– Sono della fine degli anni Quaranta e primi Cinquanta, – spiegò Eva. Guardò la prima foto e le bastò un attimo per darle un nome: – La strada per Portella. Siamo poco sopra Piana. Sassi e polvere e ci si andava come vedi qui: a piedi, in bici, a dorso di mulo… – La passò a Stella. Aspettò che la guardasse e gliene passò un’altra: – Bambini e donne alla kriqa e Palermes.

Per Stella tradusse Ditria. – Croce di Palermo. La fontana si trova nel quartiere chiamato Croce di Palermo.

La grande fontana. L’aveva vista.

– Ci siamo state, – disse Stella. – È un po’ cambiata dagli anni Quaranta.

Estate, caldo, tre donne in abiti leggeri e tre ragazzi sui dodici, tredici anni. Una bambina di circa tre. Le donne in piedi sul basamento e i ragazzini arrampicati sulla testata. Accanto, il mulo.

Eva indicò. – Questa è Elena. Vittoria e Adele. Non ricordo i nomi dei piccoli.

Ogni foto aveva un nome. Ce l’aveva nella memoria di Eva: – Bambini e animali.

Stella riconobbe un angolo di paese visitato nella mattinata.

Sulla strada razzolano galline, due pecore si guardano attorno. Davanti alla porta di casa, un mulo sembra aspettare l’invito a entrare e, in mezzo all’arca di Noè, bambini giocano. Scalzi.

Eva la commentò. – Sono arrivata a Piana che avevo sedici anni e avrei dovuto restare solo per le vacanze. In una lettera mia madre mi chiese come avevo trovato il paese del babbo. Le scrissi, testuale: «Cara mamma, mi sembra un serraglio di animali e bambini».

Altre immagini.

– Ecco, Primo maggio 1946, il mio primo a Portella. Avevano ripreso la tradizione iniziata da Nicola Barbato –. Passò la foto a Stella.

Quattro coppie sedute sull’erba o inginocchiate. Indossano abiti modesti, freschi di pulito. In mano hanno fiaschi e bicchieri. Dietro, due ragazzi. Sullo sfondo si allarga la spianata di Portella, animata da una moltitudine indistinta: persone e muli, raggruppati o sparsi. La sagoma della Pizzuta, sbiadita dal tempo, è il fondale per la tragedia che vi si reciterà l’anno dopo.

– Qui c’è una sorpresa, – ed Eva mise in mano a Stella un’altra foto.

Ragazze, giovani, bambini. Una ventina. E un mulo. Ammassati gli uni agli altri per entrare nell’inquadratura, eppure i personaggi esterni sono in parte tagliati. Eva si giustificò:

– Non c’era ancora lo zoom.

Il gruppo è disposto con armonia. Alto al centro e degradante a destra e a sinistra. Dietro al vertice della piramide, il mulo in posa, come i due ragazzi che lo cavalcano. Una ragazza ha in braccio una bimba con una frangetta di capelli scuri. I vestiti sono puliti e stirati.

Stella guardò i visi uno a uno e la passò a Ditria. Che disse: – Li conoscevo tutti. E sono morti.

Eva controllò. – Li conoscevo anch’io, ma non sono tutti morti –. Indicò la ragazza con la piccola fra le braccia. – Questa non è morta. La riconosci?

Ditria sorrise. – Sono io e, accidenti, avevo sedici anni.

– Neppure la bambina che tieni in braccio è morta.

Di nuovo Ditria sorrise. – Vero, la riconosco –. Restituí la foto a Stella. – E tu, tu la riconosci?

– Dovrei?

– Dovresti sí, – disse Eva.

Il viso non era ben definito, ma gli occhi e i capelli a caschetto, Stella li riconobbe e, come sempre le accadeva davanti all’imprevisto, i muscoli le si irrigidirono e le diedero una fitta allo stomaco. Gli stessi occhi e lo stesso caschetto che aveva in una immagine dei suoi dodici anni, nascosta chissà dove, in Mostackerstrasse.

La guardò a lungo. Cercava un ricordo che la legasse a quella bambina. Non lo trovò.

