Per quattordici anni di seguito gli orti di Bilignin furono la mia gioia: d’estate ci lavoravo, d’inverno li sognavo, facevo mille progetti. Spesso l’estate cominciava ai primi d’aprile, con la semina, e si concludeva a fine di ottobre, con l’ultima raccolta di verdure. Bilignin è circondata da montagne e non lontana dalle Alpi francesi (da un’altura a pochi chilometri di distanza, vedevamo il Monte Bianco) e quindi non era prudente seminare troppo presto. Un anno perdemmo la prima semina di fagiolini, un’altra volta i piselli vennero distrutti da una gelata improvvisa. Mi ci vollero parecchi anni per capire il clima del posto e quasi altrettanti per riuscire a prevedere il tempo. L’esperienza non è mai facile da ottenere. Mi rifiutavo ostinatamente di prender per buoni i racconti dei contadini ritenendoli superstizioni, con i tipici pregiudizi della cittadina. Mi dicevano di non trapiantare mai il prezzemolo e soprattutto di non piantarlo mai di Venerdì santo. In California lo facciamo, era la mia fragile risposta. Mi dicevano di non piantarlo durante la luna nuova o la luna piena. Ai semi non sarebbe importato nulla della luna, era la mia risposta impaziente. Ma non era vero. Prima della fine del lungo periodo di locazione della deliziosa casa e degli orti di Bilignin, ero diventata non solo bravissima a capire il tempo ma anche una giardiniera quasi di successo.
Nella primavera del 1929 affittammo quella che era stata la residenza padronale di Bilignin. Eravamo incantate da tutto quello che vedevamo. Ma dopo un’attenta ispezione dei due grossi orti (uno basso, al livello della terrazza giardino davanti alla casa, e l’altro molto più alto e lontano dal cortile e dai cancelli), scoprii con orrore che versavano in uno stato spaventoso. L’anno prima erano state piantate solo patate. Bisognava ripulirli immediatamente dalle erbacce e tutto il resto. Ci vollero sette giorni, con sette uomini del villaggio.
Preparammo un progetto per le aiuole. Poi un elenco delle verdure che volevamo piantare e dei posti dove piantarle. Avevamo portato con noi sacchetti di semi di tutte le verdure che piacevano a me e Gertrude Stein, e avevamo intenzione di fare subito qualche esperimento. Dopo aver concimato e pareggiato il terreno con un rastrello, cominciammo la semina, con una preghiera. Avevamo appena finito di seminare le verdure del primo raccolto che era già ora di pensare agli innesti acquistati dalle contadine nella piazza di Belley al mercato del sabato mattina. A Belley c’erano due orticultori, un uomo piuttosto giovane, piuttosto colto, ambizioso e pretenzioso che credeva fermamente nel proprio destino di futuro Ministro dell’Agricoltura, e una donna anziana senza altra preparazione se non quella acquisita con lunga esperienza. Gli innesti che ci diedero non erano tutti buoni; ne piantammo il doppio di quanti avessimo avuto intenzione di coltivare.
Il vento, che spingeva i semi delle erbacce dei campi incolti nei nostri orti, e le pioggie, che lavavano via la superficie del terreno, erano i due inconvenienti ai quali occorreva trovar rimedio. Le erbacce restarono un’esperienza frustrante e stancante per tutte le estati che passammo a Bilignin. Dopo il raccolto d’autunno, lo strato superficiale del terreno veniva smosso. Per fortuna, l’acqua non mancava vai. Solo una volta ci fu un periodo di siccità, e l’acqua venne trasportata in barili su un carro trascinato da buoi dal torrente nella valle. Per innaffiare avevamo comperato trecento metri di tubo di gomma.
Il lavoro nell’orto (allora Gertrude Stein si occupava dei fiori e delle siepi) era un lavoro a tempo pieno e anche di più. Diventò una specie di scherzo tra noi: Gertrude Stein mi chiedeva che cosa vedevo quando chiudevo gli occhi, e io rispondevo, erbacce. Non è la risposta giusta, diceva, e così le erbacce si trasformavano in fragole. Le fragoline, quelle che i francesi chiamano fragoline di bosco, non sono selvatiche ma coltivate. Mi ci voleva un’ora per raccoglierne un cestino per la colazione di Gertrude Stein, e in seguito, quando riuscimmo ad averne una coltivazione nell’orto in alto, prendemmo l’abitudine di invitare i nostri giovani ospiti a raccoglierle da sé, se volevano mangiarle.
