VIII

So nobili accenti

e ritmi lucidi, inevitabili.

Ma so, anche,

che il merlo è coinvolto

in quel che so.

Eccolo che entra, un groviglio d’irritazione e paura. Il telefono premuto contro l’orecchio. Di nuovo nei guai, non c’è dubbio. Al bancone del guardaroba si scrolla di dosso il cappotto. Gocce di neve si sciolgono a terra in un’ampia costellazione. La guardarobiera lo squadra con un’occhiata. Lui si snoda la sciarpa rivelando un collo la cui pelle potrebbe piegarsi e ripiegarsi più volte. Elliot ricorda un vecchio tricheco, maestoso e ingombrante al contempo. Espone il testone calvo togliendosi bruscamente il cappello, e rivolge un dito levato al lato opposto del ristorante come a dire Aspettami, ma non aspettarti che mi precipiti. Dà le spalle alla ragazza del guardaroba e mette la mano a coppa sul cellulare. Dev’essere una telefonata davvero importante. C’è rabbia nella flessione del suo corpo. Ha un che del tipico irlandese. Rosso e venato. Che ne è stato degli ottimi geni di Eileen? Forse si sono concentrati tutti su Katya. Strano il modo in cui succede. Non diventiamo mai davvero padri dell’intera esperienza. Diventiamo, al contrario, i figli dei nostri figli. Ciò che accade a loro, dunque, accade a noi. E così sia. È mio figlio quello nell’angolo del ristorante che adesso sta gridando nel cellulare, mentre io me ne sto seduto qui davanti a un bicchiere d’acqua, a guardarlo, e la verità è che per lui non potrei provare più amore né meno avversione: la maledizione del padre. Qualcuno potrebbe cortesemente farlo tacere e guidarlo qui al mio tavolo preferito così che possa stringermi la mano, magari anche baciarmi la fronte maculata e dirmi ciao, e in silenzio scivolare a sedere tornando a essere il ragazzo ammaliatore di un tempo? Forse la neve interromperà il segnale telefonico e noi potremo starcene seduti in pace, e quand’è stata l’ultima volta che ci siamo veramente parlati, non solo per scambiare facezie? Quando, oh, quand’è che gli ho detto una parola che significasse davvero qualcosa?

Allunga una mano verso il suo bicchiere d’acqua e, grazie a cielo, vede Elliot chiudere la chiamata. Sbrigati, figliolo, stai facendo un bel po’ di chiasso, altri quindici minuti della mia vita andati sprecati.

Adesso là fuori la neve picchia forte. Colpisce obliqua la strada in un crescendo deciso. Mach shnell, figlio mio. Raggiungimi.

Dal fondo della sala Elliot leva nuovamente il dito, questa volta in un gesto di scuse, o perlomeno così sembra, e ricomincia a digitare sul telefono.

Oh, al diavolo le buone maniere, qual è la mia cameriera? Non mi ricordo, sebbene sia già venuta al mio tavolo almeno due volte. È la bionda alta o la bionda bassa o la bionda media, oppure la medio-bionda media con la coda di cavallo? A quanto pare il nuovo gestore possiede azioni di un’azienda di tinte per capelli.

Si volta sulla sedia e lancia uno sguardo in fondo alla sala e, come previsto, ecco arrivare la medio-bionda media con un sorriso in volto. Diventano sempre più belle con il passare degli anni. O è frutto della genetica, o dell’occhio di chi invecchia.

«Sì, signor Mendelssohn?»

«Vorrei un bicchiere di Sancerre, mia cara.»

«Certo, signore.»

«E un Cabernet. Per quel tipo corpulento laggiù.»

«Prego?»

«Mio figlio.»

«Oh, certamente, signore.»

