Sull’aereo, Stella ripensò a una frase che si era detta: «In qualche modo farò».
Non era da lei. Non ricordava di averla usata prima. Prima, trovava la soluzione. Stava cambiando qualcosa nella sua vita. Meglio. Forse aveva imboccato la strada per lasciarsi dietro gli incubi. Ci sperò.
Le piaceva volare, guardare le nubi dall’alto e immaginare come sarebbe bello passeggiarci e sprofondare nella loro ovatta.
Il cielo era azzurro e non una nuvola.
Sotto, il mare. Una lastra di vetro azzurro.
Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal volo.
Cercò di ricordare la casa dov’era nata e cresciuta fino a sei anni, fino a un mattino quando Santina la vestí con l’abito buono e le raccomandò di non sporcarlo subito.
Non trovò immagini, neppure vaghe.
Non aveva ricordi.
Non era nata in nessuna casa e non aveva un paese suo al quale attaccare le radici.
All’annuncio dell’atterraggio, riaprí gli occhi. L’aereo scivolava sul mare. Le venne incontro una montagna di roccia, qua e là coperta da pini. L’aereo la sfiorò.
Aveva la corriera alle sei del pomeriggio. Cinque ore da far passare.
Un taxi la portò in centro, una passeggiata: via Vittorio Emanuele, via Roma. Seduta a un tavolino, fuori dal bar, si fece portare qualcosa da mangiare. Sull’aereo non aveva voluto nulla. Piú volte la hostess gliene aveva offerto. Preoccupata, le aveva anche chiesto se avesse problemi.
«Di volo», aveva specificato.
«No, grazie, tutto bene».
Seduta al bar, non vedeva il mare, ma una brezza le portava il suo profumo.
– Signora?
– Un cappuccino.
– Dolci?
Ci pensò. Sí, dolci. Chissà che non le ricordassero l’infanzia.
Non gliela ricordarono. Troppo raffinati. Troppo elaborati. Nella sua infanzia non potevano esserci dolci di quel tipo.
La corriera era piena. Tornavano dal lavoro a Palermo o c’erano andati per un giorno. Molte le fermate. Piccoli paesi o borghi. Scesero e salirono. Pochi erano interessati al viaggio. Leggevano il giornale, pensavano ai fatti loro. Quelli partiti la mattina presto e che erano in eterno debito di sonno recuperavano ciondolando il capo.
La corriera si fermò o rallentò per seguire i capricci di branchi di pecore e vacche. Alle quali il rumoroso mezzo non toglieva la mitezza. Né incupiva il grave occhio glauco.
Per Stella quei pochi chilometri furono una piacevole scoperta. Le passarono davanti i tanti aspetti di un paesaggio che ancora non le era capitato di visitare. O forse non aveva voluto. E di mondo ne aveva visto. Mai come quello.
Rocce partorite da una terra che ancora le stringeva a sé; muretti a secco per delimitare strade o mulattiere; sentieri calpestati per secoli da persone e muli. E ginestre e ginestre e ginestre gialle di fiori, dalle pendici delle montagne, ripetute, giú fino al mare.
Cattedrali di roccia dai pinnacoli aguzzi e figure, pure di roccia, che vento e pioggia e sole hanno modellato con lo scalpello del tempo. Qua e là, e improvviso, il mare chiuso da gole e montagne e infinito.
Nuvole immobili impigliate nelle cime di monti aridi, e fra le nuvole brandelli di cielo.
Lo vide, in basso alla sua destra, subito dopo una curva. La corriera aveva rallentato per un gregge, ed ebbe tutto il tempo per ricordarlo. Il lago, piccolo, dai contorni delicati e dai colori inventati. Poco sopra il lago, là dove la Pizzuta si fa roccia e sale, il paese.
Una stretta allo stomaco l’avvertí: sei arrivata.
Si aspettava di piú e fu delusa di sé.
La corriera prese lenta la discesa e, all’altezza del lago, risalí il corso principale e si fermò sulla piazza. Capolinea.
Restò seduta mentre gli ultimi passeggeri, che le avevano tenuto muta compagnia, prendevano la via di casa dopo aver scambiato, in una lingua a lei sconosciuta, qualche battuta con i clienti seduti al bar.
