Era arrivata presto a Piana degli Albanesi e, seduta all’interno del bar della piazza, aspettava che passasse il «paio d’ore» stabilito dal signor Antonino per la telefonata. Si era messa in modo da controllare il formarsi del corteo lungo il corso. Doveva precederlo di almeno tre quarti d’ora. Tanto le serviva per arrivare dove doveva arrivare.
Nel bar c’era movimento. Entravano, prendevano un caffè o facevano colazione, uscivano e scendevano verso la Casa del popolo o si raggruppavano fuori, sulla piazza. Chiacchiere in attesa che arrivasse l’ora.
Entrarono Eva e Ditria e sedettero al tavolo accanto a Francesca.
– Penso che non verranno a Portella, – disse Ditria.
– Vito non mancherà. Nemmeno…
– Nemmeno?
– Niente, – tagliò corto Eva. Ma sorrise di nuovo.
– Forse hai ragione. Penso anch’io che Stella sia tornata per Portella. Dopo tanti anni, proprio per il Primo maggio doveva arrivare?
Francesca controllò l’ora nell’orologio sulla parete sopra il bar. Si alzò, fece segno a Vincenzo: telefono.
Vincenzo annuí, fece un cenno verso il corridoio alla destra del banco e passò la linea in cabina.
– Ceschina sono…
– Ti passo il signor Antonino.
– Ceschina, – disse subito il signor Antonino, – ’u miricanu sta bene, – e, dopo una breve pausa, aggiunse: – per il momento.
– Che vuol dire, signor Antonino?
– Sei preoccupata?
– Per niente. Voglio essere informata. Ci sono dentro anch’io e devo sapere cosa aspettarmi.
– Giusto, sei previdente…
– Mi avete insegnato voi.
– … sei previdente e chi è andato a ritirare ’u miricanu potrebbe pensare che hai tu quello che cercano loro.
– Che cercano, signor Antonino?
– Non per telefono, Ceschina. Dove stai ora?
– Lo sapete.
– Stai attenta, Ceschina, mi raccomando. Ti aspetto a villa Torretta. Appena scendi, fatti vedere.
Francesca chiuse la comunicazione, andò a pagare colazione e telefonata e uscí.
Durante la telefonata di Francesca, le due signore che aveva sentito parlare di una certa Stella avevano lasciato il bar. Scendevano il corso. Lei andò all’auto e, prima di salire, diede un’occhiata verso la Casa del popolo.
Il corteo stava completandosi.
Saluti e strette di mano e abbracci. Gente che non s’incontrava da un anno e gente che si era vista il giorno innanzi. La folla arrivava giú, fino al largo di Sant’Antonio.
Il canalone era in secca, ma il fondo era morbido e l’erba era cresciuta fra le crepe della roccia: su quel terreno tenevano bene gli zoccoli di Bionda e Bizzarro. D’autunno e in primavera scaricava nel lago le piogge che fiumavano dalle pendici rocciose, e quindi poco permeabili, della Pizzuta e della Kumeta. S’arrampicava fino al piazzale di Portella dividendo in due il valico.
Fino a tre anni prima, chi saliva da Piana trovava a destra il terreno incolto dal quale affioravano, fra erba e ginestre, rocce appuntite e massi arrotondati e a sinistra, grano sull’intera spianata del valico, dal canalone fino alle prime pendici della Kumeta.
A maggio, il grano cominciava a imbiondire.
Quell’anno l’ambiente era cambiato. Erano finiti i lavori per la costruzione del monumento. Via il terreno incolto. Al suo posto, il percorso fino al sasso di Barbato, e rocce a decorare la spianata. Via anche il grano. L’aveva sostituito un anfiteatro circondato da un muro di sasso, quasi un sedile lungo e circolare che permetteva di guardare la Pizzuta. E le rocce dietro le quali gli assassini s’erano rintanati per il loro infame lavoro.
In quel punto avevano tombato il canalone.
Nel ’47 aveva salvato molte vite. Come a Serafino e a suo padre. Non alla madre e non al loro cavallo.
Uno dietro l’altra, Bizzarro e Bionda salirono il canalone in secca. Per l’ultimo strappo, Vito e Stella smontarono dai cavalli e arrivarono a piedi sulla provinciale.
– Non tarderanno, – disse Vito.
Dalla strada per Piana arrivò il rumore di un motore imballato e, velocissima, l’auto scura. Le ruote di destra, fuori dall’asfalto per una curva presa troppo stretta, avevano sollevato la polvere, che il vortice d’aria si portò dietro avvolgendo i due cavalli e chi li accompagnava alla briglia.
Nel retrovisore, Francesca, vide l’uomo indirizzarle un gesto cattivo. Immaginò le bestemmie e la maledizione. Vide anche i due cavalli agitarsi e tenuti da una lei e da un lui.