Sorride maliziosa e fruscia via verso il bar. Oh, per l’amor del cielo, Elliot, molla quel telefono e piantala di mettermi in imbarazzo, ti prego. Apple: la tentazione della mela, la gloria di Eva, la confusione di Adamo, e oggi che mi è preso con il Giardino dell’Eden? Lasciatemi qui con il BlackBerry, abbarbicato al mio cespuglio, e chissà se c’erano bacche nere, nell’Eden, a far da contrappeso alle mele, e a proposito, dov’è finito il mio telefono? Si tasta le tasche ma lì non c’è. Devo averlo lasciato nel cappotto. Con il volume alto, se ben ricordo. O era solo sulla vibrazione? Sarebbe imbarazzante se quel coso cominciasse a squillare a distanza. Non ci sono più di sei clienti oggi nel ristorante, cosa che renderebbe il suono ancora più penetrante. Ti scongiuro, fa’ che non suoni, per favore. Ti prego, Dandinho, alza la musica. Buffo. È Mendelssohn. Sinfonia n° 4. Viene fuori dalle casse. Un bel suono tranquillo, sebbene riesca ancora a sentire la voce irritata del figlio abbaiare nel telefono. Una volta era un incantatore con il dono della loquacità, dono che in qualche modo si è dissolto per strada. Portatelo fuori sotto la neve, Elliot. Se tua madre fosse qui attraverserebbe la sala a passo di marcia per darti quello che ti meriti. E comunque cos’è che diamo ai nostri figli, se non il talento per non diventare come noi? Come sarebbe orribile il mondo se fossimo tutti copie carbone l’uno dell’altro. Ma Elliot non è di certo sua madre, e dovrei forse accettarlo: è più simile a me, purtroppo per lui, e per me, e magari addirittura per tutti noi.

Eccola che arriva, vassoio in mano. Trasuda piacevolmente: il bicchiere, non la cameriera. Oltretutto, è una gran bella dose: sia il drink sia la cameriera.

«Ha un aspetto meraviglioso oggi, signorina.»

Una macchiolina azzurra all’interno del polso. Probabilmente un’artista, hanno tutte un secondo lavoro. Arte astratta, non c’è dubbio. Una veduta di Brooklyn, semplice e precisa ma con una graziosa voluta.

«Grazie, signor Mendelssohn. Anche lei, se posso, è un vero elegantone.»

Oh, quanto in fretta si dissolvono le nubi scure. Da pannolone a elegantone. E sa addirittura come mi chiamo. Sincera, direi: non sta soltanto sviolinando le sue banalità, come la metà del personale sembra fare ogni giorno, che piacere vederla, le auguro una buona giornata, si sta ancora occupando del piatto, signore? Sto mangiando, signorina, non sono occupato con nessun piatto. Questa medio-bionda media ha stile e gusto e carisma. Non è solo l’ennesima tipa a perdere. Dovrà ricordarselo al momento della mancia. Lui è davvero… qual è la parola? Oh, è scivolata giù dalla rupe, sparita, una vecchia frase in yiddish, ce n’è ancora qualcuna, in cantina, balzano fuori come mele di Halloween, un po’ qui un po’ là, ma cos’era? Svaporata. Ciò nondimeno, lui è un vero elegantone, già. Una camicia Brooks Brothers. Una cravatta Gucci scelta da Sally. Un abito di ottimo taglio confezionato su misura addirittura da Frankie Shattuck, il giovane pugile-sarto-e che ne so-ambarabà ciccì coccò. Il più bravo creatore di vestiti di New York. Ottima piega dei pantaloni. Un bavero ben rifinito. Foderato in seta. L’abito fa davvero l’uomo. Appena ricevuto l’incarico presso il tribunale distrettuale, decadi fa, era subito andato al negozio di sartoria per chiedere al padre di Frankie di fargli una toga da giudice con tutti i crismi e lui gliel’aveva confezionata, con il migliore dei tessuti, i punti più perfetti, le tasche nei posti esatti, la giusta caduta dalle spalle, lo spaccato per stringere mani e impugnare il martelletto, farpitz – ecco la parola, sì, farpitz. Vestito a festa. E quando era stato eletto alla Corte Suprema se n’era fatto confezionare uno con un tessuto ancora migliore. Adesso il padre di Frankie è scomparso. Tutti noi scompariamo come la rugiada del mattino. Come il nostro yiddish.

«Un gran tempaccio» dice la cameriera.

«Quando ero bambino, ricordo che nevicava dieci volte di più.»

Cosa che invece non ricorda affatto. Riesce a ricordare Vilnius solo d’estate.

