15

Agosto 1502,
prova del carro di Leonardo

Più avanti, il dolce panorama delle colline si stringeva in una gola scoscesa, dominata lontano dalle mura rossicce della città. Il sole al tramonto arroventava i mattoni, trasformandoli in una massa di rame fuso.

«La città di Dite», mormorò tra sé Cesare, ripensando al passo della Commedia che quella vista gli evocava. Sedeva su una roccia, osservando con attenzione il gruppo di uomini che a poca distanza erano intenti a stringere gli ultimi legacci di una pesante armatura da battaglia dietro le spalle di un imponente guerriero, immobile in mezzo al campo. Gli uomini eseguivano il loro compito velocemente, muovendo le dita agili con la maestria di chi abbia in grande dimestichezza la vestizione di un combattente.

Gettò uno sguardo sull’aspetto del suo compagno, così diverso dai tratti grossolani della gente di mestiere in azione lì vicino: il suo corpo snello dagli arti slanciati avrebbe potuto essere quello di un ballerino, o di un musicista. O di un poeta.

O di un angelo, proprio come quelli che dipingeva in giro per l’Italia, pensò ancora Cesare. Nonostante avesse raggiunto ormai la maturità, il volto sembrava scolpito in un caldo avorio antico, appena raffreddato dagli occhi di un azzurro intenso.

L’uomo ricacciò dalla fronte la massa di capelli dorati che una folata di vento gli aveva scomposto, lanciando un’occhiata maliziosa verso Cesare. «Ebbene, duca, sembra che ci siamo. Il nostro amico è pronto per la prova», aggiunse poi, indicando il guerriero.

«Siete sicuro di quello che volete fare? Sembrate aver più dimestichezza in questo genere di cose di noi gente d’arme. Sembra che non abbiate mai avuto timore dell’odio della Chiesa per certe pratiche...»

«Spero di non urtare la sensibilità di un uomo che è stato principe della Chiesa», rispose Leonardo da Vinci, senza preoccuparsi troppo di nascondere il tono ironico. «Ma spero vi sarà subito chiara la necessità di un tale assistente. Seguitemi.» Dette quelle parole aveva preso a risalire a passi svelti il fianco della collinetta.

Anche Cesare si alzò, lieto di potersi allontanare. Non aveva nessuna voglia di restare troppo vicino all’uomo armato, che spandeva intorno uno sgradevole lezzo, da sotto la sua veste di ferro. «Ve lo offro volentieri, quel bastardo che ha tentato di assassinarmi. Non credo cha abbia troppo a lamentarsi di quello che lo attende, a fronte di quello che gli avrebbe destinato la mia ira.»

Quando si furono allontanati di un centinaio di passi, Leonardo fece segno di arrestarsi. «Questo è un buon punto di osservazione. Al riparo, ma anche vicini a sufficienza per vedere nel dettaglio ciò che accadrà. Siete pronto?»

Cesare fece un cenno affermativo. L’altro dette un’ultima occhiata al guerriero corazzato che era rimasto ad attendere in basso e parve soddisfatto da quello che vedeva. Si erse in tutta la sua altezza, portando le mani alla bocca, e lanciò un ordine secco a qualcuno invisibile oltre il crinale della collina. Poi tornò a concentrarsi sull’armato più in basso.

Il guerriero sembrava attendere qualcosa, come loro. La pesante armatura, fatta di piastre d’acciaio rivettate, gli spallacci ben assestati sugli omeri, maniglie e gambiere lo trasformavano in una macchina da guerra imponente e invincibile. Eppure quella massa di acciaio non sembrava gravarlo più di tanto. Lo si sarebbe detto un fantoccio, se non per il leggero borbottio, appena percepibile a tratti da sotto la celata. Aspettava eretto, le membra rilassate. La testa appena ripiegata su di un lato, per quanto era permesso dalla gorgiera di ferro che chiudeva l’elmo sulla gola. La celata abbassata sul volto nascondeva del tutto le sue fattezze, ma certo doveva essere anche lui intento a fissare lo stesso punto che stavano guardando affascinati gli altri due, la cresta della collina.

Lassù con un frastuono metallico era apparsa una visione da incubo. Contro la luce abbagliante del sole un enorme ragno dalle zampe che si dimenavano in un vortice di polvere scendeva a precipizio verso di loro. Il corpo sussultante, grande quanto una grossa botte, veniva giù scivolando sul costone erboso, al centro di un turbine di lame rotanti.

