L’indomani a scuola andai alla grande. Nessuno riusciva a togliermi la palla. Facevo finte, dribbling, colpi da maestro. Saltavo i contrasti, passavo di tacco ai miei compagni, segnavo di testa in tuffo o con punizioni a effetto nell’angolino.
Dopo che la campanella suonò, mentre attraversavamo il campo per tornare in classe, Leakey arrivò di corsa e mi disse: «Bella botta di fortuna che hai avuto oggi, eh? Non giocherai mai più così».
Risi. «Fortuna? E allora questo cos’è?»
Lasciai cadere il pallone. Qualche finta, poi gli feci un tunnel e gli sfuggii. Lui mi raggiunse e mi entrò sul tallone, facendoci cadere È tutti e due.
«Fallo!» gridai. «È fallo!»
Ci mettemmo a fare la lotta, rotolandoci nell’erba. Lui era più grosso di me e mi bloccò, mi si sedette sopra e mi schiacciò le spalle a terra.
Stava ghignando. «Prova a ripeterlo» disse.
«Fallo! E fallo, che cavolo!»
Alzò un pugno come se volesse spaccarmi la faccia, ma poi si mise a ridere e cadde lungo disteso vicino a me.
«Porca zozza» disse. «Sei stato pazzesco».
Restammo lì a ridere, ma poi sentimmo la signora Dando che urlava: «Tornate dentro, voi due! Farete tardi!»
Allora ci alzammo e ci incamminammo verso la scuola.
«I giorni scorsi sembravi in un altro mondo» disse Leakey.
«Lo so».
«Mi dici cos’avevi?»
Ci fermammo. Lo guardai e capii che era sincero. Voleva sapere.
«Un giorno o l’altro ti racconto tutto» gli dissi.
Poi sulla porta della scuola vedemmo Coot che ci aspettava.
«Magari lo racconterò anche a quello scemo. Sempre che ci creda».
Poi sentimmo di nuovo la signora Dando: «E dai, voi due! Forza! Entrate!»