Non ci poteva fare niente: era in ritardo e doveva far presto.
Vito calmò Bionda. Bastarono due carezze.
Per Bizzarro, a Stella non bastarono. E, quando ce la fece, guardò la nuvola di polvere che l’auto si era lasciata dietro e disse:
– Che ci fa un’auto blindata a Portella? E proprio oggi…
– Come sai che è blindata?
Lei non rispose.
– Aspettiamo qui il corteo, – disse Vito.
Appese al muso dei due cavalli i contenitori di tela impermeabile nei quali aveva versato una bottiglia d’acqua. Frugò nella sacca della sella e offrí a Stella pane e salame. Su un tovagliolo di carta.
– Dopo una passeggiata, uno spuntino, – disse.
Mangiarono, seduti su un masso ai bordi della strada. La borraccia accanto.
Dinanzi a loro passavano i primi, soprattutto giovani. Un saluto e via.
– Senti? – e Vito fece segno di ascoltare. Arrivavano note della musica, spezzata dai capricci del vento.
Passarono pochi muniti e la musica non ebbe interruzioni. Piú vicina o piú lontana, assecondando il vento.
Stella e Vito ebbero il tempo per una sigaretta. Dopo, montarono di nuovo in sella. Aspettando il corteo.
Alle dieci la banda aveva attaccato le prime note dell’Internazionale. Il corteo si era mosso. Prima, solo la testa e poi, giú, lentamente, il resto. E quando la metà del serpentone già muoveva i primi passi, la coda, in basso, era ancora ferma, al sole.
A San Michele fu Bella ciao. E poi ancora su, per la via che finiva, almeno quel giorno, a Portella.
Eva e Ditria l’avevano percorsa anche quel Primo maggio del ’47. Eva per scattare foto. Aveva diciotto anni, sposata da poco, e il marito le aveva proibito di salire a Portella.
«Non questo Primo maggio», aveva chiarito.
Lei era andata. Aveva diciotto anni, veniva da Milano e se lo poteva permettere. Molte volte si era poi chiesta se glielo avesse proibito perché sapeva.
Aveva cominciato col fotografare l’allegria della gente. Aveva finito con l’immobilità dei morti e la disperazione dei vivi.
Ditria.
Ditria ci era salita la prima volta nel dopoguerra. Ci salí la seconda e la terza, nel ’47. Ci salí tutti gli anni a venire.
L’auto passò veloce davanti al monumento. Appena l’anno precedente, lí era un cantiere. Si fermò poco piú avanti e Francesca tornò indietro a piedi. Prese un sentiero che saliva i fianchi della Kumeta.
L’aveva salito anche dieci anni prima…
Aveva quindici anni. Gli sterpi le legavano le caviglie e le spine entravano nelle aperture dei sandali che indossava… per giorni, senza parlare…
… e non sapeva esattamente per quanto tempo aveva camminato. Sapeva che si erano fermati tre volte per dormire.
Dormire?
… sull’erba o sui sassi e le gettavano sopra un panno. Loro non parlavano e lei non parlava. Aveva mangiato tre volte e bevuto tre volte: pane, formaggio e vino inacidito.
L’aveva salito e non l’aveva visto, quel sentiero. Faceva buio e chi l’accompagnava lo conosceva fin nei sassi.
«Attenta qui. Stai a sinistra», e lei eseguiva, silenziosa.
L’aveva disceso, mesi dopo, sempre incappucciata e sempre guidata, ma al barlume di un’alba che sarebbe sorta qualche ora dopo.
L’avevano spinta senza complimenti. Che si muovesse! Che non avevano tempo da perdere! Aveva anche sentito bisbigliare:
«Sta arrivannu ’a curriera».
Arrivata in cima, Francesca guardò giú. Portella. Tutto come l’anno prima. E quello ancora prima. L’ambiente, lassú, non cambia. O, se cambia, lo fa con la lentezza del tempo e quindi sembra sempre uguale.
La provinciale era lontana e minuscoli erano diventati uomini e animali.
Indossò i guanti da lavoro…
Ricordava come le spine dei rovi si piantino nella carne e quanto a lungo resti il dolore. Una cosa strana: dalle punture non esce sangue. Bisogna mordere la carne, là dov’è stata ferita, e stringere forte, per farne uscire una goccia.
Indossò i guanti, prese un lungo respiro, si mise a quattro zampe, scostò il primo ciuffo di rovi, infilò il capo nell’apertura mentre, in basso, sulla provinciale spuntavano quelli che volevano assistere all’incontro delle bandiere.