Briareo... Briareo dalle cento braccia... pensò con un brivido Cesare. Nelle sue campagne aveva affrontato talvolta squadre di picchieri irte di lame, o cavalleria pesante armata di lunghe lance. Ma alla vista della macchina non aveva saputo vincere l’istinto di arretrare di qualche passo.

Leonardo aveva seguito la sua reazione con la coda dell’occhio, le labbra arricciate in un sorriso soddisfatto. In lontananza le mura della città continuavano a bruciare della vampa del metallo fuso. Sì, proprio così doveva essere la città infernale, tornò a pensare Cesare. Di fuoco, popolata da mostri.

Come una furia, il carro continuava a precipitare in avanti sollevando una nuvola di polvere arida, attraverso cui lampeggiavano a tratti le lingue delle lunghe falci che mulinavano in preda ad un moto vorticoso. Anche gli uccelli erano scomparsi, atterriti dal rombo delle ruote e dal frastuono degli zoccoli. Il terreno sotto i loro piedi aveva preso a tremare al passaggio del pesante carro falcato.

Correva avanti non tirato ma spinto da un cavallo, che sembrava a sua volta trascinato dal peso dell’artificio, dentro le lunghe stanghe che l’imprigionavano. Contro ogni logica e uso dei carri, pensò Cesare. Ancora una volta si trovava a constatare come il genio di Leonardo seguisse vie del tutto diverse dall’ordinario, nelle stese di colore e nelle mortali invenzioni.

Il cavallo sbuffava e nitriva, scontento di quella posizione alla quale non doveva essere abituato, e rispondeva malvolentieri allo sprone e agli strappi del morso inferti dal suo cavaliere, tutto preso nel compito di mantenere lo strano macchinario in linea sulla sua traiettoria.

Il veicolo sobbalzava e scartava di lato ad ogni avvallamento del terreno. Più di una volta lungo la corsa una delle lame rotanti aveva colpito il terreno con un clangore metallico, scagliando in alto pietre e terriccio, minacciando di ribaltarsi e di trascinare con sé il cavallo imbizzarrito. Ma ogni volta l’auriga era riuscito a riportare in linea la macchina, continuando a puntare sul suo bersaglio, l’uomo armato in fondo alla china.

Il corazzato restava immobile, senza nemmeno accennare ad un moto di fuga, come se con la sua pesante protezione sperasse di poter resistere all’urto. Cesare si volse a osservare il profilo dell’artista. Per nulla turbato, fissava quello spettacolo drammatico con un’espressione distaccata, come se la sua mente fosse presa soltanto dall’opera di registrare minutamente, attimo per attimo, ogni particolare dell’avvenimento.

Del resto, cosa mai quell’uomo compiva secondo la logica dei comuni mortali? Forse c’era davvero qualcosa di folle nella sua mente, nascosta dietro i freddi occhi azzurri che assistevano a una scena così violenta con lo stesso piacere con cui in una taverna lui avrebbe seguito le mosse languide di una danzatrice nuda.

Si distolse da quelle considerazioni tornando a concentrarsi sull’uomo armato che attendeva in fondo alla valle. Quello sembrava continuare a osservare l’avvicinarsi della macchina, senza ancora predisporre nessuna azione di difesa, senza alcun timore visibile per la massa turbinante che precipitava verso di lui.

La macchina arrivò a ridosso dell’uomo corazzato inclinata sulla destra, a causa di un ultimo avvallamento sul terreno, senza che quello tentasse un solo gesto per cercare di sottrarsi all’urto. L’attendeva spavaldo, come Orazio sul ponte romano, ebbe ancora il tempo di pensare il giovane. Una delle lame del mulinello montato sulla ruota lo colpì all’altezza della spalla, troncando netto il braccio con uno schianto di lamiere e di ossa, mentre il secondo fascio di lame, che ruotava in senso inverso, si abbatté con tutta la forza del peso della macchina all’altezza della vita, spezzandone il corpo in due.

Le piastre della corazza avevano offerto solo una debole resistenza alle falci, saltando via sotto l’urto dell’acciaio. Il busto con il suo moncone di braccio era restato infisso nel rostro della ruota e trascinato via dalla macchina nella sua corsa, mentre le viscere si spargevano intorno, colorando con un fiotto rossastro la polvere intorno. Una terza lama aveva colpito ancora il corpo all’altezza del collo, strappando via la testa prima ancora che la massa informe di ossa e muscoli fuggisse avanti, e tutta la macchina era poi scivolata accanto al troncone inferiore dell’uomo, con le gambe restate erette come se una mano fantasma le sorreggesse, dietro l’inutile riparo delle gambiere di ferro.

