S’alzò presto anche il giorno dopo, Francesca. ’U miricanu era già seduto sui gradini al primo sole.

Tu picca arriposi, veru? – gli chiese.

– Potresti dirlo in una lingua comprensibile?

You sleep very little, don’t you? – e andò alla fontana.

Non si era mosso dai gradini, quando lei tornò, il viso, le braccia e il collo freschi d’acqua corrente.

– Non me l’aspettavo –. Francesca lo guardò. Per capire. – Conosci la mia lingua.

– Secondo voi americani, tutto è vostro. Anche una lingua di altri: l’inglese. Io vado a Piana degli Albanesi.

Lui ci provò di nuovo: – Ti accompagno.

– Tu resti, – e il tono non ammetteva obiezioni.

– Sigarette. Prendine molti pacchetti. Immagino che resterò a lungo in questo forte nel deserto.

Lei gli fece segno di stare tranquillo e se ne andò.

Parcheggiò davanti al bar e ridiscese, a piedi, il corso principale dove aveva visto, passando, la tabaccheria e una bottega con un po’ di tutto. Acquistò, tornò all’auto e ci lasciò le due buste di plastica.

Davanti al bancone del bar c’era gente. Troppa. Al banco Vincenzo non se ne metteva e andava con la solita tranquillità. Sistemava i piattini, serviva caffè o cappuccini, incassava, due chiacchiere e tornava alla macchina espresso.

Un solo tavolino occupato. Due donne. Non piú giovani. Il vassoio di paste che avevano davanti solleticò la gola di Francesca. Fece segno al barista che andava a sedersi al tavolino accanto alle due. Rispose al cenno di saluto di Eva. Non si conoscevano, ma a Piana usava cosí.

– Le consiglio di farsi servire al banco e di sedere dopo. Vincenzo se la prende comoda, – le disse Eva.

– Non ho fretta, grazie.

Anche l’altra, Ditria, le accennò un saluto.

Come previsto da Eva, Vincenzo se la prese comoda. Si presentò al tavolo di Francesca dopo aver smaltito i clienti al banco.

– Dimmi.

– Un cappuccino e un vassoio come quello delle signore, – ordinò Francesca.

– In quanti siete?

– In due.

– Aspetto che arrivi l’altro o ti servo subito?

– L’altro non arriva.

Non accadeva spesso che Vincenzo si sorprendesse. Accadde con Francesca. La guardò per un poco, diede un’occhiata al vassoio che aveva servito alle due «signore», annuí e andò a soddisfare la strana ordinazione.

– Cosí va bene? – chiese a Francesca posando vassoio e cappuccino.

La ragazza controllò e annuí. Vincenzo non se ne andò. La guardò mentre zuccherava, aspettò che decidesse con cosa cominciare la ricca colazione e disse:

– Non sei di Piana, ma io ti ho già vista. Sei entrata qui per il Primo maggio. E hai anche telefonato…

– Mi prendi per un’altra.

– No, ti ho vista e ho pensato: bella ragazza, mi piacerebbe…

– A me no, – e considerò chiuso il tentativo di approccio.

Vincenzo sapeva di aver ragione: si erano già incontrati e non gli serviva la conferma dalla ragazza.

Se la prese comoda anche lei. Cominciò con l’arancina. Ascoltando le chiacchiere delle due signore.

– Nessuna notizia di Stella? – chiese Ditria.

– Né di Stella né di Vito.

– Che t’ha detto esattamente?

– Lei niente. Ho ascoltato la telefonata. Voleva andarci da sola. Lo avrebbe fatto se non mi fossi imposta…

– Cos’è andata a fare una cittadina a Rocca Busambra? Di notte, poi.

– Anche di Sciacca Bifarera, ha parlato, – disse Eva.

Dialogo interessante per Francesca. Due erano le persone che aveva visto arrampicarsi lungo il sentiero alle pendici di Rocca Busambra. E sapeva bene dov’era e cos’era Sciacca. Ancora piú interessata fu quando, poco dopo, Eva disse:

– Ha parlato di mister George e del feudo Ducco.

– Nina non è qui per lottizzazioni e progetti edilizi.

– Non ci ho mai creduto. Andiamo?

L’altra, Ditria, si alzò.

– Vincenzo, – disse Eva, – noi andiamo. Se viene Nina dàlle le chiavi di casa mia. Noi scendiamo a Palermo e rientreremo a Piana stasera –. Posò il mazzo di chiavi sul banco.

