L’hanno costruito in posizione strategica, su una collina a 250 metri sul livello del mare, sud della città. Dominava e controllava il traffico nello stretto di Messina.
Forte Petrazza.
È su due piani collegati da una rampa, nel piazzale d’ingresso. Vista dal mare, la struttura grigia e massiccia incuteva un certo rispetto. Forse per i quattro cannoni e i sei obici che spuntavano dalle mura. E per le numerose feritoie dalle quali potevano scaraventare in mare chissà quali ordigni.
Chi entrava e usciva dallo stretto passava sotto la sua minaccia. Un tempo, alla fine dell’Ottocento, era cosí. Nel 1980, era lo stesso, solo che gli obici non c’erano piú. C’erano binocoli che scrutavano notte e giorno chi arrivava dal mare aperto e chi usciva in mare aperto. C’erano anche armi, ma non le vedevi. Le tenevano nascoste nei sotterranei del forte in attesa degli acquirenti. Come la droga.
Anche chi si avvicinava via terra, arrampicandosi per la sterrata, era tenuto d’occhio e, una volta ridisceso, era controllato per giorni. Si voleva capire da che parte stava e, se era dalla parte sbagliata, si provvedeva.
I messinesi sapevano, si tenevano alla larga e le cose filavano via lisce.
Il primo pomeriggio di quel giorno d’aprile, il caldo aveva tenuto in casa gli abitanti e in albergo i turisti, il molo era deserto e nel binocolo dell’uomo di guardia a forte Petrazza si stampò uno yacht di lusso, lungo una cinquantina di metri e largo una decina. Ponte per elicotteri. Di linea snella e veloce, era stato progettato e costruito non per navigare, ma per volare sulla superficie del mare, sfiorando le onde. Le imbarcazioni della Finanza avrebbero avuto grossi problemi a raggiungerlo. Se mai avessero deciso di farlo.
SeaFusion diceva la scritta sui lati della prua. Cosa significasse, lo sapeva solo il proprietario.
Quella meraviglia aveva imboccato lo stretto venendo da ovest e aveva rallentato all’altezza dell’area di Torre Faro.
– Avverti don Giuseppe che stanno arrivando.
Lo avvertirono e lui, don Giuseppe Agàte, titolare della Srl Stella di Sicania – Commercio pesce, fece una telefonata alla capitaneria, aspettò che il natante attraccasse e mandò giú due pick-up per trasferire il materiale dalla stiva della SeaFusion prima ai cassonati poi al forte. Mandò anche una vettura blindata e dai vetri oscurati. La guidava Francesca Dirusso, Ceschina per i pochi che se lo potevano permettere.
Vestiva di nero. Cotone. Un abito di taglio semplice. I capelli scuri e leggermente mossi le sfioravano le spalle. Fronte ampia, occhi scuri e profondi, sguardo duro. La pelle olivastra, tipica delle donne siciliane, il corpo snello, le gambe scattanti e pure morbide. Labbra sottili e senza sorriso. Una bellezza strana che intimoriva. Venticinque anni.
Appoggiato al parapetto della barca, l’aspettava mister George, italoamericano sui cinquanta, che, nell’attesa, si era fumato mezzo pacchetto di sigarette bionde e profumate. Era piuttosto nervoso e si rilassò solo dopo che l’auto di Ceschina si fermò sul molo quasi deserto, accanto alla scaletta della SeaFusion.
Francesca abbassò il vetro: – È lei mister George?
L’italoamericano si guardò attorno. – Vedi altri? – e, gettata in acqua la sigaretta fumata a metà, lasciò il parapetto per la scaletta. – Siete abituati a fare aspettare gli invitati? – chiese, piuttosto ruvido e avvicinandosi all’auto. La sua parlata aveva l’inflessione classica degli italiani trapiantati negli Usa, che hanno imparato la lingua dai genitori, là emigrati da chissà quanti anni.
