Una cena apprezzata da tutti. Da Vito, in particolare. – Ditria, se non hai di meglio, io ti sposo.

– Dovevi presentarti prima. Alla mia età…

– Davanti alla tua cucina, passo sopra all’età. Cosa ne dici?

– Dico che forse accetto, se non ci sono altre pretendenti.

Dal corridoio il telefono interruppe il gioco e Ditria, che si era caricata di una pila di piatti da portare in cucina, fece cenno a Eva di andare lei a rispondere.

– Ti cercano a strane ore i tuoi amici, Nina, – disse Eva rientrando. – Spero non ti rimandino a esplorare qualche altra montagna.

Stella restò al telefono alcuni minuti e in sala ci fu il silenzio imbarazzato che precede notizie non gradite.

– Scusate, – disse Stella rientrando.

Ditria portò il caffè.

Stella provò a riprendere i discorsi. – Dov’eravamo rimaste?

– All’esplorazione di un’altra montagna, – rispose Eva, ironica.

– Era il dottor Bernardo Cucchi…

– Villa Corleone con vista lago.

– … e mi ha chiesto di passare da lui domani pomeriggio.

– Per la famosa lottizzazione, immagino.

– Strane amicizie, Nina, – commentò Vito.

– Non sono amicizie. C’è una lontana parentela, – cercò di spiegare Stella.

– Lo so, ma don Bernardo Cucchi non si fece vivo quando vennero a portarti via da Piana trentatre anni fa.

– La famiglia non è di Piana. Viene da San Giuseppe Jato.

– San Giuseppe Jato sarebbe stato meglio di Milano. Saresti cresciuta da queste parti e non ti saresti trovata nei guai che stai passando…

– Vito, non sono nei guai. E, nel caso, non mi ci sarei trovata. Quello che sono e faccio l’ho scelto.

Eva sentiva la tensione salire e intervenne. – Vito vuol dire che la famiglia di Bernardo Cucchi è sempre stata legata alla mafia. Non roviniamo una bella serata.

Stella accettò l’invito. – Una cosa non capisco, – disse. – Ho chiesto a Bernardo Cucchi come ha saputo che ero da Ditria e mi ha risposto: «Eh, Nina, piccolo paese è Piana».

– Quello ha occhi e orecchi dappertutto, – commentò Vito, sottovoce e ancora risentito per la reazione di Stella.

– Conosco bene la sua famiglia, – disse Eva. – Ho avuto Giovanni, il figlio di Bernardo, alla scuola serale. Un testone come ne ho conosciuti pochi.

– Questa non la sapevo, – disse Vito. – Quando hai insegnato?

– Chissà dov’eri tu, quando insegnavo alle serali. C’è stato un periodo della vita con Emanuele, il mio defunto marito, nel quale avevamo finito gli argomenti di conversazione. Specialmente la sera –. Guardò Ditria. – C’è ancora un fondo di caffè? – Ditria versò a Eva le ultime gocce dalla macchinetta. – Ho insegnato alle serali per quattro anni. Emanuele non era d’accordo. Aveva paura che mi accadessero dei guai, tornando a casa di notte. Il figlio di Bernardo, Giovanni, mi sorrideva e mi ripeteva: «Suo marito perde tempo. Se a lei ci dovesse accadere qualcosa, ci accadrebbe anche se avesse la scorta». Una notte mi aspettò all’uscita e indicando l’auto di Emanuele, che era venuto a prendermi, disse: «A suo marito lo deve avvertire di non preoccuparsi ché ci facciamo da scorta noi. E se a lei ci succede qualcosa, ci pensiamo noi. Mettiamo che in piena notte si buca una gomma, non si preoccupi ché arriva qualcuno a darci una mano». Cosí era la famiglia di Bernardo Cucchi. Avevano occhi e gente ovunque. Niente accadeva senza che lo sapessero. A volte ancora prima che accadesse. Perciò Vito ha ragione a preoccuparsi se li frequenti.

La tensione si era sciolta. Si scioglieva nell’aria anche il fumo delle sigarette del dopo caffè. Sfilacci chiari galleggiavano, lenti uscivano dalla finestra aperta e sparivano nel buio.

Ditria, la sola a non avere una sigaretta fra le dita, non protestava, abituata a sopportare il fumo degli altri.

– Non ho niente da temere. Alla lontana, ma siamo parenti, – li rassicurò Stella.

– Dai parenti c’è da aspettarsi il peggio, – commentò ancora Vito. – In passato ci sono stati episodi…

– Sarà il destino, – intervenne Ditria, – ma a Piana il passato è sempre presente. Prima l’ha evocato Eva e ora Vito.

– Restiamoci ancora un po’, nel passato, – disse Stella. Doveva affrontare un argomento delicato e ci pensò su. – Ho visto i miei genitori sull’erba di Portella, uccisi…

– Li hai visti? Come sarebbe? – disse Vito.

