefone» dissi io.
Risero.
«È un po’ troppo impegnativo» disse papà.
«Dev’ essere qualcosa di molto piccolo e molto forte» disse mamma. «Proprio come lei».
«Gus» disse papà e tutti ridacchiammo.
«Butch» dissi io.
«Garth» disse mamma.
«Buster» disse papà.
«Guardate» disse mamma. «Sta sognando».
Ed era vero. Stava muovendo gli occhi sotto le palpebre.
«Chissà cosa starà vedendo» disse papà.
«Solo cose belle, spero» disse mamma.
«Sono sicuro di sì» disse papà. «Guarda la faccina. Dolce e calma, quasi sorride. Che angioletto. Ecco, dovremmo chiamarla Angela. Ma no, è troppo lungo».
«Che cosa strana, però» disse mamma, scuotendo la testa.
«Cos’è strano?» chiese papà.
Lei fece una smorfia, come se fosse imbarazzata.
«Be’, la notte scorsa ero qui che mi rigiravo. Scendevo ogni attimo a controllarla. Continuavo ad addormentarmi e a svegliarmi. E poi ho fatto un sogno bizzarro...»
«Cioè...?» fece papà.
«Ho visto un uomo, tutto qui. Un sogno, anche se ero sicura di essere ben sveglia. Era in piedi vicino alla bambina. Era lercio, tutto vestito di nero, un completo vecchissimo e impolverato. Aveva una grossa gobba e i capelli tutti sporchi e aggrovigliati. Volevo afferrarlo, volevo spingerlo via, gridargli: ‘Lascia stare la nostra bambina!’ Volevo chiamare le infermiere e i dottori, ma non riuscivo a muovermi né a parlare. Ero sicura che l’avrebbe portata via. Ma poi si è voltato e mi ha guardato. Aveva la faccia bianca e secca, come di gesso. E gli occhi pieni di tenerezza. Allora, non so come, ho capito che non era venuto per farle del male e che tutto sarebbe andato bene...»
Si fermò, sempre scuotendo la testa.
«E poi...?» chiese papà.
«E poi l’ha presa con tutte e due le mani e l’ha alzata. Lei era sveglia. Si sono guardati dritti negli occhi per un bel po’. Lui ha cominciato a girare, lentamente...»
«Come se stessero ballando» dissi.
«Giusto, proprio come se stessero ballando. E poi, ancora più strano di tutto...»
Rise e poi alzò le spalle.
«E poi, più strano di tutto, è che sulla schiena della bambina c’erano delle ali. Non solide. Trasparenti, come spettri, quasi invisibili, ma c’erano. Tutta una piuma. Era davvero assurdo. Quell’uomo alto, la bambina piccolina e le ali. E poi basta, l’ha rimessa giù, si è voltato e mi ha guardato di nuovo e tutto è finito. Ho dormito come un sasso per il resto della notte. Quando mi sono svegliata la stavano già preparando per l’operazione, ma non ero più in pensiero. Le ho dato un bacio e le ho sussurrato che le volevamo tanto bene e poi l’hanno portata via. Sapevo che tutto si sarebbe sistemato».
«E infatti è andata così» disse papà.
«Infatti» fece mamma, dandomi una gomitata. «Probabilmente stavo pensando a quello che mi avevi chiesto tu, a cosa servissero le scapole, eh?»
Sorrisi. «Sì, sì!» dissi.
Gli occhi della bambina continuavano a muoversi e a vedere le cose che lei immaginava nel sonno.
«Piccolina» disse papà. «Chissà cosa sta vedendo».
«Skellig» sussurrai fra me. «Skellig».
«Ma non è finita qui» disse mamma. «Lo sai, vero? Dovremo sempre proteggerla, specialmente all’inizio».
«Lo so» dissi. «Dovremo volerle tanto, tanto, tanto bene».
Ce ne andammo poco dopo. Nel corridoio vidi il Dottor MacNabola uscire dall’ascensore con intorno un gruppo di studenti in camice bianco. Dissi a papà di aspettare solo un minuto. Corsi verso il dottore, che mi guardò.
«Dottore, si ricorda che le avevo parlato del mio amico? » gli dissi. «Quello con l’artrite?»
Lui gonfiò il petto e tirò indietro le spalle.
«Aah!» disse. «Allora è pronto per i miei aghi e il mio seghetto?»
«No, perché adesso sembra stare meglio».
«Splendido. Olio di fegato di merluzzo e una dose di pensiero positivo, eh? Magari riuscirà a sfuggire alle mie grinfie».
Gli studenti ridacchiarono.
«L’amore, l’affetto... possono aiutare a guarire?» chiesi.
Lui fece una faccia incuriosita, storse le labbra e si toccò il mento con un dito.
Una studentessa prese taccuino e matita dalla tasca.
«L’amore» disse lui. «Hmm... che cosa possiamo sapere dell’amore noi dottori, eh?» Fece l’occhiolino alla studentessa, che arrossì. «‘Amore è il bambino che con noi fiata forte, amore è il bambino che sbaraglia la morte’».
«William Blake?» chiesi.
Lui rise. «Abbiamo qui un signore molto istruito».
Poi sorrise davvero per la prima volta. «Di’ al tuo amico che spero che le nostre strade non si incrocino mai». Mi fece l’occhiolino, si voltò e portò via gli studenti.
«Come mai sei andato a parlargli?» chiese papà quando tornai.
«Niente. Era a proposito di qualcuno che ho conosciuto poco dopo che la bambina è stata ricoverata».
«Sei un uomo misterioso, tu» disse ridendo.
In macchina, tornando a casa, tirammo giù i finestrini e lui cantò The Black Hills of Dakota a squarciagola. Io unii le mani e feci il richiamo del gufo.
«Bravo» disse papà. «Mi piace. Lo fai davvero bene. Dovrai insegnarmelo. Però non mentre sto guidando, eh?»
Percorremmo le strade trafficate della città, sempre ridendo.
«Non è ancora fuori pericolo» mi disse a un certo punto. «Lo sai, eh?»
«Sì, ma guarirà, vero?»
«Sì!» gridò lui. «Sì, e che cavolo!»
Si rimise a cantare.
«Adesso però devo darci sotto con quella casa, eh?» disse poi. «So io cosa fare! Stasera per cena possiamo prendere il ventisette e il cinquantatré!»
«Ventisette e cinquantatré» dissi io. «Il più dolce dei nettari!»
«‘Il più dolce dei nettari’. Mi piace. Il più dolce di tutti i cavolo di nettari!»