– Lo farò, Eva –. Non mise via le chiavi. L’avrebbe fatto non appena avesse finito di servire i clienti. Nessuno si sarebbe sognato di prenderle.

Francesca andò al banco.

– Fammi il conto.

– Quante ne hai mangiate?

– Due arancine e un cannolo. Il resto me lo incarti.

– Uomo fortunato, – commentò il barista.

– Forse no, – disse lei.

Vincenzo andò a prendere il vassoio e la carta e mentre lui preparava il pacchetto lei disse:

– Simpatiche, le due signore. Di Piana?

– Certo. Eva e Ditria. Piú pianesi dei pianesi, anche se Eva è nata a Milano.

– E Nina?

– Per Nina non scommetterei che sia di Piana.

– Dove abita Eva?

– A metà del corso, davanti al tabaccaio. Un bel palazzo antico.

– Mi fai telefonare, Vincenzo?

Le sorrise. – Sai dov’è, vero?

Francesca andò.

Aspettò il «pronto» giocherellando con le chiavi di Eva.

– Salvatore, Ceschina sugnu…

– Comu sí?

– Eh, sto. Il signor Antonino?

– Nun c’è. Lu trovi dumani matina.

– C’haiu a diri na cosa urgenti.

– Glielo dirò…

– M’arraccumannu.

– Nun ti preoccupari, Ceschina, stai tranquilla.

– Intanto dicci ca è tutt’a puostu.

Tornò da Vincenzo, pagò colazione, vassoio e telefonata. Il barista le disse, mentre lei usciva:

– T’aspetto domattina.

Francesca fece un segno vago, senza voltarsi.

Non tornò alla masseria.

Scese il corso e, davanti al tabaccaio, attraversò la strada.

Era un bel palazzo antico, come aveva detto Vincenzo.

Si svegliò tardi, Stella. Stava diventando una piacevole abitudine.

Vito non era piú a letto. E il posto accanto a lei era freddo. Non l’aveva sentito alzarsi. Dalla porta socchiusa entrava una lama di luce. Tagliava il pavimento, saliva a capo del letto, sfiorava il crocefisso scavando ancora di piú le pieghe dolorose del legno.

– Me lo farò regalare, – decise Stella.

Pigra, restò sotto le coperte.

La lama di luce si allargò ed entrò il profumo del caffè.

– Nina, dormi ancora? – e Vito le si avvicinò.– Ti va un caffè?

– Quello che desidero di piú in questo momento.

– E dopo?

– Dopo…

… fecero di nuovo l’amore.

Nelle carezze, la mano di Vito aveva sfiorato piú volte il leggero rilievo sulla parte esterna della coscia di Nina.

– Non dovevamo farlo qui, – disse dopo Stella.

– Perché? – Lei accennò al Cristo alla parete, sopra di loro. – Ha piú di duemila anni. Sa di cosa si tratta. Ha visto cose…

– Bello, dove l’hai trovato?

– In un bosco, – e, allo stupore di Stella, spiegò: – Era un tronco appoggiato a una quercia vigorosa. Come se qualcuno l’avesse messo là per passare poi a recuperarlo. Visto da lontano, ci ho letto un Cristo in croce. Da vicino l’immagine è rimasta. Sono ripassato una settimana dopo. Il mio Cristo in croce era ancora là. L’ho portato a casa e ho semplicemente seguito, con lo scalpello, le pieghe e i solchi che già c’erano. Ho solo reso piú evidente quello che la natura aveva scolpito. Sedici anni, piú o meno, e non me n’ero ancora andato di casa. L’avevo messo in un angolo della stalla, assieme ad altri legni lavorati. Lo vide mia madre e gridò al miracolo. Lo portò in chiesa, lo fece benedire e lo appese lí, sul mio letto. C’è rimasto.

– Sei una continua scoperta. Ieri guerrigliero e stratega militare, stamattina scultore.

– Preferisco scultore, anche se non mi sono mai considerato veramente tale. Mi piaceva lavorare il legno, anche se avevo un solo scalpello. Ho continuato a farlo anche dopo, quando mi sono messo per il mondo…

– Una vita complicata.

– No, cercavo, cercavo e non trovavo. Fino a quando… – e lasciò perdere.

– Fino a quando?

– Ne parliamo un’altra volta. Sto diventando patetico.