Il primo raccolto di insalate, rapanelli ed erbe, in maggio, mi fece sentire come una madre davanti al suo bambino... come poteva esser mia una cosa così bella? Una sensazione di meraviglia che si ripresentava davanti a qualunque verdura raccogliessi ogni anno. Nulla regge il confronto, dà soddisfazione, eccita come la raccolta delle verdure da te stessa coltivate.
In principio, nel raccogliere le verdure non ci ponevamo mai il problema di come cucinarle. Naturalmente nel modo più semplice, al vapore, o bollite, condite con l’eccellente burro e la panna che ci procurava un contadino del vicinato. Poi, quando cominciammo ad avere ospiti e le verdure appena colte non ci sembrarono più un miracolo, decidemmo di variarle con l’aiuto di qualche salsa.
All’inizio avevamo l’abitudine di raccogliere le verdure appena spuntate, fatta eccezione per le barbabietole, le patate le zucche e le zucchine grosse, perché non vedevamo l’ora di assaggiarle, e volevamo gustarne il sapore delicato. Questo faceva sì che non fosse necessario servire delle salse con alcune verdure... piselli, fagiolini e lattuga. Con qualche eccezione, quando avevamo ospiti francesi, per esempio, li preparavamo in questo modo:
Mettere in una casseruola a fuoco medio 4 tazze di piselli sgusciati, 12 cipollline, un mazzetto formato da un gambo di prezzemolo e parecchi di basilico, un quarto di tazza di burro, un quarto di cucchiaino di sale, mezzo cucchiaino di zucchero, 1 lattuga bianca tagliata a nastri e 4 cucchiai di acqua. Portare a ebollizione, coprire e abbassare gradatamente la fiamma. Prima di servire togliere il mazzetto di odori e aggiungere 4 cucchiai di burro. Inclinare la casseruola in tutte le direzioni per far sciogliere il burro. Servire subito.
Oppure in quest’altro:
Mettere 12 cipolline in una casseruola a fuoco medio con 3 cucchiai di burro e mezza tazza di lardo bollito per 5 minuti, scolato e tagliato a dadini di circa 1 cm. Quando le cipolline saranno ben abbrustolite, toglierle insieme ai cubetti di lardo. Aggiungere al contenuto della casseruola 1 cucchiaio di farina. Mescolare bene e aggiungere gradatamente 1 tazza e tre quarti di brodo di vitello. Far bollire per 15 minuti e aggiungere un pizzico di sale. Poi aggiungere 4 tazze di piselli sgusciati, i cubetti di lardo e le cipolline. Coprire e cuocere per 15 o 25 minuti a seconda della grandezza e dell’età dei piselli.
La maggior parte dei nostri ospiti maschi amava far colazione in terrazza. I vassoi della prima colazione erano il mio orgoglio, anche se i tovaglioli e il vasellame erano semplici. Al mercato di Chambéry avevamo trovato delle deliziose coppette di vetro colorato, 1840-50, originarie della Savoia. Le comperammo tutte. Fragole, mirtilli, frutta, insalate e verdure servite in quelle coppette avrebbero incantato un pittore di nature morte. Agli amici francesi servivamo una colazione all’americana ridotta, qualcosa di più del solito caffè e croissant con burro, marmellata o gelatina di frutta. I croissants sono deliziosi, a colazione o col tè.
Scaldare mezza tazza di latte. Quando sarà caldo mescolarci 1 bustina di lievito. Passare al setaccio 1 tazza di farina e mescolarla con il lievito fino a ottenere un composto spugnoso. Far lievitare per circa mezz’ora. Passare al setaccio 3 tazze di farina in una terrina. Mettere il lievito al centro della terrina, in fondo, e aggiungere gradatamente 3 tazze e mezza di latte e la farina. Lasciar riposare fino a quando la pasta sarà raddoppiata di volume. Poi metterla su un’asse appena infarinata e impastare bene fino a quando la pasta non resterà più attaccata alle mani. Stenderla e mettere un quarto di tazza di burro lavorato con le mani, al centro della sfoglia. Piegare la sfoglia dai quattro angoli al centro. Formare una palla con le mani e lasciar riposare al fresco per parecchie ore o anche per tutta la notte. Poi stenderla di nuovo e dividerla in pezzi grossi come uova. Formare con ciascun pezzo un cilindro e lasciar riposare per 10 minuti. Poi stendere delicatamente ogni pezzo fino a formare una sfoglia spessa 1 cm. Arrotolarla partendo da un angolo, piegare gli angoli a semicerchio e far riposare per 35 minuti. Mettere i croissants sopra una teglia appena imburrata, spennellare di uovo sbattuto mescolato a 1 cucchiaio d’acqua. Cuocere al forno portato a 200 gradi.