Al volante, l’autista la guardò, paziente e in silenzio per un poco.
– Capolinea, signora, – e anche Stella scese.
Posò la valigia accanto alla corriera come per riprendersi dal viaggio. In realtà cercò attorno un segnale conosciuto.
La piazza, quadrilatero irregolare, era chiusa fra antichi palazzi, la cattedrale e una monumentale fontana che buttava una cascata d’acqua. Doveva essere fresca. Anche la sera era fresca.
Una montagna tutta di roccia e quindi spoglia, cupa per il tramonto, incombeva sul paese. Stella non capí se la natura l’avesse messa là per proteggerlo, il paese, o per minacciarlo. L’avrebbe capito in seguito. Prima di lasciarlo.
Salgono in comitiva o da soli, Professore. I piú arrivano con l’auto o, se in gruppi, con la corriera. Molti a piedi, quasi un pellegrinaggio. Salgono da Piana e dai paesi vicini sulla groppa del mulo, come nei tempi andati. Gente che conosco come conoscevo i genitori e i nonni. Non sono ancora spuntati dalla curva e già li sento. Mi arriva il suono degli zoccoli sulla sterrata, una musica soffice, e potrei dirti quanti saranno i muli. Subito dopo, l’aria leggera della montagna mi porta l’odore del fieno assieme al sudore del mantello. È faticoso salire con una persona in groppa. Eppure vanno, i muli, attenti a dove posano gli zoccoli e, se tieni le briglie lente, scelgono loro il percorso piú facile. Non puzzano, i nostri muli, li teniamo puliti come faremmo con uno di casa. Li strigliamo, li accarezziamo, gli offriamo il cibo dalle nostre mani. Sono parte della famiglia.
Arrivati, il padre fa scendere il figlio, tenuto in sella davanti a sé per il viaggio, e gli dà un pezzo di pane e formaggio e un sorso d’acqua dalla borraccia. Lega il mulo a un masso, dove ci sia erba e, se resteranno a lungo, come accade spesso, gli toglie la sella e gli dà acqua e una manciata di biada.
Comunque siano saliti, i pellegrini sostano, si guardano attorno, scoprono la bellezza tragica della Kumeta e della Pizzuta, respirano il dolore rimasto nell’aria, si avvicinano e ogni volta vogliono sapere la stessa notizia.
– Raccontami com’è accaduto, – dicono, e la mia voce diventa storia di vita e di morte.
Stupisco io stesso per i particolari che, ogni volta, si fanno piú chiari, come se fosse appena accaduto. Stupisco per la mia voce, che non riconosco.
Vorrei essere un poeta per raccontare con il linguaggio piú adatto. Alcuni dicono che lo sono. Se fosse vero, è stata la tragedia a farmi poeta.
All’imbrunire se ne vanno e resto solo e, nel silenzio della montagna, so di aver fatto quanto il destino mi aveva assegnato portandomi qui. Fu un viaggio pieno di soprusi.
Cominciò con il ritorno dalla guerra. Io tornai, molti no.
A casa trovammo vecchi, donne e bambini che ci aspettavano con la speranza che, assieme a noi, in paese arrivasse una parte, se pure piccola, di quei beni che avevano arricchito altri. Portavamo miseria e fame, le stesse che ci avevano fatto compagnia sui campi di battaglia e che, a casa, le famiglie avevano sofferto per la nostra assenza.
Non ci eravamo tolte le fasce grigioverdi dagli stinchi che ci ordinarono di tornare a difendere la Patria. Dicemmo no, che avevamo già dato quanto potevamo. Ci inviarono minacciose cartoline precetto. C’era scritto: è vostro dovere combattere un altro nemico al fianco di un nuovo alleato.
Nostro dovere è dare cibo e tranquillità alle famiglie. Cosí rispondemmo.
Mandarono i carabinieri e ci rifugiammo sui monti, di nuovo abbandonando madri, mogli e figli.