Francesca non rispose. Aveva richiuso il vetro. Non salutò né avviò l’auto dopo che mister George si fu sistemato.
– Che aspettiamo? – chiese quello poco dopo.
Ancora Francesca non rispose. Una ragazza di poche parole.
Mister George borbottò nella sua lingua e accese un’altra sigaretta. Anche Francesca avrebbe voluto fumare. Non lo fece.
L’auto blindata ripartí solo dopo che i due pick-up, completato il carico dalla SeaFusion, si erano avviati. Li superò e li lasciò dietro, sul rettilineo del lungomare.
Nel piazzale del forte l’aspettava don Giuseppe Agàte, che andò verso l’auto.
– Tutto in ordine, Ceschina?
– Stanno arrivando.
Fu don Giuseppe ad aprire la portiera a mister George. La ragazza, già scesa, si stava allontanando.
– Fatto buon viaggio? – chiese don Giuseppe all’americano.
– Chi è la ragazza che mi hai mandato?
– Una protetta mia e di Antonino Bontà. Si chiama Francesca.
– Non parla molto.
– Non con gli sconosciuti. Vogliamo andare? Ci aspettano.
Mister George non ascoltò l’invito e raggiunse Francesca. – Sono un amico dei tuoi amici, – disse tendendo la mano, – e adesso non sono piú uno sconosciuto.
Francesca lo salutò con un cenno del capo, ignorò la mano tesa e continuò per la sua strada.
– Ci aspettano, mister George, – sollecitò don Giuseppe.
L’americano restò a fissare la ragazza e a sorriderle dietro. – Eccomi, don Giuseppe, eccomi –. A Francesca: – Voglio rivederti, se don Giuseppe e Antonino Bontà lo consentono.
– Dipende da me, non da loro. Sono una donna libera, se non te ne fossi accorto, – disse Francesca senza neppure voltarsi. La voce bassa e decisa gelò il sorriso di mister George.
– Dipende da te, certo, – e con lo sguardo seguí la figura snella, eppure forte, fino a quando il nero dell’abito non si confuse nel nero di un corridoio. Diede un’occhiata in giro e si sentí a disagio. Le mura grigie che circondavano il forte gli ricordavano la prigione. Una brutta esperienza, lontana, ma sempre presente.
Tornò dal don mentre i due cassonati entravano nel piazzale.
– Ci aspettano, mister George, – ripeté quello. Fece segno ai suoi di scaricare dove sapevano, come al solito, e precedette l’americano per un corridoio lungo e scuro come quello preso da Francesca.
Nella sala in penombra, seduti a caso come se non fossero là radunati per interessi comuni, erano in quattro e don Giuseppe li presentò. Per mister George i nomi non avevano importanza e neppure li memorizzò. Non era venuto per loro. Li guardò solamente. Persone anonime, oltre i sessant’anni, senza particolari qualità, vestite di grigio, due con il berretto da iconografia siciliana. Nessuno fumava e non lo fece neppure lui. Avrebbe voluto.
Don Giuseppe sedette e indicò una sedia all’ospite. – Allora, mister George, cos’hai di tanto importante da dirci? Ti ascoltiamo.
– Voi mi ascoltate, ma io non ho nulla da dire a voi. Sono venuto per parlare con chi conta. Mi hanno mandato per incontrare don Antonino Bontà e non l’ho sentito fra i nomi che mi hai presentato.
Due dei convenuti si alzarono e fecero per andarsene. Con un cenno, don Giuseppe li fermò. – Mister George, non si manca di rispetto a gente d’onore. Certi discorsi potrebbero farti male. Sono amici e si sono scomodati per te. Amici miei, degli amici miricani e degli amici dei loro amici.
– Gli amici americani, sí. Proprio loro mi hanno detto: «George, tu vai e parli con Antonino Bontà, hai capito bene? Con Antonino Bontà e nessun altro». Questo mi hanno detto e questo farò, – accese una sigaretta e lasciò la sala avviandosi lungo il corridoio. Troppo scuro, là dentro. Come i corridoi del carcere. Aveva bisogno di luce.