Sono dolci tipicamente francesi, anche se originari dell’Austria.
Servire i fagiolini, specialmente quelli coltivati in Francia, accompagnati da una salsa, è una specie di sacrilegio. Perfino nella mia amatissima California crescevano meno profumati, meno teneri e privi di filo. Nonostante ciò li cucinavo tenendo conto dei nostri amici francesi, in questo modo:
Scaldare 3 cucchiai di olio d’oliva in una padella. Aggiungere un quarto di tazza di capperi, un quarto di tazza di acciughe pulite, 1 spicchio d’aglio pestato e 4 tazze di fagiolini cotti in acqua bollente con tre quarti di cucchiaino di sale e un quarto di cucchiaino di pepe in una casseruola senza coperchio. Girare fino a quando i fagiolini si saranno mescolati con gli altri ingredienti. Servire cosparsi di prezzemolo tritato e una cipollina tritata.
Per quanto riguarda la lattuga, e il problema se servirla con o senza salsa, il modo migliore di affrontare la questione è considerare la lattuga cruda e quella cotta come due verdure diverse. Per me cuocere la lattuga è come sacrificare un innocente. Ma se proprio bisogna farlo, questa ricetta ottiene sempre grandi consensi:
Per 4 tazze di lattuga tagliata a striscie mettere 4 cucchiai di burro in una casseruola a fuoco medio, aggiungere la lattuga al burro e mescolare con un cucchiaio di legno fino a quando la lattuga sarà ben coperta di burro. Abbassare la fiamma, aggiungere un quarto di cucchiaino di sale. Coprire e far cuocere lentamente finché l’acqua della lattuga sarà consumata. Aggiungere 1 tazza e mezza di densa salsa alla panna e 1 cucchiaino di succo di cipolla. Mescolare bene. Ammucchiare su un piatto di portata e circondare di grossi croûtons triangolari.
In autunno c’erano un sacco di verdure da cuocere. Per le prime verdure crude aspettavamo che maturassero i pomodori. Né io né Gertrude Stein amavamo molto le radici crude, o gli spinaci in insalata. Spinaci e acetosella potevano esser colti presto. Il secondo o il terzo anno a Bilignin tirai su tutta l’acetosella e ne lasciai una sola pianta. L’acetosella non è particolarmente buona, ma qualche foglia tritata su un’insalata mista le conferisce un buon aroma. È ottima anche tritata finemente e cosparsa su un piatto di pesce freddo.
Nei giorni del mio apprendistato, la buona Madame Roux veniva spesso nell’orto, interrompendo il lavoro di lavatura e stiratura per darmi ottimi consigli, con molto tatto. Feci tesoro di ogni sua parola. Fu soltanto ai tempi dell’occupazione, però, che, ebbe la soddisfazione di vedere i risultati dei suoi suggerimenti. Degli spinaci neozelandesi, per esempio, mi disse che avevano bisogno di molto concime, e il concime migliore era la crème de la crème, e quando si accorse che non avevo la minima idea di cosa stesse parlando, mi spiegò trattarsi, semplicemente, degli escrementi di maiale. La mattina dopo arrivò nell’orto con una grossa carriola colma del suddetto concime, e trovammo subito spazio per due file di spinaci. Gli spinaci neozelandesi hanno foglie piccole e spesse, a forma di edera, e la pianta tende ad arrampicarsi e a strisciare. Nel Bugey cresce su paletti, ma è capricciosa e ribelle. Deliziosamente teneri, è meglio cuocerli senza l’aggiunta di acqua. Dieci minuti in una casseruola coperta, poi li si scola, li si mette sotto il rubinetto dell’acqua fredda e li si scola di nuovo, li si strizza e li si rimette ad asciugare nella pentola: ecco il modo giusto di cucinarli. Poi si aggiunge un po’ di sale e panna acida o burro in quantità. Mezzo cucchiaino di sale e un pizzico di noce moscata o di zenzero macinato daranno il necessario aroma alla verdura. Non a tutti piacciono gli spinaci, ma questa ricetta ha sedotto parecchi miei amici.