«Io non avevo mai visto un fiocco di neve finché non mi sono trasferita qui» dice lei.

«Australia?»

«No.»

«Nuova Zelanda?»

«No.»

Sta giocando con me, adesso: Sud Africa?

«Zimbabwe» dice lei, compiaciuta.

Oh, flirta e indugia. Che città, questa! Non finisce mai di stupirmi. Una ragazza bionda della Rhodesia che serve un lituano ebreo di origini polacche in un ristorante italiano con almeno un paio di camerieri messicani in attesa in disparte, pronti a scattare, e naturalmente Dandinho, l’eccezionale aiutocameriere brasiliano che si muove con grazia di tavolo in tavolo, mentre il mio grosso e calvo figlio americano vicino al guardaroba continua a ciarlare al telefono.

«E il suo nome è?»

«Rosita.»

«Perbacco, grazie, Rosita.»

Nome insolito per una ragazza dell’Africa. Si allontana indietreggiando e sorride. Lui fa un cenno a Dandinho che attraversa agile la sala per riempirgli d’acqua il bicchiere.

«È assetato oggi, signore?»

«È il caldo là fuori, giovanotto.»

Dandinho versa con grande stile, una mano dietro la schiena, come se porgesse i suoi rispetti al bicchiere con il corpo intero. Nessuna paura di bagnarsi le mani. Un tuttofare. Accoglie, saluta, serve in sala. Celebre in lungo e in largo per l’abilità con cui ti confeziona gli avanzi. Un artista dell’alluminio. Non è una qualità da poco. Non c’è niente da ridacchiare. Piegatore di fogli d’alluminio. Riesce a creare qualsiasi forma il commensale desideri: cigno o delfino o mucca o gru o giraffa. Pochi istanti per trasformare avanzi in opere d’arte. Altro che cartoccio dei resti. I bambini lo adorano, e anche le gentildonne che vengono a pranzo e perfino gli uomini d’affari tiratardi che se ne tornano a casa con un animale esotico sotto il braccio. Alcuni anni fa, una galleria d’arte le ha addirittura esposte, le sue sculture d’alluminio.

«Come sta oggi, signore?»

«Sto da Dio. Tutto lacero e sgualcito.»

Il sorriso indulgente di Dandinho: quella battuta l’ha già sentita.

«Qualcos’altro, signor Mendelssohn?»

«A posto così per ora. In realtà, aspetto mio figlio.»

«Ah, certo. Un po’ di pane?»

«Grazie, Dandinho, ma sto attento alla linea.»

Ed eccolo che arriva, infine, avanzando pesantemente, non certo un pattinatore artistico, urtando tavoli e sedie, e mettendo via il telefono strada facendo. Eppure c’è in lui un certo vigore, nulla di lieve o di mansueto, questo è sicuro, tre Mendelssohn in un solo movimento, padre, figlio e sinfonia.

«Papà» dice, con un improvviso scarto gentile nella voce e una stretta alla spalla di suo padre.

Un po’ sovrappeso, è vero, ma conserva ancora due begli occhi luminosi, stesso taglio di quelli della madre. Parlami di lei, figliolo, investimi con una grandinata di parole.

«Elliot, ti presento Dandinho.»

«Piacere, signore.»

«Piacere mio, Davido.»

Elliot afferra la mano di Dandinho e gli elargisce una stretta vigorosa. Sarebbe un buon politico, anche se continua a sbagliare i nomi. Inoltre veste anche bene. Spilla d’oro. Colletto perfetto. Buon taglio di stoffa.

«Elliot Mendelssohn» si presenta, «Barner Funds.»

Come se a Dandinho gliene importasse qualcosa, della Barner Funds. Ma il brasiliano esita un istante, poi afferra lo schienale della sedia reggendola educatamente mentre Elliot si siede e la riavvicina al tavolo, anzi, vista la mole dell’uomo, non la riavvicina quasi per niente. Elliot si assesta sulla sedia come se fosse il dorso di un puledro imbizzarrito. Il tavolo traballa lievemente facendo risuonare l’argenteria.

«Grazie, Davido.»