Passando accanto ai due a cavallo, scambiarono battute con Vito. In arbëresh, quindi incomprensibili per Stella. Il tono le sembrò ironico e vagamente malizioso. Qualche parola le suonò familiare. Tornava da un passato remoto che sentiva e non sapeva quanto e se le appartenesse. Chiese:
– Che significano zonjë, natë e verdhë?
– Vuoi proprio?
– Lo esigo, anche se temo di immaginarlo.
– Signora, notte, bionda.
– Lo immaginavo.
E spuntò la banda. Dietro, una folla.
Eva li scorse subito, alti sulle teste del corteo. Lui in sella a Bionda e lei a Bizzarro. Sventolò alta la sciarpa e chiamò: – Stella!
La vide Stella e diede una voce a Vito, che già aveva allentato le briglie; Bionda s’era appena mossa.
Le attesero e, scesi di sella, proseguirono assieme.
– Ieri ti ha cercato il tuo collega Stefano, – disse Eva a Stella. – Non sapevo come avvertirti.
– Lo chiamerò appena torneremo a Piana.
– Sai cavalcare…
– So fare molte cose. Ti stupirò.
– Sono già abbastanza stupita.
Altri cavalli e muli li raggiunsero e superarono. Viaggiavano sul bordo dove gli zoccoli facevano presa meglio che sull’asfalto.
Dal lato opposto della provinciale era arrivato il corteo che saliva da San Giuseppe Jato e da San Cipirello e, nella spianata fra Pizzuta e Kumeta, si uní a quello di Piana e divennero uno.
Le bandiere divennero una.
Ascolta, Professore, come il giudice racconta nella sentenza la nostra tragedia.
… i contadini dei tre paesi si erano dati convegno nella contrada di Portella della Ginestra per la celebrazione della festa del lavoro. Come negli anni precedenti, si erano fatti accompagnare dalle rispettive famiglie poiché, piú che di una festa di partito, trattavasi di una festa campestre. Non mancavano, quindi, donne e bambini, tanto piú che in quella contrada i contadini arrivavano con tutti i mezzi di cui potevano disporre: oltre che a piedi, arrivavano con i caratteristici carretti siciliani, con carri, con traini, con biciclette, con quadrupedi. Primi ad arrivare furono i contadini di Piana dei Greci: ma ben presto arrivarono anche quelli degli altri due paesi cantando inni di occasione e sventolando bandiere rosse. In attesa dell’arrivo di coloro che dovevano essere gli oratori, i convenuti si erano sparsi per la campagna sottostante alla montagna del Pelavet per consumare la frugale colazione che con le famiglie avevano preparato, ovvero quella che le organizzazioni, cui i singoli appartenevano avevano gratuitamente distribuito.
[…]
Da poco lo Schirò aveva appena cominciato a parlare, quando fu avvertito un primo colpo di arma da fuoco, cui altri immediatamente seguirono e poi ancora delle raffiche.
[…]
Dopo i primi colpi furono notati, ai margini della folla, dei quadrupedi uccisi o feriti; attorno al podio furono viste delle persone sanguinanti. Fu intuita la triste realtà: piú che mortaretti sparati in segno di gioia per la festa trattavasi di un attentato alle persone.
Furono notati, Professore. Proprio cosí scrive il giudice. Furono notati dei quadrupedi uccisi o feriti; attorno al podio furono viste delle persone sanguinanti!
Prima i quadrupedi e poi le persone. Sanguinanti.
Giudice, erano state uccise!
E l’attentato non fu un attentato. Fu massacro, giudice!
Finiti gli spari, ognuno chiamò a gran voce i congiunti ed insieme od anche isolati, si avviarono per far ritorno al proprio paese, utilizzando, a tale scopo, ogni mezzo. I feriti furono raccolti e con carri, carretti, biciclette, quadrupedi, furono accompagnati a Piana degli Albanesi o a San Giuseppe Jato, donde furono avviati verso Palermo per farli accompagnare negli ospedali della città. Il bilancio di quella giornata che doveva essere di festa, fu il seguente: undici i morti trovati sul terreno, ventisei i feriti piú o meno gravemente […]
Con le forze a disposizione del maggiore Angrisani e del commissario Guarino, cui si erano aggiunti i carabinieri delle stazioni vicine, furono eseguiti dei rastrellamenti anche a largo raggio nella speranza di poter raggiungere alcuno degli autori del delitto; nelle campagne e nell’abitato di San Giuseppe Jato furono fermate centinaia di persone che vennero immediatamente inviate a Palermo, ove gli ufficiali di polizia giudiziaria ne esaminarono la posizione1.
Di quelle centinaia di fermati, nessuno fu trattenuto. Professore, cosí va il mondo.
Le parole e gli intricati labirinti del linguaggio di quella che voi, uomini colti, chiamate Giustizia sono ridicoli quando narrano le nostre tragedie. Pomposi e tronfi quando narrano le loro.
