– Adesso? – chiese Vito. – Vuoi andare a vedere la tua casa adesso, Nina?
– Subito.
– Non ci sei tornata per trentatre anni e improvvisamente…
– Ci penso da quando l’ho vista la prima volta, assieme a Eva. Ci andiamo subito.
Ma Vito non si alzava.
– Qualche problema?
– Non so se valga la pena. Potresti restare delusa. Sarà piena di ragnatele, di polvere… È chiusa da oltre trent’anni...
– È ora di aprirla, non credi?
– La sistemerò un po’ e ti ci porterò.
– Mi ci porterai subito, – e uscí. Qualche passo su via Barbato e aspettò Vito.
Vito non chiuse a chiave la porta di casa. Lo faceva solo se prevedeva di restare fuori a lungo. Una mezza giornata almeno. Accostò, la raggiunse, insieme arrivarono allo slargo con Skhjptari e sul primo dei sette gradini di via Barbato, Nina si fermò.
Il sole del primo pomeriggio faceva scintillare l’azulene degli intonaci. Là dov’era rimasto. In molte parti se n’era andato con gli intonaci. In quella che era stata la sua casa, ce n’era ancora e disegnava strane figure. Un quadro astratto.
Scesero. La porta, di pesante legno invecchiato da secoli, era verniciata di verde chiaro. Nina si fermò, tentò di aprirla, non ci riuscí. Guardò Vito.
– Come si entra?
– Con la chiave, – e aspettò qualche secondo. – Non ricordi dove la metteva Santina quando ve ne andavate?
Ci pensò, Nina. Desolata, scosse il capo. Un attimo e si chinò, infilò la mano nella fessura fra la soglia di sasso e la spalletta della porta, guardò Vito e sorrise. Si rialzò agitando la chiave.
– Eccola, – mormorò. – È rimasta lí per tutti questi anni?
– Chi avrebbe dovuto entrare? È casa tua.
Cigolando sui cardini arrugginiti, la parte superiore della porta si aprí e Nina mise dentro il capo. Ragnatele. Le ci volle un po’ per far scorrere il catenaccio della parte inferiore.
Esitante, entrò. Aspettò che gli occhi si adattassero alla penombra. Era umido. La poca luce veniva dalla porta e da una piccola finestra.
Era come l’aveva vissuta bambina. Il primo vano. Tavolo, sedie, gramar, cassettone, fornello per il carbone, secchiaio e, sotto, due caratelli. Per l’acqua e per il vino.
La nicchia scavata nello spessore del muro, un gradino sul pavimento. Ci si rannicchiava e si copriva con uno straccio, quando voleva far credere a Santina di essere sparita. E Santina fingeva di cercarla, cercarla…
E galline. Per strada e in cucina. E la capra e il mulo, che stavano sempre assieme. Si chiamava, si chiamava…
– Nerone!
– Il vostro mulo, – confermò Vito. – Lo ricordo.
– Nerone. Chissà dove l’aveva sentito quel nome, Pino.
In un angolo, il linoi.
Il soffitto azzurro. Solo, appena sbiadito per la polvere.
Nella parete di fronte alla porta, il secondo vano. Un arco di sasso a sesto acuto lo divideva dalla cucina. Il pavimento era di roccia viva. In un angolo, due valigie di cartone pressato, tenute assieme da cordelle allacciate.
Ne aprí una. Gonne e magliette da bambina, qualche fazzoletto colorato, una sciarpa e calzini di lana grezza…
Tutto era diventato umidità e muffa.
E questa?
Dall’impasto di straccetti era spuntata la testa bionda di una bambola. Con cura la tolse dalla valigia, la sollevò e la guardò alla scarsa luce che arrivava dalla cucina.
Nina era seduta sugli otto gradini. Li contava ogni volta che li saliva, per superare l’ultimo dislivello fra via Barbato e Skhjptari. Sapeva contare fino a dieci. Glielo aveva insegnato Eva.
Tutte le mattine, dalla primavera fino a quando si andava in feudo, appena alzata, Nina prendeva il pane, sempre piú piccolo giorno dopo giorno, e il pezzetto di formaggio, sempre piú piccolo giorno dopo giorno, che Santina le dava, e correva a sedere lassú. Dopo poco arrivava il sole. Prima una piccola strisciata sui riquadri della pavimentazione. Si allargava e arrivava da lei. Il saluto del nuovo giorno.