La trovò nel sole e nel mare che ne rifletteva i raggi e li rimandava verso il cielo e la collina. Li ricevevano, quei raggi, le mura del forte e toglievano loro un po’ del grigiore di prigione che aveva infastidito l’americano.
Appoggiato al muretto che divideva il forte dallo strapiombo, finí la sigaretta. Il panorama gli restituí la calma. Da qualche parte un’auto accese il motore, e poi una seconda. Le sentí allontanarsi. Silenzioso, lo raggiunse don Giuseppe Agàte. Guardarono il sole annegare.
– Ho fatto portare la tua valigia all’albergo. Ti ci accompagnerà Francesca, – e indicò l’auto ferma sul piazzale, motore al minimo.
Per i vetri oscurati, mister George non vide la ragazza al volante. Si avviò. Don Giuseppe lo affiancò.
– Hai offeso gente di rispetto, mister George. Don Antonino è stato informato e non è rimasto contento.
– Quando lo vedrò?
– Ti farà avvertire lui. Se vuoi, domani Francesca può venirti a prendere in albergo e accompagnarti in giro per la città.
Antonino Bontà sparí dai pensieri di mister George. Ci entrò Francesca. – Va bene, – disse, – l’aspetto in tarda mattinata –. Gli piaceva dormire. Gli piaceva anche Francesca.
Era seduta al volante, in silenzio, come sempre. – Ti dà fastidio se accendo, – e non era una domanda. Francesca si strinse nelle spalle. – Vuoi fumare? – e le offrí il pacchetto. Lei ne prese una. – Spero siano di tuo gusto.
Francesca, sigaretta fra le labbra, si girò e aspettò che gliel’accendesse. Un accendino d’oro con un brillante sulla costa. Che si vedesse. E lei lo vide. George se ne accorse.
– Me l’ha regalato un amico per un favore che gli ho fatto, – e accese anche per sé.
Francesca diede un tiro, fissò il passeggero, lo lasciò alla sigaretta e rientrò nel ruolo. Mosse l’auto.
Prima di farlo scendere, davanti all’albergo, gli disse, senza neppure girarsi: – Don Giuseppe vuole che domani ti porti in giro. Io non sono di qua, ma qualcosa posso mostrarti. A che ora?
– Scendi, ti offro un drink…
– A che ora? – tagliò lei.
Vedeva la nuca e i capelli nerissimi che sfioravano le spalle. Il comportamento della ragazza lo metteva a disagio. Vide, nel retrovisore, gli occhi di lei che lo guardavano. Indirettamente. – Alle dieci, – tagliò anche lui.
Scese e se ne andò senza salutare.
Era in albergo da dieci minuti quando ricevette la telefonata di Giuseppe Agàte: programma cambiato.
Domani niente piú turista per Messina. Trasferimento a Palermo, sistemazione in hotel in attesa di un contatto di Antonino Bontà.
– Come arriverò a Palermo?
– Alle dieci verrà a prenderti Ceschina…
– Ceschina, sí.
– Per te si chiama Francesca.
– Francesca, d’accordo. E quando sarà l’incontro?
– Quando Antonino sarà in comodo.
– Non sono qui per il vostro comodo…
… e don Giuseppe Agàte chiuse la comunicazione.
– Vedi, – aveva poi spiegato a Francesca, presente alla telefonata. – Vedi, Ceschina, quello, ’u miricanu, crede di essere un padreterno e invece non conta un cazzo.
Aveva usato proprio quella parola: cazzo. Non era linguaggio da lui. Chiaro: ’u miricanu gli stava sui coglioni. E da quando l’aveva chiamato pubblicamente ’u miricanu, i compari si erano adeguati. Anche Ceschina. E mister George era diventato ’u miricanu. Per tutti, in Sicilia.