Non stava diventando patetico. Semplicemente, raccontava un brandello di vita.

Lo lasciò ai suoi pensieri.

Non gli avrebbe chiesto di regalarglielo, quel Cristo in croce.

Vito andò a cercare ancora il leggero rilievo sulla coscia sinistra di Nina e la mano vi restò sopra a lungo.

– È una ferita, – spiegò Stella.

– Lo so, la conosco.

– L’ho sempre avuta.

– Non sempre.

– Tu come lo sai?

– Avevi sei anni, – e Vito s’alzò a sedere sul letto e scostò le coperte.

A forma di spicchio di luna, lunga alcuni centimetri, bordi ben rimarginati e di colore leggermente piú roseo della pelle attorno. Era quanto restava di un’antica ferita sulla parte esterna della coscia.

– È cresciuta con te, – disse Vito.

Anche Stella si mise seduta. Ma per guardare lui. – Tu come lo sai? – ripeté.

Vito non rispose. Si sdraiò di nuovo, il palmo sulla ferita.

Come lo sapeva?

Semplicemente, lui c’era.

L’aveva vista, Nina. Giocava con altri piccoli della sua età, attorno al sasso di Barbato. La teneva d’occhio, poco discosta, la madre, Santina.

Era ora di dividere con Nina e Santina il pezzo di pane e il formaggio. Sua madre glieli aveva messi nella sacca, la sera prima, dopo la scarsa cena, avvolti in un tovagliolo giallo.

Vito si avviò per raggiungere Nina e Santina. Ce n’era abbastanza per tre.

Il Primo maggio a Portella, si mangiava.

Alcuni scoppi. Singoli e isolati.

Come gli altri arrivati a Portella per la festa, non si rese conto che di spari si trattava. Lo capí quando cominciarono le raffiche.

Mitra, seppe poi. E fucile mitragliatore Breda.

Risentí la stessa musica, in seguito, ma era un altro luogo, un’altra situazione. Forse un altro lui.

Quando sentí gridare: «Sparano, sparano! Buttatevi a terra! Riparatevi!» d’istinto corse verso il canalone e vi si buttò dentro. C’erano già altri, i piú vicini al riparo.

Ne salvò molti, quel canalone.

Alzò la testa e gridò: «Nina!»

In alto, alcune centinaia di metri sopra il sasso di Barbato, ne vide cinque. Sparavano. Altri, si trovavano piú a sinistra.

E vide gli sbuffi di polvere che le pallottole sollevano dalla terra battuta, davanti a lui e poco distante. Vide anche i colpi che finivano oltre il canalone, dietro, sulla sterrata che saliva alla Kumeta.

Non vide Nina. E neppure Santina.

Si sporse dal riparo per guardare meglio.

Le vide: poco distante dal sasso di Barbato.

Corse.

Quando non si deve morire!

Corse e si gettò a terra poco lontano dai due corpi.

Santina e, fra le sue braccia, Nina. Piangeva. E sanguinava.

Un inferno di spari e raffiche e grida al vento.

Le raggiunse strisciando.

Santina aveva gli occhi socchiusi. Non vedevano piú.

Piangeva Nina. «Santina, Santina, mi fa male la gamba».

Vito tolse dalla sacca il fagotto che ci aveva messo la madre, lo svolse e gettò pane e formaggio. Non avrebbero mangiato, quel mezzogiorno.

Con il tovagliolo giallo fasciò la coscia di Nina…

Per un poco il sangue si sarebbe fermato.

Prese la piccola dalle braccia di Santina e riprese a correre, chino in avanti, verso il canalone.

Quando non si deve morire!

– Non so, Nina, quanto durò la guerra di Portella. Mi parve, allora, che non finisse piú. Che fossimo destinati a vivere il resto della vita lí, oppressi da quella sparatoria. Ti tenevo stretta, sotto di me. Non piangevi piú.

Vito aveva finito il racconto.

Stella lo aveva ascoltato in silenzio, guardandolo, sdraiato accanto. Aveva parlato, lui, a occhi chiusi, e lei aveva rivissuto una sequenza rimasta nascosta nella parte piú scura della memoria. Un film interrotto chissà quanto tempo prima aveva ripreso a srotolarsi dai rulli. Soltanto per lei.

Vito allungò il braccio e prese, dal tavolino, pacchetto e accendino. Ripeté, dopo aver acceso per entrambi:

– Quando non si deve morire! Ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile. Sono passato fra le pallottole. Fischiavano. Se fossi credente, penserei a un miracolo.