Quel mattino, prima del sole, arrivò Eva. Giovane e una cadenza nel parlare che le piaceva tanto.
Le piaceva anche il profumo che sentiva ogni volta che l’abbracciava.
La vide, in basso, svoltare da via Vittorio Emanuele, il corso principale, e salire da lei. Per un attimo agitò la sinistra nel saluto.
Saliva, le mani dietro la schiena e un bel sorriso.
Le arrivò vicino e si fermò ai piedi dei gradini.
«Quanti sono stamattina? – Nina alzò la sinistra con le dita aperte, ché la destra teneva ancora l’ultimo pezzetto di formaggio. – Cinque? Accidenti, sei già una ragazza».
Nina si stava chiedendo perché Eva non l’abbracciasse, come faceva quando l’incontrava. Alzò lei le mani e gliele tese. Ancora Eva non l’abbracciò. Da dietro la schiena, la splendida ragazza che veniva da lontano, mostrò una scatola e la posò sulle manine tese.
«Buon compleanno, Nina», e finalmente l’abbracciò.
Nina non poté fare altrettanto: la bloccava l’emozione e le mani erano occupate a reggere una scatola alta quant’era alta lei e colorata con i mille colori del mondo.
«Cosa ci sarà dentro? L’apriamo?»
Aspettava solo quelle parole, Nina. Si alzò e di corsa fece i gradini e il tratto di via che scendeva verso casa.
Eva si mise le mani sulla bocca.
Dio, cadrà, adesso cadrà!
Non cadde.
«Santina, Santina, guarda!»
«Che bella scatola, Nina. Chi te l’ha data?»
«Eva», riuscí a sussurrare.
Occhi spalancati e lucidi, mani tremanti e ansia di capire, scoprire, gioire ancora.
Non aveva mai visto una bambola tanto bella.
Non aveva mai visto una bambola.
Un pugno di stracci cuciti assieme, un gomitolo per testa, gli occhi e la bocca disegnati con la matita copiativa…
– Mio Dio. Chi l’avrà messa nella valigia?
– Mia madre, credo. Fu lei a preparare le cose da portarti via. Ne avresti avuto bisogno. Ma quelli avevano fretta e se ne andarono lasciandole lí.
Prese la bambola e uscí a riscaldarsi al sole, appoggiata al muro, accanto alla porta. Come faceva da piccola.
Vito la raggiunse, accese una sigaretta e gliela passò.
– Basterebbe una pulita e tornerebbe splendente come trent’anni fa, – disse Nina.
– Ci vuole altro. Intonaco scrostato, impianto elettrico e idrico, un bagno…
– Il soffitto, dico. Mi piaceva l’azzurro del soffitto. Lo immaginavo come il mio cielo personale.
Fumarono in silenzio.
Vito mormorò: – Ci ho pensato. Non ti ci vorrebbe molto.
– Per fare cosa?
– Sistemarla. Potrei farlo io…
– E poi?
Lui non rispose e finirono le sigarette.
Vito richiuse la porta. – Poi, chissà, un giorno o l’altro, – e tese la chiave a Nina.
– Che me ne faccio?
– La casa è tua.
– Rimettila dov’era, – disse lei. – Anzi, la rimetto io.
Lo fece.
– E di quella, che ne farai? – chiese lui riferendosi alla bambola.
– Le faccio prendere un po’ di sole e poi…
Vito aspettò il poi.
Nina non trovò un poi credibile.
Molte cose avrebbe già dovuto fare. Riportare l’auto a Palermo. Non le serviva piú. Dalla notte del diluvio, ormai lontana. Dall’ultima volta che aveva visto il suo capo e Stefano.
– Domani vado a Palermo, – disse.
Erano seduti fuori dal bar. Di sera. Nina, Vito, Eva e Ditria. Un altro mese stava andandosene, dolce, quell’anno, e le loro giornate finivano a godersi il fresco. E anche lei avrebbe già dovuto andarsene. Tornare a Basilea.
Rimandava e rimandava.
Almeno fare una telefonata a Dani.
Anche quella rimandava.
Non si chiedeva piú il perché. Lo sapeva.
Viveva alla giornata e le andava bene.
Alla masseria un paio di volte al giorno. Per i cavalli.