Radunò le foto sparse sul tavolo e mormorò: – Mettetele via, per favore.

Eva lo fece. – Era il tuo primo Primo maggio –. Si alzò. – È ora di andare.

Ditria le accompagnò in strada.

– Come mai mi tenevi in braccio tu? – le chiese Stella.

– Ti volevo bene. Ti volevano bene tutti.

– E Santina, non c’era a Portella?

– C’era, c’era. Ricordo che quando Eva ci radunò per la foto, lei, tua madre, stava preparando da mangiare, il poco che era riuscita a mettere assieme.

– E Pino… Cioè, mio padre?

– Sistemava il mulo. Sei arrivata in sella al mulo e sembravi una reginetta sul trono. Sorridevi a tutti.

– Non mi accade piú, – e si avviò. – Buonanotte.

La seguí Eva, caricata dalle foto. Il peso del passato.

Dormí poco. O non dormí. Uno stato di dormiveglia. Si alzò. Fece piano per non svegliare Eva. Non avrebbe creduto alla scusa che Stella si sarebbe inventata.

Neppure sapeva quale. Ci avrebbe pensato se…

Non ce ne fu bisogno. Un biglietto avvertiva: «Sono andata alla prima messa. Fai colazione tranquilla. È tutto sul tavolo».

Anche al bar c’era tutto.

– Buongiorno, Nina, – la salutò Vincenzo.

– Come sai il mio nome?

– Siamo in una piccola comunità.

Piccola e chiacchierona. Non lo disse. Fece colazione con pasticcini appena sfornati. Pagò e chiese indicazioni su alcune vie.

– Via Piediscalzi è qui dietro. Ti faccio vedere. Cortile Ghioni è piú su, una passeggiata. Via Corleone… via Corleone sta dall’altra parte del lago. È lunga da fare a piedi.

– E cosa mi consigli?

– Ti ci porterei io se non avessi… – e indicò il bar. – Mio fratello arriverà alle dieci.

– Sei gentile. Ci sto. Farò le dieci e passa andando in via Piediscalzi e a Cortile Ghioni.

Piediscalzi era proprio «qui dietro». La salí tutta, due, trecento metri che le fecero venire il fiato grosso e suonò alla porta del numero indicato nel fax dall’ingegner Dalla Vita.

– Mi chiamo Stella e vi porto i saluti di vostro nipote, – e la signora avanti con gli anni che le aveva appena aperto la fece accomodare. Le offrí un caffè.

– Grazie, l’ho appena preso.

Restò in casa quindici, venti minuti e quando uscí, Stella e la signora si parlavano con il «tu».

– Mi raccomando, – disse l’anziana, – appena vedrai George, digli che lo aspetto. Ah, dàgli il mio numero di telefono cosí mi avverte appena arriva a Palermo. Aspetta che te lo scrivo, – e, tornata dentro, scrisse il numero su un foglietto e glielo consegnò. – Torna a trovarmi.

Per Cortile Ghioni la passeggiata fu piú lunga e piú faticosa. Un paese in salita: se è vero, come sostengono i salutisti, che il moto fa bene, i pianesi sono destinati a vivere a lungo.

Aprí una giovinetta.

– C’è il Patriarca? – chiese Stella.

– Lei chi è?

– Un’amica di George. È in casa? Porto i suoi saluti per il Patriarca.

Le të hijën, – disse una voce dall’interno. – Jame pres se tata të më dërgonj thenë gjagjë.

– Cos’ha detto?

– Di farti entrare che aspetta notizie da suo nipote, – e la fece passare.

Anche dal Patriarca restò quindici, venti minuti. Se ne andò con la promessa di un altro incontro «assieme a George. L’ho visto che era bambino».

Da lui, Stella non ce l’aveva fatta a rifiutare il caffè.

Alle undici del mattino il sole già batteva duro sulla strada polverosa e ben esposta a mezzacosta, dall’altra parte del lago. Si chiama via Piana degli Albanesi e comincia dove termina via Kastriota, nella parte bassa di Piana. Scorre davanti al cimitero, comincia a salire e costeggia quasi tutta la riva est del lago. Dopo il bivio con la provinciale 39, diventa via Corleone. Accompagna la parte finale del lago e offre un panorama che Stella chiese di poter ammirare. Vincenzo l’accontentò fermando piú volte l’auto.