Una strana espressione sul viso di Dandinho, qualcosa che gli scuote la mente, un cavallo selvaggio, un toro, un orso. Possibile che Dandinho faccia congetture? Non si sa mai. Oggigiorno sul mercato si lanciano le persone più improbabili, e chi può sapere che tipo di vita ci sia dietro un’altra vita? Forse lo stesso Dandinho ha una bella casa grande laggiù da qualche parte a Brooklyn, con le maniglie placcate d’oro, la piscina, una moglie come Jacintha e gli annessi e connessi, il neon dell’indice NASDAQ che pulsa tutt’intorno allo specchio mentre si rade, si sono viste accadere le cose più strane, perfino a un attempato aiutocameriere.

«Una società molto solida, signore.»

«Ci stai investendo, Dandinho?»

«Oh, no, signore, non io, signor Mendelssohn. Solo che conosco qualcuno.»

«Non conosciamo tutti qualcuno?» ribatte Elliot.

Dandinho annuisce e si allontana.

Il menu sfogliato. Il tovagliolo spiegato. I consueti convenevoli. Che bello vederti, figliolo. Tempo da lupi. Perdona il ritardo. Un ronzio di scuse, più rumore che senso: è stato bloccato dal lavoro, l’hanno intercettato ancora mentre era sulla Lexington, qualche affare andato a monte strada facendo, in questi giorni è davvero sommerso, tempo, tempo, tempo.

Nell’inventare scuse è come un buon vino: migliora con l’età.

«Mi sono preso la libertà.»

«Grazie, papà.»

«Un Cabernet per lei, signore.»

Elliot finge di non allungare lo sguardo quando Rosita si china verso di lui per servirgli il vino. Mentre elenca le specialità, sta in piedi con le mani raccolte sul basso del ventre. Una bella postura. Quella macchiolina azzurra sul polso: un’aggiunta così perfetta, come il nodo impreciso su un tappeto persiano.

«Grazie, Rosita.»

Salmone con salsa all’aneto per lui. Costata di manzo, media cottura, con salsa al mango per Elliot. Niente antipasti. Dritti al cuore della questione. Lei scribacchia l’ordine su un blocchetto celeste, sbatte le ciglia, si allontana, sì, un’artista, non c’è dubbio. Un salmone davvero. La guarda ondeggiare, controcorrente, la deliziosa distesa dei suoi fianchi.

«L’chaim!» dice Elliot.

Salute a te, figliolo. Così abituato a trovare la parola giusta, di recente s’è perfino vociferato di una sua candidatura in politica, una decisione sicuramente disastrosa, perfino per uno che si dà tanto da fare come lui – lo masticherebbero e lo risputerebbero, e già che ci sono lo liofilizzerebbero pure – ma si può forse biasimare l’ambizione? Ed eccoci qui, a far tintinnare i bicchieri e a tuffarci nelle vecchie e torbide acque, padre e figlio, e come sta Jacintha, come va a casa, hai notizie di Katya, tutto liscio con Sally, la usi mai la sedia motorizzata, mangi come si deve, hai visto il dottor Marion?

Sono arrivati a metà del vino quando gli squilla di nuovo il telefono.

«Scusami.»

Una voce di donna. Elliot è rapido e conciso. Sì, no, non posso parlare adesso, assolutamente no, lei non ha prove, lascia perdere, ho detto che adesso non posso parlare.

Chiude la comunicazione e dice: Gesucristosanto!

Sbatte il telefono sul tavolo e digita sui tasti, un pianista, nonostante le grosse dita carnose, un Richter del tastierino.

«Sei un uomo impegnato, Elliot.»

«Solo roba di lavoro, mi dispiace. Non finisce mai.»

«Problemi di donne?»

«Non lo sono tutti?»

Meriterebbe una tirata d’orecchi per questo. È un bene che Eileen non sia nei paraggi, lo piglierebbe a frustate, lo trascinerebbe in bagno per lavargli la bocca col sapone.

«La mia segretaria.»

«Capisco.»

«Ho dovuto licenziarla.»

«Mi dispiace sentirlo.»

«Sta provando a farmi causa.»

«Brutta faccenda.»