– Poi? – chiese Stella.

Poi il massacro finí.

Poi lui corse fino a Piana con Nina fra le braccia.

– … e tu piangevi. Piangevi, mi chiedevi dove stavamo andando e volevi Santina. «Fra poco. Fra poco Santina ci raggiungerà a Piana. Noi dobbiamo correre perché ti sei fatta male…» Cercavo di consolarti.

Poi il giovane Vito con Nina fra le braccia arrivò a casa del dottore.

Poi cercò dove posare Nina in attesa che il dottore se ne occupasse.

Poi trovò dove metterla.

– La casa del dottore si era trasformata in un ospedale. Nell’ambulatorio, nei corridoi, nelle stanze… Gente ferita sul pavimento, sulle sedie… – e, ricordando, un lieve sorriso gli passò sul viso.

– Sorridi?

– Sí. Mi fa sorridere che, ancora oggi, nessuno sappia chi ti ha lasciata, piccolo fagotto insanguinato, sul letto della camera di Eva.

– Vuoi dire che…

Vito annuí. – Sei la prima e la sola a saperlo. Vorrei restasse cosí –. Si sollevò, appoggiandosi al gomito. – Me lo prometti? – Stella non rispose. – Per favore.

Il tono fece sorridere anche Stella. Che non poté che annuire. – Për të ditën herë, Nina.

– Buona pronuncia, – disse lui.

Për të ditën herë, Nina. È questo che hai detto: per la seconda volta, Nina.

Soddisfatto, Vito annuí. – Stai ricordando la tua lingua.

– Sí, viene alla luce lentamente dal buio nel quale l’avevo confinata. «Andando a Rocca Busambra, gli ho messo fra le mani la mia vita», ho detto. E tu: Për të ditën herë, Nina.

– Lo sapevo, lo sapevo: stai ricordando. E quando tutto ti sarà chiaro… – Non finí la frase.

– Quando tutto mi sarà chiaro?

Vito non rispose.

La vide rientrare, le sorrise e disse: – Già qua sei. Ti aspettavo per la colazione di domattina.

– Non sono tornata per te, – disse Francesca. – Ho dimenticato… – e indicò il tavolo al quale aveva fatto colazione.

Vincenzo andò, prese il pacchetto di pasticcini e glielo portò.

– Grazie, – disse lei.

Francesca lasciò il bar e il mazzo di chiavi era di nuovo sul banco, nel punto esatto dove l’aveva posato la signora di una certa età. Eva.

Alla masseria, ’u miricanu l’aspettava seduto sui gradini di casa. Piaceva a entrambi sedere lí, a volte al sole, a volte all’ombra, a seconda dell’ora del giorno. Gli posò il vassoio accanto e lo aprí.

Wonderful. Sei gentile…

– Il signor Antonino ci tiene alla tua salute. Se ti lasciassi morire di fame, non me lo perdonerebbe.

Prima di prendere qualcosa, ’u miricanu rientrò in casa e uscí con due tazze di caffè. – Appena fatto. Spero ti piaccia.

Francesca lo assaggiò e storse il naso e posò la tazza sul gradino, accanto a sé. Non aveva né l’odore né il sapore del caffè. Neppure il colore, fra il marrone e il nero pallido. Occupato con l’arancina, George non se ne accorse. La finí, ci mise dietro due lunghe sorsate della brodaglia e sembrò soddisfatto. Finí anche il cannolo. Colazione e pranzo. Poi, soddisfatto, si guardò attorno e chiese, indicando, con ampio gesto, masseria e dintorni.

– Di chi è tutto questo?

– Perché?

– A una domanda rispondi sempre con una domanda?

– Non sempre.

Inutile insistere. ’U miricanu si limitò a mormorare: – Spesso, – e appoggiò la schiena al muro.

Lo fece anche Francesca. Chiuse gli occhi: – Si dice che arrivarono a cavallo. Il 3 aprile del ’47.

– Chi?

– I capi mandamento di Piana, San Cipirello e San Giuseppe Jato.

– Spiega meglio.

– Un giorno mi hai chiesto di Salvatore Giuliano. In questa masseria s’incontrarono i capi mafia dei tre paesi. Assieme prepararono il piano per un Primo maggio speciale.

– Chi erano?

– Che t’importa?

– Hai ragione. Affari vostri.