– Li ho visti con gli occhi di Eva, le sue foto. Mi ha aiutato la memoria di quello che è rimasto di Nina, – spiegò Stella. – Dunque, se Santina e Pino sono rimasti lassú, io come sono tornata a Piana?

Eva e Ditria si guardarono.

– Non l’abbiamo mai saputo, – rispose Eva. – Tu non immagini… La confusione era grande nella casa del dottore, e non ci si rendeva conto di come fosse potuto accadere. L’intero palazzo erano grida e pianti e lamenti. E feriti. Ovunque.

Eva smise di scattare foto. Non se la sentiva. Troppo sangue sull’erba di Portella. Gridò a Ditria, che come lei si guardava attorno stordita, incapace di muoversi:

«Nina! Cercala», e salí sul camion per controllare se, assieme ai caricati, ci fosse anche la piccola. Alcuni erano feriti, altri già morti e altri ancora morirono prima di arrivare a Piana.

Il mezzo scendeva lento, cercando di evitare scosse. Avrebbero procurato altri danni ai feriti. Superò un asino con una donna riversa sulla soma e il marito, che lo guidava, piangeva e gridava e malediva.

Per le strade di Piana, una folla già chiedeva, e a gran voce, a coloro che arrivavano: «Cos’è successo?»

L’ospedale non c’era nel 1947 e il dottore, accorso in strada fra i primi, offrí la sua casa. Era bella e grande.

La notizia della strage si sparse e in breve si radunarono nel provvisorio pronto soccorso, oltre ai feriti, coloro che non erano saliti a Portella. Cercavano parenti, amici.

Dal camion scaricarono anche i morti. Forse sperando che un alito di vita fosse ancora in quei corpi e il dottore facesse il miracolo.

Il mezzo risalí a Portella per un altro viaggio.

Anni dopo, non un autocarro, ma un autobus, in un altro luogo, avrebbe fatto i viaggi per un altro triste pellegrinaggio.

Il medico si diede immediatamente da fare con quel poco che aveva, bende, disinfettante… Lo aiutò la moglie, come poté. I feriti la supplicavano.

«Signora, dica al dottore di aiutarmi».

«Sí, adesso, a poco a poco, vedrai, non ti preoccupare…» Ma né lei né il medico sapevano a chi dedicarsi prima.

«Emilio, – supplicava lei, – questa sta morendo», e benediceva, chiudeva gli occhi, metteva un cuscino, un lenzuolo addosso.

«E che ci posso fare, io non so cosa fare».

Eva aveva diciotto anni e a diciotto anni è consentito restare immobili davanti al dolore. Uno cosí grande, lei non lo aveva ancora vissuto. Durò il tempo per capire che bisognava darsi da fare. Ed Eva fece quanto riuscí.

Altri morirono. Morirono tre, quattro persone e la moglie del dottore da infermiera diventò prete, impartendo l’estrema unzione.

Arrivò Ditria, sudata e spaventata.

«Non l’ho trovata. Nina! Non l’ho trovata! Forse l’hanno portata qui», e le due ragazze la cercarono tra i feriti. Tra i morti coperti dalle lenzuola. Bianche, che il sangue aveva macchiato.

Chiamarono.

«Nina! Nina! Avete visto Nina?»

Alle otto di sera, il pavimento della casa era rosso di sangue.

Vennero le donne di Piana e aiutarono a lavare, e l’acqua…

– … l’acqua che scendeva le scale non era acqua, era sangue, sangue. Scendeva le scale, e nel corridoio a piano terra le donne lo spingevano con scope verso il portone. Finiva sui lastroni del corso e giú, verso il basso, a rivoli. Tutto rosso, per la strada –. Gli occhi di Eva e Ditria erano umidi. Il tempo per accendere una sigaretta e riprese, Eva. – Fu verso sera che Ditria sentí il pianto di una bambina. Lo seguimmo e ti trovammo, Nina. Qualcuno ti aveva portata nella mia camera. Ci dormivo prima di sposarmi. Ci dormi tu adesso, Nina –. Sorrise, finalmente. – Eri sul mio letto, piccola e disperata. Un tovagliolo rosso di sangue ti stringeva la coscia.

E fu silenzio, per un po’.

– Non avete chiesto come ci arrivai?

– Ce lo chiedemmo e chiedemmo. Ancora oggi, ogni tanto, ce lo chiediamo, Ditria e io. Nessuno ha saputo dircelo. Eri sparita da Portella e riapparsa nella mia stanza. Come per miracolo.

– Di che colore era il tovagliolo?

– Giallo. Un tovagliolo giallo ma ormai rosso del tuo sangue.

Restarono il tempo per finire l’ultima sigaretta.