Tutti gli anni una gentile amica mi mandava dagli Stati Uniti un sacchetto di semi di granturco dolce, coltivati e raccolti da sua madre. Era una vera festa per noi. A quei tempi in Francia il granturco da tavola non esisteva. I francesi lo coltivavano solo per gli animali, nel Bugey lo davano alle galline. Quando si seppe che lo coltivavamo per mangiarlo, ci bollarono come selvagge. Nessuno dei nostri amici impazzì per le pannocchie tenere che facemmo loro assaggiare. Ma restarono tutti a bocca aperta e piacevolmente sorpresi davanti ai pomodori giganti, non solo rossi, ma gialli e bianchi e alle enormi melanzane cinesi, che riuscivano a contenere mezzo chilo di ripieno.
Vedemmo il gombo per la prima volta nell’orto di Méraude Guevara nel sud della Francia e piantammo subito i semi anche a Bilignin. Le piante prosperarono in modo quasi allarmante. Non riuscimmo a mangiare nemmeno metà del raccolto di gombi e non potevamo permetterci di tenere nemmeno la metà dei polli coi quali cucinarli. In una cittadina così piccola e lontana dal mare come Belley c’erano poche aragoste e granchi. Cominciammo quindi ad usare i gombi per cucinare pesci di acqua dolce, carne di vitello e stufati di verdure.
Questo piatto delizioso non deve necessariamente contenere i gombi, ma se ne può aggiunge tre quarti di tazza finemente affettati, insieme a 1 tazza di brodo bollente.
È squisita se viene preparata con primizie freschissime.
In una pirofila con un buon coperchio mettere 3 cucchiai di burro e 3 cipolle di media grandezza tagliate ad anelli. Quando saranno dorate aggiungere 6 cuori di lattuga, 2 tazze di piselli freschi, 3 tazze di fagiolini, 2 piccole carote, 6 rape, 1 tazza e mezza di patatine novelle, 2 tazze di punte di asparagi e 1 tazza di burro. Coprire e far cuocere a fuoco molto lento. Scuotere spesso la pentola e di tanto in tanto staccare le verdure dal fondo con un cucchiaio di legno. Far attenzione a che le verdure non brucino. Dopo 1 ora e tre quarti aggiungere sale e pepe e cuocere ancora per un quarto d’ora... 2 ore in tutto.
Le verdure estive venivano di solito cucinate in modo molto semplice. Alla fine di agosto e per tutto l’autunno le ricette diventavano più elaborate. Sembrava opportuno aggiungere spezie e ricchi condimenti. Spesso si bollivano le verdure con erbe fresche o le si cuocevano in forno con erbe tritate. A me piace moltissimo l’aglio (troppo, dicono gli amici) e il basilico non mi sembra mai eccessivo con le verdure, il pesce, la carne. Questo per la cucina campagnola. La cucina di città non ammette tante spezie o condimenti.
Questa ricetta può essere preparata con zucchine o melanzane invece che con peperoni:
Passare al tritacarne 1 tazza di carne cruda e magra di vitello e 1 di prosciutto. Mescolare bene 2 tuorli d’uovo, 2 cucchiai di basilico fresco finemente tritato, 2 cucchiai di vino bianco, 1 cucchiaio di prezzemolo finemente tritato, sale e pepe, 1 tazza di funghi tritati cotti in precedenza in 2 cucchiai di burro, il succo di mezzo limone, sale e pepe, 3 cucchiai di parmigiano grattugiato, mezzo cucchiaino di cumino in polvere e un quarto di cucchiaino di zafferano. Tagliare a metà, per il lungo, 3 peperoni rossi e 3 verdi, togliere i semi e far bollire per 2 minuti esatti. Scolare e asciugare. Riempire i peperoni con il composto preparato. Sciogliere 5 cucchiai di burro in una teglia con un buon coperchio. Metterci i peperoni, non sovrapposti. Inumidire con una tazza di brodo di pollo o di vitello caldo. Aggiungere 2 tazze di pomodori tritati. Cuocere coperto a fuoco medio per 20 minuti. Togliere i peperoni, disporli su un piatto di portata a colori alternati. Cuocere la salsa ancora per qualche minuto, poi passarla e versarla sui peperoni. Servire subito.