Gli zoccoli del cavallo schiumante arrivarono un istante dopo a calpestare i resti raggrumati di sangue, mentre l’auriga cercava di arrestarne la corsa con uno strappo violento delle redini. La macchina sobbalzò violentemente, quando una delle ruote passò sulla testa del guerriero inutilmente protetta dal suo involucro d’acciaio.

Cesare continuava a osservare la scena. Passata la prima sorpresa, adesso tutta la sua attenzione era concentrata sugli effetti dell’invenzione leonardesca. Invece il suo compagno era scattato con agilità insospettabile, correndo a perdifiato lungo la discesa. Sembrava che volesse raggiungere la macchina che ancora procedeva in avanti sullo slancio, con il suo macabro trofeo artigliato alla ruota, nonostante gli sforzi dell’auriga. Dopo un attimo anche Cesare gli tenne dietro, gettandosi lungo la discesa accidentata.

Neppure Ettore trascinato sotto le mura di Troia era stato ridotto a una tale massa di viscere dilaniate, pensò, mentre a sua volta si affrettava a raggiungere il carro. Se, come aveva sempre creduto, tutto nella storia torna a ripetersi, il ritorno di un’identica vicenda poteva però presentarsi in una veste decisamente più infernale. Il palo eretto alle sue spalle, che ora si vedeva distintamente, e che era servito a costringere il prigioniero nella sua mortale posizione, aveva resistito a malapena all’urto e ora giaceva inclinato, con parti del suo corpo ancora legate nella posizione originaria.

La macchina intanto si era arrestata un centinaio di passi più avanti. Leonardo si chinò avidamente sui resti umani sparsi a terra. Osservava ogni particolare con attenzione bramosa, trattenendosi indietro le onde di capelli con entrambe le mani, per evitare che sfiorassero la lordura sul terreno.

Cesare era colpito dalla singolarità di quel gesto, così femmineo in una natura tanto apparentemente aliena da ogni delicatezza. Poi la voce sonora del suo compagno lo strappò alle sue considerazioni.

«Ebbene, duca, cosa pensate di questo mio ritrovato? Non credete che possa valere a scompigliare qualunque forza schierata a battaglia?» Aveva afferrato il troncone di braccio e ne stava esaminando con attenzione il punto della ferita. L’osso biancheggiava tra i filamenti di muscolo lacerati. Con le dita lunghe e sottili estrasse dalla massa sanguinolenta una scheggia di metallo dello spallaccio, e passò ad osservarne il bordo strappato, mentre mormorava tra sé qualcosa, come se sussurrasse a un allievo immaginario una descrizione attenta dei danni inferti dal colpo.

«Sì, la lama è in grado di tagliare anche lo spessore di un’armatura da campagna», replicò Cesare. Aveva raccolto da terra una delle piastre della corazza, anch’essa deformata dall’urto. Di nuovo passò il polpastrello sul bordo lacerato, assentendo tra sé. «Sì, funziona. Eppure...» aggiunse poi, tendendo al suo compagno un frammento di metallo intriso di sangue.

«C’è qualcosa che non va?» chiese Leonardo.

«Direi che il vostro marchingegno si sia dimostrato efficientissimo come macchina da esecuzioni, certo più spettacolare di una mazzolatura, e perfino dello squartamento. E come artifizio da guerra è forse utilizzabile, orrendo com’è da ben figurare sull’altare del dio della guerra. Ma perché volete metterlo nelle mie mani?» disse Cesare, lo sguardo che ancora errava sui frammenti del cadavere sparsi in terra. «Non sentite piuttosto l’obbligo di far dono di questo terribile talento alla vostra patria, quella Firenze che domani potrebbe essere al centro delle mie stesse ambizioni?»

Un’ombra velò per un attimo la fronte di Leonardo. Le sue labbra si serrarono in una smorfia amara. «La mia patria... Una città di mercanti invidiosi, che mi ha spinto a cercare di che vivere fuori delle sue mura arroganti, dopo aver osannato un esercito di imbrattatele, affidato loro ogni commissione, ignorato con sprezzo ogni mia proposta, irriso ad ogni meraviglia che proponevo. Che mi ha infangato rigettandomi in volto la forza della mia bellezza, costringendomi a cercare fortuna nella lontana Milano! E comunque, duca, è ben altro quello che ho in mente per voi, che questo misero meccanismo. Piuttosto, avete notato il punto d’attacco delle lame, sul corpo?»

«Sì, maestro Leonardo, ma non capisco...»