Vito accompagnò Eva e Stella lungo i vicoli di una Piana deserta e silente. Scendevano e, sopra di loro e sopra Piana, la Pizzuta era imbiancata dalla luna.

Si salutarono e, prima che il portone si chiudesse dietro le due donne, Vito lo fermò.

– Nina –. Stella ed Eva erano a metà corridoio. Si fermarono. – Domani pomeriggio verrò con te.

– Vai su, ti raggiungerò, – disse Stella a Eva.

– Fate con comodo.

Stella capí il sottinteso e le sorrise. – Non adesso e non qui, Eva. Non dopo il tuo racconto –. Tornò da Vito. – Perché verresti con me?

– C’è da chiederlo? Non hai capito chi è Bernardo Cucchi?

– L’ho sempre saputo. Me la caverò. È un terreno che conosco meglio di Rocca Busambra.

– Ti ha detto che vuole da te?

– No, ma lo so. Un parente, dall’America. Gli avevo chiesto io di incontrarlo, se fosse tornato e io fossi stata ancora qui. Sono ancora qui. Comunque, no, grazie. Andrò sola, – e per far capire che non c’era da discutere, si riavviò.

– Aspetta. Un’altra cosa. Non hai creduto al mio racconto su come ti ho riportato, ferita, a Piana.

– Non ne ho mai dubitato.

– Hai chiesto a Eva e a Ditria la loro versione. Il colore del tovagliolo…

– Per capire perché, in trentatre anni, non lo hai raccontato...

– L’hai capito?

– … ma soprattutto sperando che lo dicessi stasera alle amiche.

– L’hai capito? – ripeté Vito.

– Forse, – e lo lasciò.

Eva l’aspettava nell’ingresso, la porta dell’appartamento aperta. Sventolò a mezz’aria una busta bianca. – È passato il tuo postino personale. Niente francobolli e direttamente sotto la porta di casa.

Sulla busta, e battuta a macchina, la scritta: «Per la dottoressa Stella Cucchi, personale riservata. Spm».

– Sue proprie mani, – commentò Eva. – Scusa se l’ho raccolta con le mie, di mani.

Giú, in strada, Vito aspettò che il portone si chiudesse dietro Nina e si accendesse la finestra del primo piano. Si avviò verso casa.

Si portò dietro il pensiero di Nina. La preoccupazione per una vita che non capiva e che sembrava sempre sul punto di fallire.

Negli anni passati, trentatre, accadeva che il ricordo di Nina venisse a trovarlo. E si chiedeva che fine avesse fatto, la piccola.

Se l’era trovata davanti. Non ci sperava piú. E avevano fatto l’amore.

Risalí i vicoli tranquilli e sedette sul muretto davanti a casa per fumare un’altra sigaretta prima di andare a dormire.

Gli piaceva finire cosí la giornata. Lo rilassavano il silenzio e le montagne che sembravano custodire Piana nel suo apparente isolamento. Rilassavano anche suo padre, Vittorio. Di sera, tornato dai lavori e dopo aver cenato, sedeva sul muretto e dalle tasche della giacca di velluto prendeva la scatola che custodiva il tabacco.

Era di metallo e forse l’aveva ereditata dal padre. Per il lunghissimo uso aveva perduto la cromatura superficiale, mostrava il giallo dell’ottone.

L’apriva e sfilava una cartina dalla linguetta del coperchio. A quel punto, il miracolo: tenendo la scatola di tabacco nel palmo della sinistra e la cartina fra l’indice e il medio, con la destra raccoglieva pizzichi di tabacco che sbriciolava fra pollice e indice e andava a distribuire sulla cartina nella quantità giusta. Né troppo né poco. Sempre con pollice e indice, dava alla cartina una prima arrotolata. Una leccatina al lembo che rimaneva sollevato e una passata di pollice sul cilindretto, perché aderisse bene e non si sollevasse durante la fumata. Toglieva i pochi fili di tabacco usciti dalle estremità della sigaretta e li rimetteva nella scatola.

Gelosamente. O golosamente.

La richiudeva con uno scatto il cui breve suono Vito ricordava ancora.

Via la scatola e fuori l’accendino, dello stesso metallo e colore antico, e finalmente, esaurita la cerimonia, la prima attesa boccata di fumo che Vito, seduto accanto, aspirava, appena uscita dalla bocca di suo padre, calda.

«Je i vogëltë fumarësh, – gli diceva Vittorio. – Jec flëjë».

Aveva ragione: era piccolo per fumare.

Si alzava e andava a dormire, come, con garbo, gli aveva ordinato il padre.

Accadeva secoli prima.

Aveva preso molto dal padre, Vito. Non l’abilità nell’arrotolarsi le sigarette.

E la scatola di metallo e l’accendino che ogni tanto veniva rifornito con poche gocce di benzina dov’erano finiti?