Eravamo molto fiere dei carciofi che crescevano nel nostro orto, troppo fiere per cucinarli in modo elaborato fino alla fine dell’autunno, quando li servivamo in questo modo:
Per 4 grossi carciofi mettere in una pirofila con un buon coperchio a fuoco medio 5 cucchiai di olio d’oliva, 1 cipolla tritata e 2 carote tritate. Metterci sopra i carciofi, con le foglie verso l’alto, sale e pepe. Versare un po’ dell’olio sopra i carciofi. Coprire, mescolando di tanto in tanto. Quando carote e cipolle cominceranno ad assumere un colore dorato aggiungere 1 tazza di vino bianco, 2 spicchi d’aglio e 2 rametti di rosmarino fresco o 1 cucchiaio di rosmarino in polvere. Cuocere a fuoco lento fino a quando sarà possibile staccare facilmente una foglia. Servire caldi e coperti di salsa.
Oltre alle verdure, nel nostro orto crescevano molte varietà di frutta. Oltre alle fragole c’erano i lamponi, che duravano dalla fine di maggio a tutta l’estate, fino a dicembre... nemmeno la prima neve li scoraggiava. Crescevano in un angolino protetto e costituivano uno spettacolo delizioso. Ogni pianta era attaccata a tre fili di ferro e aveva sei rami, tre da una parte e tre dall’altra. Nel vederli per la prima volta non si capiva che cosa fossero quelle macchie di colore. Non me ne capacitavo, erano sempre una sorpresa, una novità, ogni mattina. Curarli era un piacere, non una fatica, e la loro bellezza e prolificità erano un compenso più che adeguato. In primavera i rami venivano legati ai fili, e l’operazione veniva ripetuta anche più tardi, in modo che il peso dei frutti non li spezzasse. Quando spuntavano germogli alla radice, se ne staccavano tre o quattro tra i più robusti o li si trapiantava per l’anno dopo. Le piante che crescevano già nell’orto al nostro arrivo davano frutti rossi. Dopo esserci assicurate l’affitto della casa per un lungo periodo, piantammo quarantotto lamponi bianchi nell’orto più in alto. Non prosperavano come quelli rossi. Dato che era lontano dall’acqua e trascinare il tubo di gomma fin lassù era molto faticoso, l’orto in alto era stato scelto per coltivare le verdure più comuni, patate, fagioli, zucche, zucchine, cetrioli. Nell’orto in basso non c’era posto per altri lamponi. Quelli bianchi vennero piantati vicino ai ribes, rossi bianchi e neri, e all’uva spina.
L’uva spina che si coltiva in Francia è quattro o cinque volte più grossa di quella che si trova negli Stati Uniti, e molto più dolce. Noi ne coltivavamo una varietà color lampone. La si coltiva come l’olivo, rimuovendo i germogli centrali appena spuntano, per dar luce e sole alla pianta. Ogni anno le vespe facevano il nido sul tronco di uno dei cespugli e dovevo toglierlo con un coltello affilato. Api, vespe e calabroni mi pungono raramente, anche se li aggredisco. Gertrude Stein non li trova simpatici, e non le piacevano troppo nemmeno i ragni, i millepiedi e i pipistrelli. Non si agitava troppo se li vedeva all’aperto, ma se ne trovava uno dentro casa si metteva a gridare aiuto. Per liberarsene ci voleva ostinazione, una scopa, alcuni giornali e un paio di tenaglie. Con questi strumenti si poteva star tranquilli.
Ecco la storia di due nostri amici, un’ammirevole storia di amore coniugale. Lei non voleva che il marito si annoiasse, si preoccupasse o si inquietasse. Durante i primi tempi del loro matrimonio gli fece credere di essere spaventata a morte dai ragni. Tutte le volte che lo vedeva preoccupato o inquieto lanciava un urlo, tesoro, un ragno; laggiù, caro, non lo vedi? Lui arrivava di corsa con un fazzoletto, lo metteva sul posto che lei indicava, raccoglieva il ragno immaginario e lo buttava in giardino. La moglie si toglieva le mani dalla faccia e diceva con un sospiro di sollievo, Come sei buono e paziente, amore mio.