«Troppo in basso. La testa è stata colpita soltanto perché all’ultimo la ruota di destra si è casualmente sollevata. Altrimenti la decapitazione non sarebbe avvenuta. L’avrete notato, spero.»

«Sì... no. Ma cosa cambia? L’effetto è stato comunque lo strazio del bersaglio. Chiunque fosse stato al posto di quel povero bastardo, fosse stato anche il gigante Golia, sarebbe stato fatto a pezzi egualmente.»

«No! Non è lo stesso! Lo spirito dell’uomo, la sua virtù, è nella testa. È quello il bersaglio che tendiamo a proteggere nello scontro. Quello che minaccia il nostro volto davvero ci terrorizza. Il viso è lo specchio dell’anima, dicono i sapienti. Ma è anche il vaso in cui quello spirito si nasconde», aggiunse poi, tendendo al suo compagno il frammento di metallo intriso di sangue. «Ricordate la battaglia di Filippi?»

Cesare richiamò rapidamente alla mente i propri ricordi storici. Lo sorprendeva come quell’uomo, il grande Leonardo da Vinci, del tutto privo di studi regolari, sanza lettere , come amava ritrarsi, fosse poi in grado grazie alla sua memoria prodigiosa di utilizzare anche meglio dei dotti l’enorme bagaglio di conoscenze di cui si era dotato in anni di studi disordinati. «Filippi? Che cosa volete dire?»

«La battaglia, contro i traditori di Cesare.»

«Lo so», rispose piccato il duca. «Ma non capisco cosa...»

«Prima dell’assalto, Ottaviano ordinò ai suoi legionari di mirare al volto dei loro avversari. Perché sapeva che quei nobili patrizi, tutti dei damerini, avrebbero temuto più una ferita al viso di qualsiasi altra cosa. Lo racconta Tacito.»

«Ma io non ho di fronte armate di patrizi romani. Più spesso condotte di scaltriti mercenari.»

«Gli uomini sono sempre gli stessi. Ogni volta che mi guardo intorno in cerca di un modello per i miei dipinti, non faccio altro che trovare facce già viste, consumate dai secoli.»

«È per questo che dipingete soprattutto angeli? Sembra che ve ne portiate uno sempre con voi, dentro la testa.»

L’altro distolse lo sguardo per un attimo, rabbuiandosi di colpo. Sembrava commosso. «Forse è proprio come voi dite. Ma non è di angeli che stiamo trattando. Avete segnato la posizione di ogni ferita sul corpo?» chiese poi, stringendosi nelle spalle e scuotendo i folti capelli.

Di nuovo Cesare notò la strana femminilità di quella mossa. Poi lo sguardo gli cadde sulla testa caduta a pochi passi da loro, ancora avvolta dall’elmo. Ma nell’urto la celata si era sollevata, e dalla feritoia traspariva lo sguardo vitreo del morto, ancora con gli occhi spalancati sull’orrore. Arrivò quasi a sfiorare l’elmo con la mano, ma all’ultimo si fermò, trattenuto da un impulso superstizioso. Non era bene fissare negli occhi un morto da poco, anche un traditore giustiziato. I morti vogliono compagnia. «Maestro Leonardo, c’era bisogno di questo scempio? Potevate saggiare le falci su una corazza vuota, la prova avrebbe avuto lo stesso valore.»

L’altro lo fissò per un attimo negli occhi, prima di rispondere. «Vi ingannate, duca. Una corazza vuota, o magari piena di paglia o di segatura, non avrebbe avuto la stessa consistenza. Né la stessa rigidità. Non avrei potuto ben valutare il comportamento delle ossa e la resistenza delle masse muscolari. Colpita dalle falci avrebbe reagito in misura diversa, falsando tutta l’esattezza delle mie osservazioni.»

«Ma per la gloria di Dio!» replicò Cesare sorridendo. «Avreste potuto metterci dentro un animale, se volevate godervi lo schianto delle ossa! Uno dei verri di cui son ricche queste terre.»

L’artista si strinse nelle spalle, mentre una smorfia di disgusto gli alterava i tratti. Poi il viso si distese in un sorriso. «L’arte della guerra è davvero più adatta ai cinghiali che agli uomini, è vero! È soltanto una bestialità immonda. Ma dal giorno in cui ho deciso di pormi al vostro servizio, come vostro architetto militare, volevo presentarvi qualcosa. Ho armi da fuoco a ripetizione, e carri che resistono alle bombarde, e ponti che si gettano da soli, quello che avete visto non è nemmeno l’ombra di quello che ho sepolto nella mente! Ma credo che questo genere di artifizi colpisca di più la vostra immaginazione.»