«Dagli un dito e quelle si prendono il braccio. Putanita!»

Una parola pungente. Una sparata da patrón. Sale sulla ferita. Putanita. Un’emigrazione fra lingue. Oltre alle mogli bionde, Elliot ha sempre avuto un certo occhio per le ragazze latine.

«Sembra complicato.»

Elliot scocca un’occhiata verso un punto distante. Un lieve tremore della palpebra e una torsione della bocca. Impossibile dimenticare che un tempo aveva sei anni, sulla spiaggia di Long Island, in calzoncini blu, una chiazza di sabbia secca sulla scapola, chino sulla spalla di sua madre con un sandwich nella mano, le braccia di Eileen intorno alla vita, l’andirivieni delle onde sulla battigia, quando ancora era il ragazzino che sembrava destinato a diventare.

Ed eccolo di nuovo lì, tremante e palpitante, vibrante sul tavolo, che cos’è questa, una candid camera?

«Scusa, papà.»

«Oh, tutto bene, fai pure, prendi la chiamata, davvero, tutto a posto.»

Anche se non è per niente a posto, è ben lungi dall’essere a posto, anni luce dall’essere a posto – fai solo la scelta giusta e spegni quel telefono, ti dispiace, figliolo? Ti prego, chiudi dentro in cucina Allen Funt, sorridi, sei la star dello spettacolo, oh, la mente oggi è ballerina, era Allen Funt quello delle candid camera? Sì? Bei tempi, senza complicazioni, o almeno così pareva, riuniti a guardare insieme la TV, un Elliot lungo e magro stravaccato sul tappeto, Katya raggomitolata nel suo cuscinone, la stanza accogliente, il camino acceso, lui e Eileen su identiche poltrone coi posacenere sui braccioli, all’epoca lui fumava la pipa, non tocco più una pipa da non so quanto tempo, sono anni che di una sigaretta non sento nemmeno l’odore.

Questa volta è un bisbiglio forte e insistente: te l’ho detto, sono fuori a pranzo, non chiamarmi più per queste stronzate.

Poi un cenno verso il bicchiere di vino: scusa, papà.

«Ti ricordi quando lasciavano che si fumasse nei ristoranti?»

«Prego?»

«Stavo pensando che un tempo fumavamo tutti. Ho ancora la pipa, sai. In camera da letto.»

«Nessuno fuma più la pipa, pa’.»

«Si sente ancora l’odore nel fornello. Se ci avvicini il naso. Persiste.»

Elliot abbassa nuovamente lo sguardo sul telefono. E che cos’è che persiste ancora di questi tempi? Quello di cui ti voglio parlare veramente sono quei giorni lontani con tua madre, quando eravamo tutti uniti e la vita scorreva, lentamente, giorno dopo giorno, e perché mai complichiamo il passato, è semplicemente solo fumo di pipa? Ma eccoci qui, ad ascoltare le tue ciarle sulla putanita e su un’ennesima scusa per il tuo ritardo, e sicuramente c’è dell’altro, vero figliolo? Dovrei dare un’altra chance alle mie memorie? Dovrei dare un aumento a Sally James? Vorresti un altro bicchiere di Cabernet? Come diavolo farai a riempire quel garage da cinque posti auto? Riuscirebbe mai un uomo ad avvelenarsi con il monossido di carbonio in uno spazio tanto grande? No, no, dimmi questo e nient’altro: ti manca la mamma, figliolo? O dimmi: ti ricordi i giorni trascorsi insieme a Oyster Bay? Oppure rispondi a questo: ti capita mai di pensare a lei con un pizzico di rimpianto?

Ed ecco di nuovo quel maledetto telefono che s’impenna sul tavolo come un cavallo brado. Dal fondo della sala convergono alcune rapide occhiate. Non è mio, lo giuro, è un alieno – adesso li producono grandi e con gli occhi blu e americani. Disapprovazione da parte di una delle Gentildonne al Pranzo, e un comprensivo cenno del capo da parte della cameriera.

Rosita, Lady Marian, liberami da mio figlio, conficcalo nella neve, prendi arco e frecce, mira per bene e trafiggigli quella cazzo di mela che ha in testa, come Robin Hood, o era Guglielmo Tell? Anzi, come William Burroughs.