Bizzarro le voleva sempre piú bene. Si sarebbe innervosito se non l’avesse rivista. E quando se ne fosse andata, sarebbe tornato il cavallo permaloso che era. Bizzarro.
Vito andava ogni giorno in feudo. Poi, il lago, Madonna dell’Odigitria, lungo i fianchi della Pizzuta a raccogliere asparagina e finocchio selvatico, «ma devi stare attenta che ce n’è una che le somiglia e fa venire la dissenteria». Vito sapeva usare le erbe in cucina, «come mi ha insegnato mia madre».
Ancora: a San Vito Lo Capo. Scaldarsi al sole; sdraiarsi sulla sabbia, chiara e brillante, che brucia la pelle; buttarsi nel mare di cristallo; far asciugare il corpo nudo dal tiepido vento di terra.
Una gita alla Ficuzza, ogni tanto. Gorgo del Drago, Grotta del Romito, la Sedia del Re… Sperava di incontrare Re di Rocca. Il suo nibbio. Lo avrebbe riconosciuto.
Un giorno, alla Ficuzza, chiese a Vito: – Quanto vive un nibbio?
Lui la guardò, guardò in cielo e rispose: – Meno di trentatre anni, Nina, molto meno.
– Peccato.
Ancora, ed era accaduto come se fosse stato normale: caricare sulla 127 di Vito i mobili e trasportarli alla masseria. I mobili della sua casa, di quando Nina era bambina.
– Ho il necessario per pulirli, sistemarli, togliere l’odore dell’umidità, – le aveva detto. – Se lasci le cose come stanno, andrà tutto alla malora.
Da quando era tornato a Piana, alla masseria Vito aveva attrezzato una falegnameria...
– E anche il laboratorio per le sculture.
E passavano i giorni.
Dopo i mobili, alla masseria portarono gli infissi, la porta esterna, la porta interna… Una vita nuova. Che Nina non conosceva e le piaceva. Con Vito.
Fino alla notizia: nel mare di Ustica ottantuno morti.
Vito commentò, aspro: – Un altro delitto lecito.
Molte cose non fece che avrebbe dovuto fare. Era arrivato il momento.
– Domani vado a Palermo, – disse.
– Che ci vai a fare? – chiese Vito.
– A restituire l’auto.
– Ti costerà una fortuna.
– È della ditta. Mi accompagni?
– Ti accompagniamo tutti, – disse Eva. Erano seduti davanti al bar, all’ombra. – Vi porterò a pranzo da… Niente, sorpresa. Vedrete. D’accordo?
L’idea piacque.
– Approfitterò per andare a vedere gli orari dei voli per Milano.
La notizia arrivò imprevista. I tre pianesi si guardarono in silenzio. Nessuno chiese spiegazioni. O non le volle.
Le diede Nina: – È arrivato stamattina. Eva era fuori.
Passò il telegramma ed Eva lo lesse sottovoce, per tutti: – «Ultimi avvenimenti richiedono sua presenza in sede. Predisponga rientro prima possibile. Agenzia Sturla».
Vito si fece dare il telegramma e lo rilesse. – Agenzia Sturla? Non era un’impresa di costruzioni?
– Abbiamo diverse ragioni sociali e recapiti. L’agenzia Sturla si occupa di urgenze. Prima o poi doveva succedere, non vi pare? L’università, la ditta, Dani…
– Chi è Dani?
Nina rispose con un gesto vago e Vito lasciò perdere. Chiunque fosse Dani, a lui era andata bene cosí, la vita che faceva con lei. Che aveva fatto con lei. Da quel momento la vita cambiava. Senza preavviso.
Cosí era Nina. Imprevedibile. Tentò: – Ci vorrà ancora qualche giorno per finire la sistemazione della tua casa. La inauguriamo e, dopo, Basilea –. Aspettò un segnale. – Fai quello che devi poi prendi il tuo Dani e torni qui e gli fai vedere dove sei nata e dove hai vissuto l’infanzia…
– Gli fai vedere, – lo interruppe Nina. – Chi ti dice che Dani sia un lui?
– Qualunque cosa sia, potresti tornare qui, – ma sapeva l’inutilità dei suoi discorsi. E si arrese. – Come sei riuscita a restare lontana da Piana per tanti anni?
– Semplice, non ho mai pensato a Piana.