Nell’orto in alto cresceva anche il rabarbaro. Due o tre torte di rabarbaro all’anno non valevano lo spazio occupato dalla pianta e così la strappammo e la gettammo sul mucchio del concime. La stessa cosa successe ai meloni dopo il primo anno. Richiedevano troppe cure. A Parigi avevano una stanzetta che Gertrude Stein chiamava il Salon des refusés, dal nome del posto in cui gli Impressionisti avevano fatto una mostra l’anno in cui erano stati rifiutati al Salon vero e proprio. Nel nostro c’erano i quadri che Gertrude Stein aveva scartato: li aveva comperati per scoprire se le piacevano o meno e alla fine li aveva trovati poco interessanti. Nell’orto era più semplice. Quando i refusés venivano strappati e buttati sul mucchio del letame, nessuno si offendeva.
L’altra frutta non era buona e abbondante come i lamponi e i ribes. Quando arrivammo a Bilignin c’erano un albero di pere, uno di mele e uno di prugne nell’orto, tutti vecchi. Col permesso del nostro padrone di casa, togliemmo subito l’albero di prugne. Facemmo di tutto per salvare il pero, di un bel rosa scuro, ma inutilmente. Ci restò solo uno stupendo melo. Aspettammo tre anni, e quando firmammo il contratto di affitto a lungo termine piantammo meli, peschi, albicocchi e mandarini. I francesi piantano gli alberi da frutto alla vecchia maniera, lungo il lato del muro esposto al sole. Noi avevamo due muri del genere, e uno era in parte occupato da un vecchio, bellissimo alloro.
Quell’alloro era fonte di continua delizia. Avevamo delle rose color malva che stavano benissimo in mezzo alle foglie di alloro. Ce n’era sempre un mazzo nelle stanze dei nostri giovani ospiti, scrittori, pittori e qualche volta anche musicisti, come simbolo di gloria futura. Nessuno si rese mai conto delle fatidiche foglie.
Quando arrivava l’autunno il raccolto ci teneva così occupate che dimenticavamo di dover tornare a Parigi. Non solo bisognava raccogliere le verdure invernali e lasciarle asciugare al sole per una giornata, ma anche buttare foglie e gambi sul mucchio di letame. Il giorno in cui vedevo i cestini pieni di verdure era il più bello dell’anno, per me. Il sole splendeva sull’arancio delle carote, sulle zucche rosse verdi gialle e bianche, sulle melanzane viola e sugli ultimi pomodori rossi. Solo guardarli faceva impallidire tutti i piaceri e le soddisfazioni dell’annata. Gertrude Stein assunse un atteggiamento più pratico nei confronti del raccolto. Arrivò nell’orto freddo, umido e nudo, diede un’occhiata a tutti quei cestini e quelle cassette e chiese se avevo intenzione di spedirli tutti a Parigi, perché in questo caso le spese postali ci avrebbero mandato in malora. Pensava che ci fossero verdure per un reggimento e mi ricordò che il nostro ménage comprendeva solo tre persone. Non si poteva negare che, dal punto di vista economico, il raccolto fosse disastroso, ma da quello della soddisfazione personale, pratica ed estetica, era sublime.
Lasciammo definitivamente i nostri orti un freddo giorno d’inverno, in perfetta sintonia con il nostro stato d’animo e il mondo. Un improvviso raggio di sole riempì l’orto di tutti gli amici e i conoscenti che ci erano passati. Ah, ci sarebbe stato un altro orto, avremmo rivisto gli amici e ce ne saremmo fatti di nuovi, ci sarebbero state altre storie da raccontare e da ascoltare. E così lasciammo Bilignin, per non tornare.
E adesso mi diverte ricordare che confidai questo mio progetto solo due volte, a due amici, nell’orto più alto. Il primo rispose allegramente: Divertente! L’altro mi chiese, non poco preoccupato: Ma, Alice, hai mai provato a scrivere? Come se un libro di cucina avesse qualcosa a che fare con lo scrivere.