«Altre macchine da guerra?»

«Sì... questo mio ritrovato è tremendo alla vista, ma dubito che sarebbe realmente efficace su un campo di battaglia. Sto lavorando a qualcosa di ben più straordinario di questo strumento di macelleria. Un organo da fuoco che spazzerà con le sue trenta bocche ogni formazione in campo. Nemmeno i fanti schierati nell’ordine svizzero potranno nulla contro di esso.»

«Ma allora... perché darvi tanto da fare con questa stravaganza e spendere così il mio tempo?» replicò Cesare contrariato.

«Urbino è pieno di spie che scrutano attentamente ogni mia mossa. Anche di questo che avete visto son certo che si fa già relazione, presso i vostri nemici. Non crederete che la mia presenza non abbia scatenato più di una gelosia. Ho pensato che fosse utile qualcosa che li disorientasse. Uno schermo.»

«Uno... schermo?»

«Già, uno schermo. Proprio come un poeta che forse conoscete, Dante Alighieri. Finse di amare una donna e se ne fece schermo alla sua passione per un’altra, Beatrice.»

«E quella macchina infernale sarebbe la vostra donna dello schermo?» esclamò il duca, divertito. Continuava a fissare l’artista, sempre più intrigato dall’aspetto angelico del suo volto. Di colpo ricordò una voce che correva per Firenze, di chi aveva visto in piazza della Signoria il giovane Leonardo intento a disegnare senza alcuna remora i corpi straziati degli attentatori, appesi alle finestre di palazzo Vecchio dopo il fallimento della loro congiura contro i Medici. Impassibile, di marmo come appariva adesso.

Senza passioni? Ma allora come riusciva a imprimere nelle sue figure quell’impronta di un’incredibile spiritualità, come se davvero avesse la capacità di infondere un soffio divino alla materia e chiamare alla vita un insieme confuso di grumi di colore, come Dio aveva animato dei semplici grumi di terra?

Forse la spiegazione risiedeva in qualcosa che lo riportava al tempo in cui lo aveva conosciuto per la prima volta a Milano. «Il paradiso!» esclamò, schioccando le dita. «E gli addobbi per le feste meravigliose di cui si raccontava ancora!»

«Voi ricordate qualcosa che non mi fa troppo onore», replicò Leonardo stringendosi nelle spalle. «Costruii quella ruota celeste di legno dorato e tele colorate e lanterne per il diletto del Moro e della sua corte, visto che mi era impedito di offrire cose più alte. Perché tornate a quelle miserie, frutto soltanto della necessità di riempire il mio tempo, reso deserto dall’incomprensione dei miei padroni?» seguitò in tono amaro.

«Maestro, perché vi fate torto? Credo invece che radice della vostra grandezza sia proprio questa sorta di sbrigliata fantasia, quasi un’allegra assenza di limiti, che vi spinge a cercare nella stravaganza il regno perduto della fanciullezza. Essa deve aver lasciato un vuoto nella vostra vita, un vuoto che non si colma.» Un’ombra era apparsa di colpo sul suo volto, una piega amara sulle labbra. Con uno scatto nervoso tornò subito al suo atteggiamento, quasi volesse nascondere qualcosa che era sul punto di manifestarsi.

«Cosa che capita a molti», rispose pacato l’artista, cui non era sfuggito il rapido mutamento d’umore del condottiero. «Quando si è privati dell’affetto della madre, e il padre non è guida attenta, ma solo il custode distaccato dei nostri primi anni. E altri fratelli, seppur minori, ci sono preferiti nelle cure e nelle robe. E nell’amore.»

Cesare chinò il capo. «Conosco questa condizione», mormorò distogliendo per un attimo lo sguardo.

«Lo so bene», replicò Leonardo, fissandolo negli occhi.

«Attento, maestro. È pericoloso immergersi in acque scure.»

«Conosco anche questo. E poche cose sono oscure come l’animo di chi si avvia alla conquista di un regno.»

Borgia annuì. «Ricordo ancora quel passo di Plutarco, che ci lesse il nostro precettore. Un uomo da nulla, che nemmeno intendeva il peso di quello che come una scimmia si limitava a ripetere.»

«Cosa vi riferì?»

«Un tempo un potente re chiese a un poeta: ’Cosa posso donarti di tutto quello che possiedo?’ E l’uomo rispose: ’Tutto, mio signore, tranne il vostro segreto’.»