Un’altra guerra finí e ci illudemmo che per noi ci sarebbe stata una vita migliore. Ripresi a camminare su queste strade chiedendo un lavoro. Me lo concedevano come un favore e durava una stagione. La terra, avevano loro, i frutti, avevano loro. O cosí o niente, diceva la mafia. E se protestavi, spuntava la lupara.
Ne hanno ammazzati!
Per il tanto viaggiare fra questi monti, ho imparato a conoscere sentieri e balze e ad amarli. Mi hanno protetto.
– Da quanto sei qui, Omero?
Non lo so, Professore. Dolore e ingiustizia non hanno un trascorrere né una scadenza.
Sono qui.
– Resterai per molto ancora?
Per molto?
Per poco?
Lo saprò quando sarà venuto il tempo. E in quel tempo, forse, le ginestre che fioriranno fra i sassi della mia Portella non avranno piú i fiori rossi.
Era deciso. Troppe volte aveva rimandato. Un motivo lo trovava sempre. Il lavoro da finire, ché la moglie del fornaio lo tormentava ogni giorno:
– Quando ti deciderai, Vito? Prima o poi me la sistemerai, la verandina sul terrazzo?
Oppure: Oggi no, la giornata promette pioggia; la cavalla ha bisogno di compagnia; c’è da mettere il fieno al coperto…
Non si trattava di un gran viaggio. Venti chilometri. Forse trenta. In realtà, gli mancava lo stimolo. Ne aveva fatti troppi, di chilometri. O aveva visto abbastanza per desiderare di vedere altro. E molto di quanto aveva visto gli aveva fatto pensare che non ne valesse la pena. Il mondo era ovunque talmente uguale da non meritare la fatica di uno spostamento. Nemmeno di venti o trenta chilometri.
La Ficuzza, no, la Ficuzza valeva. Per i giorni che ci aveva passato da bambino.
Ci andava con Vittorio, suo padre, a fare la legna e ci restavano giorni. Lavoravano, mangiavano e dormivano all’aperto. E già questa era un’avventura in un mondo dove tutto era diverso. A cominciare dalla Casina. La Casina reale di caccia che Ferdinando I delle due Sicilie aveva fatto edificare sul terreno regalatogli dai latifondisti del luogo. A cominciare dalla Casina, che di cosí belle e strane e grandi non ne aveva mai viste. A cominciare dal bosco, enorme e con alberi grossi e alti come, secondo il suo metro di bambino, non ce n’erano altri. A cominciare dal Gorgo del Drago, dalla Sedia del Re, dalla Grotta del Romito, dalla Sorgente dell’Acqua Ammucciata.
Un mondo di favola che lo affascinava e che, andandosene, lasciava con un grande disagio. Nel cuore o nell’anima.
Qualche giorno dopo aver terminato il taglio, quando Vittorio si fosse accordato per il trasporto della legna, ci sarebbe tornato, ma solo per caricare e ripartire. Per faticare, insomma. Il resto, la favola, rimaneva sepolto nel bosco o nascosto nella Casina.
«Stamattina vado!» decise. E dopo colazione montò in auto e prese la via per la Ficuzza.
La primavera era stata onesta e aveva fatto il suo dovere. I bordi delle strade erano una mescolanza di colori e piante commestibili: finocchio selvatico, asparagina... Si poteva vivere semplicemente raccogliendole.
Non per sempre. La primavera sarebbe finita e i fiori e le piante avrebbero lasciato erba secca e sterpaglia che avrebbe preso fuoco per un niente. O per dolo.
Scorse la Casina da lontano e si fermò per guardarla meglio. Non era cosí imponente come la ricordava. E le poche case, sotto, erano rimaste il borgo che, quello sí, ricordava.
Dietro, a fare da fondale al borgo, Rocca Busambra. Sempre uguale, come il tempo. La mole isolata, scura e massiccia sopra il verde della foresta. L’altezza, milleseicento metri e passa. La cotica rugosa e le pareti dagli strapiombi…
La vedeva arrivando a dorso di mulo seduto dietro suo padre. Forse dal punto stesso da dove la stava guardando in quel momento. Gli sembrava, allora e in quel momento, un enorme animale preistorico sdraiato, in riposo o addormentato.