Oggi io chiamo i morti. Li chiamo a testimoniare qui, sul sasso di Barbato. Sentirai come le loro parole siano diverse da quelle del giudice.
«Mi chiamo Vincenza e avevo otto anni».
Pochi anni di vita. Le amiche... troppe persone quel giorno.
Io ero una bambina di otto anni.
Non ho avuto il tempo di salutare nessuno, non ho avuto il tempo di innamorarmi.
Non ho avuto il tempo, sono rimasta a Portella.
«Giovanni era il mio nome e avevo dodici anni».
Ero con gli amici di sempre e non vedevo l’ora di arrivare a Portella per comprare le nespole…
Riuscii ad assaporare solo l’amaro gusto del proiettile che mi trafisse il fianco.
«Giuseppe, tredici anni».
Mia madre prese dei papaveri e ce li appuntò sulla testa.
Non avevamo molte cose da mangiare ma quel giorno si respirava aria di libertà.
Tutto a un tratto le pallottole, tutte contro di noi…
«Mi piaceva il mio nome, Serafino, e mi piacevano i miei quattordici anni».
Siamo arrivati lí i primi di tutti, in corteo. La gente, in festa, cantava.
Noi eravamo ragazzi semplici abituati a lavorare.
Ci sembrava tutto cosí diverso quell’anno.
Poi i mortaretti.
No, erano raffiche di mitra.
«Giovanni, diciotto anni, avevo una ragazza che mi piaceva».
Abbiamo visto la gente sognare. C’era il sole. Il profumo di ginestra e libertà era forte.
Poi i proiettili... e la morte.
La prima strage di Stato. Perché?
«Diciotto ne avevo anch’io, Castrense».
Siamo rimasti lí a Portella, consapevoli che qualcosa doveva cambiare.
Siamo ancora lí a Portella, tutti insieme, e vogliamo credere che il futuro sarà migliore.
«Venti erano i miei e Vito mi chiamava la mia ragazza».
Avevo vent’anni.
Ditemi se è possibile morire a vent’anni.
Avevo una gran voglia di far festa con amici e compagni.
E chi non ce l’ha a vent’anni la voglia di far festa?
«Ventidue i miei. E Francesco il mio nome».
Questa terra su cui si infrange ogni goccia del mio sudore sarà mia e dei miei compagni e la custodiremo a colpi di zappa e morsi d’aratro e i nostri figli guideranno il dolce sapore dei suoi frutti e non l’amaro di quest’arida povertà.
«Trentasette anni avevo io, Margherita. E dei figli».
Ero lí a Portella, volevo essere presente e sono morta, io e il mio bambino che portavo in grembo.
La mia presenza è ormai eterna lí sulle pendici tra Pizzuta e Kumeta... ma questo mi consolerà mai della mia morte prematura?
«Ero Giorgio, ne avevo quarantadue».
Se mi avessero chiesto di dare la mia vita per la causa avrei detto di no.
Invece, la mia vita l’ho data davvero.
Qualcosa è cambiato da allora... e voi giovani di oggi, siate forti!
«E quarantotto ne avevo io, Filippo».
Poi successe il finimondo!
Come quando il vento della bufera prende di furia il grano maturo di giugno e lo fa piegare e lo abbatte, cosí la folla si piegò e si sparpagliò.
Ma vidi solo questo, poi fui colpito.
«Quanti ne avevo io, Vita? Non lo ricordo. La vicina di casa mi racconta il sogno appena fatto. Mi supplica di non andare alla Ginestra e non far andare nessun altro».
Ma chi crede ai sogni delle donne?2
Adesso ascolta, Professore, le parole della poesia.
’A ’ddu jornu, fu a Purtedda, cu ci va doppu tant’anni, vidi morti ’n carni e ossa, testa, facci, corpa e jammi, vivi ancora, ancora vivi e ’na vuci ’n celu e ’n terra: O justizia, quannu arrivi? O giustizia, quannu arrivi?3 |
Da quel giorno accade che a Portella chi ci torna dopo tanti anni vede i morti in carne e ossa testa, volti, corpi e gambe vivere ancora, ancora vivi e sentire una voce in cielo e in terra: O giustizia, quando arrivi? O giustizia, quando arrivi? |
1 Dalla sentenza della Corte d’Assise di Viterbo del 3 maggio 1952 cit.
2 Le frasi in corsivo, che attribuisco ai caduti nella strage di Portella, le ho lette sui pannelli appesi lungo il percorso del corteo da Piana a Portella, il Primo maggio 2014.
3 I. Buttitta, A stragi da Purtedda, in Portella della Ginestra: dramma in quattro atti, a cura di E. Buttitta e A. Fanelli, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo 2010.