Vito capí. Lui era tornato, anche se tardi, perché non passava giorno senza che il suo pensiero andasse a Piana. A Portella della Ginestra. Disse:
– E adesso? Come ci riuscirai, adesso?
– Farò in modo di non pensare a Piana…
– Non ti servirà piú, – disse Eva. – Adesso ci siamo anche noi nella tua memoria.
– Non raccontarci che non ci penserai, – completò Ditria.
– Vero, non dimenticherò. La tua cucina, soprattutto, Ditria –. La battuta passò nell’indifferenza. E nella tristezza per la notizia che nessuno si aspettava. Non quella sera e non cosí brutalmente.
Fecero l’amore, la notte. E c’erano affetto, ricordo, speranza, desiderio… Rimpianto.
– Tu non tornerai a Piana, – disse Vito, dopo. – Chiuderai la porta di casa e dentro torneranno polvere e ragnatele e umidità. Nasconderai la chiave fra la soglia e il muro e chissà se e quando qualcuno si ricorderà di prenderla, aprire ed entrare. Per questa casa, la mia, è accaduto. Lo fece mio padre. Lavorò, lavorò fino a rompersi la schiena e appena poté comperò questa casa, disabitata per anni. Quante volte mi ha raccontato la storia di Karushi. Cominciava cosí…
Devi stare a sapere, caro il mio ragazzo, che dopo averlo ascoltato parlare al circolo socialista uscii con lui e assieme salimmo i vicoli per tornare a casa a dormire. Il giorno dopo sarebbe stato un giorno di duro lavoro. Erano le nove e mezza, Vito. Di sera. E in cielo una bellissima luna illuminava i gradini dei nostri vicoli. Al circolo socialista si era discusso su come organizzare il Primo maggio, due giorni dopo. Arrivati all’angolo con via Macaluso – allora si chiamava via Brutto – lo salutai e presi a salire la seconda scalinata di via Lo Greco. Non ricordo come si chiamasse allora. Siamo nel 1921, Vito, in aprile, il 28 aprile. Tu stavi nel paradiso.
Non ero ancora arrivato in cima alla gradinata che sentii gli spari. Tanti.
Corsi e li vidi scappare. C’era la luna, te l’ho detto. E loro erano tre. Vestiti di nero, coppole calate sugli occhi e lupare che ancora fumavano.
Vidi anche l’amico Karushi. E il suo sangue. Scorreva ai lati della strada.
Sui ciottoli dei vicoli di Piana ne è passato di sangue nostro, Vito. Prima di Karushi e dopo.
Lo vidi ammazzato e pensai alla sua famiglia: Rosaria, la moglie, Giovanni, undici anni, Antonina, nove anni, Serafina, sette anni e l’ultima nata di appena due anni. Karushi l’aveva chiamata Rosa Lussemburgo. Il prete aveva avuto da ridire a lungo, ma Karushi non aveva mollato.
Lo lasciarono sulla strada fino al mattino, piantonato dai carabinieri come un malfattore. Mentre i veri malfattori facevano festa. Non molto lontano dal corpo di Karushi.
Il primo sole lo fece splendente di luce.
Sfilò davanti a lui il pianto di Piana e dei tanti, partiti a piedi o a dorso di mulo, non appena il vento portò ai compagni il nostro grido.
Noi abbiamo sempre gridato al vento il nostro dolore.
– Raccontava come fosse una favola. Cominciava con voce bassa e calma. Poi, col procedere della storia, il tono prendeva il senso della tragedia e io vedevo i tre assassini, neri, le coppole sugli occhi e le canne fumanti. E le loro ombre che la luna stampava sul selciato. Sentivo brividi nella schiena. Immaginavo che al posto di Karushi ci fosse mio padre, e il pianto mi saliva in gola –. Vito fece una pausa prima di dire: – Ti ho parlato di Karushi per darti un pezzo della nostra storia da portare a Basilea –. Un’altra pausa e ripeté: – Tu non tornerai a Piana.
Nessuno dei due aveva voglia di dormire.
Pesava il silenzio su Piana. Dalla finestra socchiusa entrava il riflesso che la luna scavava sui fianchi della Pizzuta.
Entrava anche il profumo di piante selvatiche.
– Ginestra, – mormorò Nina. – Lo senti? Il profumo –. Vito annuí. – A Basilea non lo troverò. E forse torneranno i miei incubi.