Parcheggiò davanti a una bottega che vendeva un po’ di tutto e dava anche da mangiare. Ordinò un caffè. Lo sorseggiò fuori, in piedi e guardando la Casina. La trovò scalcinata, in abbandono. La vasta zona pianeggiante, davanti, era coperta da sterpaglia.
– Fra poco crollerà tutto, – disse il gestore che si era accorto dell’interesse di Vito per il fabbricato.
– Crollerà sí, se non ci metteranno mano.
– Non c’è rimasta molta gente alla Ficuzza.
– Non c’è lavoro e se non c’è lavoro la gente se ne va –. Con una battuta banale, che commentava un’ovvietà, pagò e si avviò a piedi verso la Casina.
Le passò davanti per l’intero fronte, come da piccolo, guardandola dalla base al tetto. Prese un sentiero ancora abbastanza battuto, che s’infilava nel bosco. Ci andavano ancora, nella foresta. Non per la legna, ché la vegetazione era fitta e intricata e non c’erano zone disboscate. Forse per i funghi e gli altri frutti della selva.
Ci mise un poco a orientarsi. Erano passati… Quanti anni? Se n’era andato a sedici e quindi ne erano passati venticinque. E la decisione di piantare tutto, di non tornare mai piú a fare legna, l’aveva presa proprio tornando in paese dalla Ficuzza. Dopo aver caricato legna assieme a Vittorio.
Trovò il sentiero, che lo portò al Gorgo del Drago. Una pozzanghera. Alla Sedia del Re, alla Grotta del Romito, alla Sorgente dell’Acqua Ammucciata…
Sparita la magia dell’infanzia, svanita la fantasia, restavano i ruderi della realtà.
Avrebbe fatto meglio a non tornare alla Ficuzza. Si fermò a mangiare alla bottega del caffè. Con il gestore si parlò del passato e di com’erano il borgo e la Casina e la foresta…
– La guerra è passata anche di qua, – disse quello.
Non i soldati e non i carri armati, ma i disastri che la guerra si lascia alle spalle. La miseria, il lutto, il disboscamento selvaggio.
Rientrò al tramonto e si fermò al bar. La corriera arrivò poco dopo. Scesero i soliti, gente che conosceva e che salutò con due battute, come ogni sera.
Scese anche una straniera. Per ultima. Sostò, valigia ai piedi, accanto alla corriera, guardandosi attorno come se non sapesse dov’era capitata.
– Ç’i bun një litire te Hora? – si chiese Vito e chiese ai vicini.
– Che ci fa una straniera a Piana? Non lo so, chiediglielo, – rispose uno dei compagni di bar. – È bella e sia la benvenuta.
– Ha qualcosa di familiare, – e Vito si alzò e la raggiunse.
– Benvenuta a Piana, signora. Posso aiutarla?
Stella lo guardò e non trovò in lui la solita arroganza maschile. Non era tipo. Alto, capelli castani e occhi azzurri, niente baffi. Tutto il contrario di come un cinema e una letteratura modesti ci hanno abituati a vedere gli abitanti di questi luoghi.
– La ringrazio. Per ora no. Devo solo ambientarmi, – e, raccolta la valigia, si avviò al bar.
All’esterno i tavolini erano occupati da uomini. Fumavano e discutevano. Un linguaggio al quale, pur mettendoci tutta l’attenzione, non riuscí a dare un nome. Alcuni vocaboli avevano assonanze vicine all’italiano. Di altri, se avesse frugato nella memoria, avrebbe ricordato il significato. Altri ancora, incomprensibili. Sfumature e cadenze familiari.
L’aria sapeva di sigaretta e sentí il desiderio di accenderne una. Non lo faceva da ore. Non era accanita. Non soffriva di astinenza e lasciò perdere.
L’uomo che l’aveva salutata all’arrivo si stava allontanando.
Per tornare a casa, Vito scendeva il corso. Borbottò: – Se è quella che penso, che ci fa qui? Che è venuta a fare?
Ripensò al volto della donna e lo confrontò con un altro, sfuocato dal tempo, che conservava nella memoria.