– Chissà se Eva ha fotografato questi paesaggi.

– Eva ha fotografato tutto e tutti, – la rassicurò il giovane.

Azzurro è il lago, interrotto da lingue di verde scuro, e gli alberi sembrano galleggiare sull’acqua. Di un verde piú chiaro è la piana che parte dalla riva e sale verso il primo pendio.

Il paese è una macchia pallida. Sopra, una linea irregolare segue l’altitudine, spezza i colori e, da lí e fino alle cime, domina la barriera di roccia grigia. A sinistra, la Pizzuta scende con il profilo tormentato da asperità e spuntoni e si calma in una sella di nuovo verde. È Portella, è il passo che mette a San Giuseppe Jato e a San Cipirello. Piú a sinistra, la sella risale dolce e si confonde e muore contro il nero minaccioso della Kumeta.

Con occhi socchiusi e rilassato sulla sedia a sdraio, sotto il porticato della villa, il vecchio si godeva quel paesaggio. Accanto a lui, due rottweiler accucciati avevano drizzato le orecchie appena Vincenzo aveva fermato l’auto all’ombra di una quercia secolare, poco distante, fuori dal cancello, pronti a scattare se avessero percepito una minaccia al loro territorio.

– Il dottor Cucchi, – disse il giovane barista indicando con il capo la villa.

– Mi aspetti cinque minuti, ché non ci metterò di piú?

– Non ti ho accompagnata per lasciarti qui, – e andò a premere il pulsante del cancello.

Il dottor Cucchi sollevò il capo come per vedere meglio. – Ah, sei tu, – mormorò.

Ai due cani, che senza abbaiare ma ringhiosi e a denti scoperti erano scattati verso il cancello, bastò il suo fischio leggero per bloccarli. Restarono come di pietra, tenendo lo sguardo sulla minaccia e al sussurrato: – Qui, belli, qui, – tornarono al padrone e ripresero posizione accanto a lui. Di guardia.

Con calma, il dottor Cucchi si alzò e andò al cancello, dritto e sicuro, senza le incertezze della sua età. Intanto dalla villa qualcuno aveva provveduto ad aprire elettricamente il passaggio pedonale.

Stella non entrò. La tranquillità dei due rottweiler non la convinceva del tutto.

– Benvenuta, Stella, – disse il dottor Clemente. – Entra, entra, – e indicando Vincenzo, tornato in auto: – lo conosco –. Poi chiamò: – Vincenzo, vieni dentro! C’è piú fresco.

– Vi ringrazio, dottore, sto bene all’ombra della quercia. Mi sono portato il giornale e aspetterò qui.

– Come vuoi, come vuoi –. Posata la destra sulla spalla di Stella, il vecchio si avviò alla villa. – Ti aspettavo. Quando sei arrivata, Stella? Ti aspettavo.

Vincenzo li vide scomparire nella penombra del salone.

I cinque minuti diventarono una decina. Comunque pochi per giustificare un viaggio sotto il sole del mezzodí.

Vincenzo l’aveva aspettata all’ombra della quercia, ma nell’auto c’era afa e Stella gli chiese scusa.

– Per cosa?

– Per averti fatto aspettare con questo caldo.

– Ti scuso, ti scuso, ma posso farti una domanda? – Stella annuí. – La cosa non è tanto importante, ma mi incuriosisce. Arrivi, vai a spasso per il paese, Eva ti ospita, vai a trovare i Cucchi… Che accidenti sei venuta a fare a Piana?

– Affari.

Il giovane la guardò per un poco. Mise in moto e, in silenzio, rientrarono a Piana. Dai finestrini abbassati, il vento diede un po’ di sollievo a entrambi.

Davanti al bar e prima che Stella scendesse, Vincenzo chiese: – Lo conoscevi? – Stella negò con il capo. – Ti ha chiamata per nome.