Tornato a Piana, aveva capito quanto gli era mancato il padre. E quanto il padre avrebbe potuto dargli, oltre a quanto gli aveva dato fino ai sedici anni.

Lasciò che i ricordi tornassero da dove gli erano arrivati.

L’ultima occhiata ai profili dei monti e ai tetti di Piana.

L’ultimo tiro prima di calpestare la cicca sui ciottoli. L’avrebbe raccolta il mattino seguente.

Entrò in casa.

La telefonata di Antonino Bontà gli arrivò mentre faceva colazione, in hotel.

– Mister George, nel pomeriggio verrà a prenderti un mio incaricato. È persona fidata. Ti accompagnerà a Piana e ti farà da scorta per il tempo che resterai lassú.

– Francesca?

– Ceschina è impegnata altrove. Il mio uomo ti starà vicino e non avrai problemi. Sei in buone mani. Fatti trovare pronto per le tre.

Alle tre la persona fidata si presentò. Era uno dei due che lo avevano legato e incappucciato, a villa Torretta, una brutta notte. Antonino Bontà lo aveva chiamato Turcu.

Gli si avvicinò, prese la valigia e avvertí che lo avrebbe aspettato fuori. Finisse con comodo lo scotch.

Uscí. Turcu era al volante e la portiera accanto era aperta.

– Sei turco? – gli chiese, seduto. Turcu fece no con il capo. – Perché ti chiamano turco?

Nivuru sono.

Nivuru?

– Nero, – e partí.

Il viaggio verso Piana degli Albanesi fu silenzioso e monotono. Fino alle prime rampe montane. Oltre una curva, in un breve rettilineo, li fermò una pattuglia della stradale. Due agenti. Uno a controllare le auto e i passeggeri, l’altro, accanto all’auto dell’Arma, mitra imbracciato.

Turcu fermò e aprí lo sportello per scendere. Lo stesso stava per fare mister George. Quello gli piantò una mano sulle spalle e lo inchiodò al sedile.

Nun t’arriminari e nun sciatari, – gli disse.

Mister George non capí, ma non si mosse dall’auto e, da spettatore, guardò la scena.

Turcu parlottò con l’agente. Che annuí, buttò un’occhiata veloce e distratta all’interno del bagagliaio e fece segno di richiudere. Via libera.

Nessun’altra fermata fino al cancello di villa Corleone, vista lago.

Seduto sotto il porticato e con i due rottweiler accanto, Bernardo Cucchi. Probabilmente addormentato, poiché non si mosse.

Turcu andò a suonare al cancello e mister George a recuperare la valigia. Nel bagagliaio, un mitra e alcuni caricatori in bella vista.

– E l’agente? – chiese alla guardia del corpo che l’aveva raggiunto per prendergli la valigia.

Turcu sollevò e abbassò il capo atteggiando il muso a una smorfia che stava per: «Niente vide, quello».

– Buone o cattive notizie dalla posta? – chiese Eva mentre pranzavano.

– Niente di speciale. Un appuntamento.

– Un altro. Caffè?

– Lo prenderò al bar.

Sperava di trovarci Vito.

C’era. Seduto a un tavolino, fuori. Assieme ad altri. Lo salutò passandogli accanto. – Un caffè ristretto, – disse a Vincenzo. E andò al solito tavolino.

La raggiunse Vito. – Novità?

– Sí, dovrei accompagnare certe persone alla masseria Ducco.

– Questo c’era nella lettera?

Nina annuí. Inutile chiedergli come aveva saputo della lettera. Lo poteva immaginare. – Hai qualche problema se ce li porto?

– Dipende da cosa farete al feudo.

– Niente di speciale. Un incontro amichevole, riservato e lontano da occhi indiscreti.

– Vincenzo, un caffè, – ordinò Vito. – Proposito lodevole ma difficile da perseguire. Ci sono occhi e orecchie dappertutto.

– Cosí mi è stato chiesto e se non ti dispiace…

– Mi dispiace. Sento odore di mafia –. Avvicinò il viso a quello di lei. – Nina, cosa sta succedendo da queste parti? Da quando sei arrivata a Piana…

– Se non io, sarebbe arrivato qualcun altro.

Vincenzo portò i due caffè. – Come va, Nina? – chiese.

– Cosí.

– Da don Bernardo, a villa Corleone, sono arrivati degli stranieri, – comunicò prima di tornare al banco. – Tuoi parenti, Nina?

– Che ti dicevo? Occhi dappertutto, – commentò Vito.

– Posso portarli al Ducco o no?

Finito il caffè, Vito si alzò, si avviò per tornare dagli amici, fuori dal bar. – Che non succeda niente a Bionda e Bizzarro, – intimò, – o mi arrabbierò forte.