Il dubbio gli restò anche quando, rinunciando a capire, cercò di addormentarsi, ore dopo il casuale incontro.
– Alle dieci verrà a prenderti Ceschina, – gli aveva detto don Giuseppe Agàte al telefono. Alle dieci Francesca fermò l’auto davanti all’hotel. Non scese e non andò a cercarlo all’interno. Non era al suo servizio.
Pazientò per un poco e suonò il clacson. Uscí il ragazzo dell’hotel e Francesca, dal finestrino, gli gridò: – ’U miricanu. Avvertilo che ha cinque minuti. Poi dovrà arrangiarsi.
Non passarono, i cinque minuti. L’americano si presentò con la valigia, che gettò sul sedile posteriore. Si sistemò accanto a Francesca e accese la sigaretta.
– Primo, perché non posso chiamarti Ceschina?
– Mi chiamo Francesca.
– Secondo: se fossi entrata, ti avrei offerto il caffè.
– Non disturbarti, già preso.
– Terzo, – ma, vedendo che la ragazza guidava e neppure lo ascoltava, lasciò perdere e cercò di farsi piacere la sigaretta.
L’auto viaggiava da un po’ sulla strada per Palermo e Francesca chiese: – Terzo?
– Oltre al terzo ce ne sarebbero altri di punti da chiarire, ma non credo valga la pena parlarne, – e non lo fecero per buona parte del viaggio.
C’era da guardare. La strada correva sulla costa e, quando si metteva all’interno, squarci di mare apparivano all’improvviso fra le gole.
Patti, Capo d’Orlando, Sant’Agata di Militello, Cefalú… Meritavano piú d’uno sguardo.
Francesca fece sosta a Sant’Agata «per andare in bagno».
– E per un caffè, anche se non so come facciate a bere quel concentrato acido.
Lei non commentò. Avrebbe voluto dirgli: buona la vostra brodaglia.
Sorseggiarono seduti a un tavolino, nell’incrocio di tre vie. Una scendeva davanti a loro e arrivava fino al mare.
– Non parli molto, tu, – disse lui al momento di riprendere il viaggio. E le offrí una sigaretta.
– Non ho niente da dire.
A un bivio, quasi a Palermo, alcuni cartelli stradali indicavano località dell’interno: Villaciambra, Altofonte, Piana degli Albanesi.
L’americano chiese di fermare l’auto: – Piana degli Albanesi. È lí che il vostro Salvatore Giuliano…
– Nostro?
– Non è certo un mio connazionale.
– Avrebbe potuto esserlo. E neppure è detto che voi non c’entriate in quella brutta storia.
– Che vuol dire?
La ragazza non rispose e l’americano cambiò argomento.
– Vediamo se riesco ad ammorbidirti. Mio nonno era di Piana.
– E allora?
– Niente. È a Piana degli Albanesi che ha sparato?
– Poco sopra. Portella della Ginestra, si chiama.
– Ho promesso a certi parenti di Piana degli Albanesi che prima di tornare sarei passato a salutarli.
– Non vorrai che ti ci porti ora?
– Non pretendo tanto da Ceschina –. La ragazza lo guardò male. – Scusami, Francesca.
– Ti ci porterò il Primo maggio, – e la ragazza rimise in strada l’auto.
– Non posso farmi accompagnare da te. Resterò dai parenti almeno una settimana. Me l’ha fatto promettere mio padre.
– Il Primo maggio andrò su comunque. Ci vado da anni e ti ci porterò.
– Fai sempre quello che vuoi?
– Qualche volta faccio quello che mi ordinano.
– Giuseppe Agàte?
– Anche.
Fermò davanti al Grand Hotel, in centro. L’americano guardò la facciata.
– Non c’era di meglio?
– Hotel storico.
– Si vede.
– Dentro è gradevole. In ogni caso, devi fartelo piacere. Lo ha scelto lui.
– Lui?
– Il signor Antonino.
– Dove ti trovo?
– Ti troverò io.
– Ceniamo assieme, stasera?
– Un’altra volta, – e lo lasciò sul marciapiede.
Aveva ragione Francesca. Dentro era decisamente gradevole. Di sapore antico, ma elegante.