– Allora diciamo che lui conosceva me. Mi hai fatto un grosso favore e ti ringrazio. Se potrò esserti utile…

Il barista ci pensò su. – Chissà, non è detto, la vita, a volte… – Allontanandosi, la salutò con il braccio fuori dal finestrino e urlò: – Auguri per i tuoi affari.

Francesca l’aveva lasciato da due giorni e l’americano non era ancora riuscito a stabilire un contatto con Antonino Bontà. Passava il tempo fumando. Fumava sdraiato sul letto; fumava affacciato alla finestra dell’hotel; fumava in giro per Palermo; fumava nei bar dove si fermava troppo spesso per bere. Ma soprattutto per sfuggire al sole di una primavera siciliana che di primaverile aveva poco. A New York faceva piú caldo, quando faceva caldo, ma lo sopportava meglio.

– Telefonate per me? – chiedeva al rientro in albergo.

– Niente, mister George.

E telefonava lui. Alla partenza gli avevano dato un numero «per ogni eventualità e nel caso ti trovassi nei guai».

Non si trovava nei guai, ma doveva farsi sentire. Non era venuto per divertimento.

O forse si trovava nei guai e non lo sapeva.

Rispondeva sempre la stessa voce che, alla sua richiesta di parlare con il signor Antonino Bontà, diceva invariabilmente: – Non c’è. Ha lasciato detto che chiamerà lui, – e le prime volte ci aveva messo un po’ a capire quel linguaggio stretto, sussurrato e italiano alla lontana.

– Ma tu chi sei? – gli aveva chiesto all’ultima telefonata.

– Salvatore, per servirti, – e a George era parso un insulto piú che una risposta.

– Bene, Salvatore, avverti il tuo padrone che io sono qui per affari e che sono stanco di aspettare i suoi comodi. Gli affari prima di tutto. Cosí ci si comporta al mio paese! Digli che non ho piú tempo da perdere e domani preparerò le valigie.

Non era vero. Per lui c’erano ancora molte cose da fare.

Salvatore, dall’altro capo del filo, era rimasto ad ascoltare ancora qualche secondo, se mai l’americano non avesse finito la sua tirata, poi aveva interrotto senza commentare.

Piú volte George aveva chiamato gli amici, a New York, ed era stato piuttosto deciso: qui lo prendevano in giro e avrebbe fatto in modo di incontrare chi era venuto a incontrare. Con le buone o con le cattive. Il modo lo aveva.

Da New York gli rispondevano di pazientare, che gli italiani, i siciliani in particolare, erano fatti cosí e che nessuno intendeva offenderlo. Probabilmente erano sorte delle difficoltà. O mister Antonino Bontà non aveva ancora contattato chi di dovere. Non c’era solo lui nell’affare. Anzi, Bontà era uno dei molti interessati.

La scorta di sigarette che si era portato dagli Usa se n’era andata in fumo prima del previsto ed era stato costretto a provare una quantità di sigarette italiane prima di trovarne un tipo decente. Che poi vendevano solo in una tabaccheria del centro, vicino al teatro Massimo.

Paese incomprensibile, quello dove lo avevano mandato. Anche se suo nonno gliene aveva parlato. Lo aveva avvertito:

«Se andrai in Sicilia, troverai gente strana, George, gente che tiene la mula in casa e ci dorme assieme e le galline razzolano sulla strada».

Non gli era ancora capitato di vedere muli nelle case e galline per le strade.

Di Ceschina… Di Francesca, nessuna notizia. Né avrebbe saputo dove cercarla. Sperava fosse lei a trovare lui: l’avrebbe accompagnato a Piana il Primo maggio…

Il Primo maggio stava arrivando. Sarebbe arrivata anche lei. La sola, nel Paese dove l’avevano spedito, alla quale se la sentiva di prestare un minimo di fiducia. Niente affari da trattare, con lei. Oppure, se si volevano chiamare affari quelli che aveva intenzione di concludere con Francesca, ne aveva, ma riguardavano loro due. Niente intermediari. L’aveva detto lei, e con convinzione:

«Sono una donna libera, se non te ne fossi accorto».

Se n’era accorto.