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Il sole era già tramontato da un bel po’ quando io e Mina uscimmo con gli avanzi del ventisette e del cinquantatré e una bottiglia di birra scura in un sacchetto di carta. I lampioni nella via erano accesi, l’aria era fredda e il cielo luccicava di stelle. Il nostro fiato ci si arricciava intorno in lunghi pennacchi bianchi. Camminando, raccontai a Mina del sogno di mamma.

«Straordinario» sussurrò lei.

Poi sorrise e disse che ciò dimostrava che Skellig sarebbe stato sempre presente, ogni volta che avessimo avuto bisogno di lui. Però volevamo assolutamente vederlo e toccarlo ancora.

Nel vicoletto ci accorgemmo che Bisbiglio ci stava seguendo.

«Cattivo» gli disse Mina, chinandosi ad accarezzarlo. Poi rise. «Per tutto il giorno gli uccellini si sono fatti più forti e più coraggiosi. Hanno svolazzato fin dentro la siepe, dove nessuno può prenderli. Per tutto il giorno hanno ricevuto vermi, vermi, tanti vermi e quando lo abbiamo lasciato uscire, questo signore se n’è rimasto seduto vicino a noi sui gradini, tutto musone e frustrato».

Lo accarezzò di nuovo e poi gli disse: «Sei un piccolo, orribile selvaggio». Lui fece le fusa e le si strofinò contro.

Passammo la porta con scritto ‘PERICOLO’ senza aspettarci niente. La casa era immobile e silenziosa. La soffitta era vuota. Niente gufi. Niente Skellig. Sul davanzale trovammo un topolino morto, un po’ di cotenna di pancetta e un mucchietto di insetti neri morti.

Ci sedemmo per terra appoggiati al muro e guardammo fuori, verso le stelle infinite.

«Penso davvero che la bambina stia bene, adesso».

Mina sorrise e Bisbiglio fece le fusa.

«Sentimi il cuore» le dissi.

Mi appoggiò una mano sul petto.

«Lo senti?» chiesi. «Il suo cuore che batte, lì dentro di fianco al mio?»

Lei si concentrò.

«Non saprei, Michael» disse.

«Riprova. Concentrati. È come toccare e ascoltare e immaginare, tutto allo stesso tempo. È una cosa lontana e piccolissima, come i piccoli di merlo che pigolano nel nido».

Chiuse gli occhi e provò di nuovo a sentire.

Sorrise.

«Sì» sussurrò. «Sì, c’è. Qui, qui e qui».

«Il cuore della bambina» dissi. «Ora non si ferma più».

«Ora non si ferma più» ripeté lei e si mise a cantare quella sua canzone di William Blake:

«Scende il sole a occidente, la stella della sera già s’accende...»

Io la seguii.

«... tace l’uccello nel suo nido, e io devo cercare il mio».

«Visto?» disse. «Te l’avevo detto che ti avrei fatto cantare ».

La sera si scurì e sapevamo che nel giro di qualche minuto avremmo dovuto tornare a casa.

«Potrei anche dormire qui, così» disse Mina. «E sarei felice per sempre».

Feci un sospiro.

«Ma dobbiamo andare».

Però non ci muovemmo.

E poi nell’aria fuori ci fu un fruscio improvviso, qualcosa coprì le stelle, la finestra scricchiolò e lo vedemmo entrare arrampicandosi sulla struttura ad arco. Lui non ci notò. Si accucciò per terra, col fiatone. Le ali si piegarono lentamente sulla schiena.

«Skellig!» sussurrai.

Voltò la sua faccia pallida come la luna verso di noi.

«Michael! Mina!» disse. La voce era scarsa, sottile, tirata, ma sulle labbra gli si stava formando un sorriso.

Gli feci vedere il sacchetto di carta.

«Ti abbiamo portato questo, Skellig. Ventisette e cinquantatré ».

«Aah!»

Aprii il sacchetto e glielo portammo insieme. Ci inginocchiammo al suo fianco. Lui infilò nel contenitore un lungo dito ricurvo, agganciò un filo di salsa, maiale e germogli di soia e se lo leccò dalle dita con la lingua pallida e lunga.

«Il più dolce dei nettari» sussurrò. «Cibo degli dei».

«C’è anche questa» dissi.

Stappai la bottiglia e lui si lasciò versare la birra nella bocca spalancata.

«Pensavo di trovare topi freddi per cena e invece torno e mi ritrovo un banchetto».

Mangiò ancora, sospirando per la soddisfazione.

«Una coppia di angeli, ecco cosa siete».

Lo guardammo mangiare e bere e vedemmo che riprendeva le forze.

«Sei andato a trovare mia sorella» gli dissi.

Lui rise.

«Mmh! È proprio una cosettina carina!»

«Le hai dato forza».

«Risplende di vita quella bambina. Un cuore forte. È stata lei a dare forza a me». Buttò giù un’altra sorsata di birra. «Ma adesso sono esausto. Distrutto».

Allungò una mano e carezzò prima Mina e poi me.

«Però sto diventando più forte, grazie agli angeli e ai gufi».

Mise da parte cibo e birra e si appoggiò al muro.

Restammo seduti in un piccolo cerchio e per qualche minuto ci guardammo soltanto, sorridendo.

«Stai andando via, eh?» gli chiesi alla fine.

Lui chiuse gli occhi e fece segno di sì con la testa.

«E dove andrai?»

Lui alzò le spalle e indicò il cielo.

«Da qualche parte» disse.

Gli toccai una mano, secca e fredda.

«Ma tu cosa sei?»

Lui alzò un’altra volta le spalle.

«Qualcosa» disse. «Qualcosa come te, come una bestia, come un uccello, come un angelo. Qualcosa così». Poi sorrise. «Alziamoci in piedi».

Ci mettemmo di nuovo in cerchio e ci tenemmo stretti. Ognuno di noi guardò nel profondo dell’altro.

Cominciammo a girare. Avevamo un solo battito, un solo respiro. Girammo e girammo finché le ali fantasma non spuntarono sulla schiena di Mina e sulla mia, finché non ci sentimmo sollevare, finché non sembrò che danzassimo sospesi nell’aria vuota.

Poi tutto finì e tornammo a terra.

«Lo ricorderemo per sempre» gli disse Mina.

Skellig si chinò in avanti e ci abbracciò, poi si leccò via una goccia di salsa dalle labbra.

«Grazie del ventisette e del cinquantatré» disse. «Grazie di avermi ridato la vita. Ora però dovete tornare a casa».

Continuammo a guardarlo mentre andavamo verso la porta, mentre la aprivamo. Sbirciammo anche mentre la chiudevamo lentamente. Anche lui ci guardò, con occhi teneri. Poi noi due scendemmo in silenzio e insieme a Bisbiglio uscimmo dalla casa, nel buio di quella sera da togliere il fiato.