Elliot si sporge, e con il fascino di cui a volte è capace dice: Ti dispiace, papà? A questa devo proprio rispondere.

Mi dispiace sì. Siamo qui a spezzare insieme il pane, e tutto quello che vuoi fare è ciarlare all’infinito. C’era un tempo in cui te ne stavi seduto nel cantuccio della cucina, le nostre teste chine sul libro di matematica, quadrangoli, quadratiche, vicini il più possibile, moltiplicati l’uno per l’altro. Quand’è stata l’ultima volta che ci siamo davvero guardati, rispondi a questo, figliolo. Sono un vecchio mentecatto sentimentale, grondante nostalgia, e i cinici mi annoiano, e tanto vale che te lo dica con il cuore in mano, vorrei parlare con te senza interruzioni, puoi concedermi almeno questo?

«Nessun problema, Elliot.»

«Grazie, papà.»

Si mette di lato sulla sedia, la mano a coppa sul telefono, la sua grossa fede nuziale d’oro scintillante. Non vedo, non sento, non parlo. Ha un braccialetto d’argento al polso. Per tenere alla larga i vampiri. Con Jacintha non ha funzionato, questo è poco ma sicuro. Elliot sta combinandone una delle sue, riesce a sentire dei frammenti, la voce al telefono stavolta è maschile, li mette insieme come un puzzle: lei è stata licenziata, tutto corretto e legittimo, è un’estorsione, non se ne parla proprio, la cito in giudizio, ma come osa, chi si crede di essere, è una stramaledetta segretaria, non mi frega un cazzo di come lo chiama lei, senti, Dave, sono al ristorante con mio padre, lei non può fare niente, dammi un’ora di tempo, tutto corretto e legittimo… che cazzo, occupatene tu, okay?… è per questo che ti pago, se è una causa che vuole, l’avrà… assistente di direzione dei miei coglioni, fatti sotto!

C’è sotto qualcosa. Quante donne hanno scagliato accuse contro Elliot? Salve, Barner Funds, ufficio di Elliot Mendelssohn, come posso aiutarla? Mi tenga un posto nella lista dei disoccupati, per favore, il mio capo mi ha appena dato della putanita.

«Scusa, papà» dice di nuovo, alzando gli occhi al cielo e sporgendosi sul tavolo per prendere un po’ di pane dal cestino.

Nessun problema, figliolo, me ne starò qui seduto in attesa del mio salmone con la salsa all’aneto lasciando che il giorno scorra via lentamente.

«Torno subito da te, promesso.»

Ed ecco che riparte con le dita sulla tastiera e uno scatto delle mascelle – sembra boccheggiare lui stesso come un pesce d’allevamento preso all’amo –, scosta la sedia con addosso lo sguardo di mezzo ristorante, amo, lenza, piombo.

Dove diavolo ho sbagliato, in che modo gli ho rovinato l’infanzia, trascurandolo o non leggendogli i libri giusti o lasciandolo cadere sul cucuzzolo di quel cranio prematuramente pelato? Ha superato brillantemente l’adolescenza, non ha mai dato troppi problemi. Un bel ragazzino, tornava a casa con i suoi trofei del lacrosse, gli attestati delle prove di dibattito, le medaglie degli scacchi. Niente telefonate a tarda notte, nessuna sospensione, nessun arresto. Amherst College, e poi Harvard, e in seguito l’approdo a Wall Street, dove si è barricato per due anni, è entrato nel gioco dei soldi, ha lanciato i dadi e poi li ha truccati; e adesso eccolo lì, che passa accanto ai tavoli vuoti, diretto alla toilette, osservato per tutto il tempo da Dandinho. Strano sguardo, che ha Dandinho. Di certo avrà visto più di un cliente blaterare al telefono, perfino ingannare al telefono, no? Esiste forse una regola della casa contraria a questo? Al blaterare e anche ingannare?

Ci vorrebbe un altro bicchiere di Sancerre, dov’è la mia medio-bionda media, vieni da me, com’è che era il tuo nome? Rosita, Rosita, mio stelo, mio petalo, mia spina.