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24 luglio 1501,
nei pressi di Capua

I rappresentanti della città che venivano a trattare la resa erano stati fatti passare ad arte attraverso il campo degli assedianti, in modo da essere intimoriti dalla potenza del nemico che avevano davanti.

Un lungo percorso, prima di raggiungere il padiglione del comandante dell’esercito. Lungo il quale avevano avuto modo di scorgere la marea di uomini pronti a dare l’ultimo assalto: migliaia di lance francesi e spagnole, e poi altrettante migliaia di irregolari arruolati nella condotta lungo la discesa verso il napoletano, e poi migliaia di mori scacciati da Granada e arruolati sotto i vessilli del re di Castiglia, e poi bande organizzate di ladri e grassatori con il loro seguito di biscazzieri e puttane.

I delegati avevano seguito il percorso con gli occhi bassi e le teste infossate tra le spalle, come se temessero a ogni momento un colpo sulla nuca d’una delle tante picche e spade che guizzavano nelle mani degli assedianti.

Solo il loro capo, Fabrizio Colonna, procedeva eretto e senza apparente timore, forte del suo nome e della sua fama di condottiero.

«Vi aspettavo», esordì l’uomo assiso su uno scranno al centro del padiglione. «Vi rendo omaggio, nobile Colonna.» Cesare Borgia accennò ad alzarsi appena dalla sua posizione e indicò un secondo sedile posto davanti a sé.

Fabrizio Colonna si sedette a sua volta, mentre gli altri si allineavano in piedi alle sue spalle. «Sono qui per trattare la resa delle città.»

«Questa decisione vi fa onore. Né getta ombra sulla vostra gloria. Non v’è senso a combattere quando l’esito della giornata è già deciso», mormorò il duca, da sotto la maschera di velluto che gli nascondeva il volto.

«Così ha voluto la sorte delle armi», replicò Colonna. «Grande è la sproporzione tra la vostra truppa chiamata ad attaccare e quella ai miei ordini destinata a difendere.»

«Vedo che siete ben informato dello stato delle cose.»

«Eppure, Valentino, se fossi responsabile solo di me e dei miei uomini, non avrei esitato ad affrontarvi in campo aperto, pur con tutta la vostra supremazia di truppa», disse inaspettato Colonna.

Cesare parve accogliere con cortese indifferenza quella osservazione del suo nemico. Solo un impercettibile scatto della mano, quasi un moto verso l’impugnatura della spada che gli cingeva il fianco. Ma subito trattenuto, e coperto da un sorriso di circostanza. «Sembrate molto sicuro di voi e dei vostri.»

«Re Federico, per sua grazia, mi ha messo però a capo e a difesa di una città intera. Abitata non da guerrieri, ma da pacifici cittadini, e donne, e vecchi, e infanti. Sono certo che approverà la mia resa, che salva tante vite del suo regno.»

«Federico è uomo di nobili sentimenti», mormorò Cesare. «Benedetto da Dio con il dono di una famiglia esemplare. Impreziosita dalla bellissima figlia Carlotta, vera gemma della sua corona. Avete notizie della fanciulla?»

«Sposa felice in terra di Francia, or è un anno.»

Cesare Borgia distolse lo sguardo. Un silenzio pesante scese di colpo nel padiglione.

Il tempo passava senza che nessuno riprendesse la parola. Gli inviati della città si scambiavano occhiate imbarazzate, incerti sul da farsi. Fabrizio Colonna continuava invece ad osservare imperturbabile il duca Valentino. Finalmente Cesare risollevò il capo, incontrando lo sguardo fermo del condottiero. Poteva intuire quello che passava nella mente dell’altro: la sua profferta d’amore alla principessa era ben nota in tutte le corti, come il rifiuto umiliante che ella vi aveva opposto.

«Proposi le nozze con sua figlia a re Federico», disse lentamente. «Ma la mia richiesta non trovò accoglienza.»

«La donna, come le fortezze, a volte mostra una capacità di resistere del tutto inattesa. Non dovete adombrarvi d’un rifiuto di donna, la loro natura è volubile come alito di vento.»

«La donna certo. Ma i padri dovrebbero essere più accorti e misurati nel secondare il rifiuto, in special modo se sovrani», replicò pacato Cesare.

«Spero che questa amara circostanza non incida sulla nostra trattativa», disse Colonna.

«Naturalmente. Siamo uomini e gente d’arme. Noi non misuriamo il dare e l’avere con il metro del sentimento, ma con la bilancia di ferro», lo rassicurò Cesare. «E poi, come potrei io essere ingeneroso verso il buon re Federico, che le mie stesse mani hanno incoronato quando ero cardinale?»

«Cosa proponete dunque?»

«Nulla più che ripagarmi delle spese della condotta, e di che offrire un premio ragionevole ai miei uomini.»

«Che si computa in quale somma?»

«Direi che quarantamila ducati d’oro porrebbero fine a ogni disputa.»

Un mormorio indignato animò gli uomini allineati alle spalle, con più di una debole protesta.

«Quarantamila ducati d’oro?» ripeté Fabrizio Colonna. «Tanto varrebbe bruciarla, se dovete lasciare la città talmente impoverita dal vostro passaggio. Scipione fu più clemente con Cartagine!»

«Credetemi, Colonna, è il minimo che possa accettare, per trattenere le mie milizie. Salverete le case, le donne, le robe. La città è popolosa, ricca di tesori. In breve ricostituirà la sua grandezza. Quattro anni or sono vi fui in visita pastorale, e me ne resi ben conto.»

«Da pastore sembrate mutato in lupo», reagì Fabrizio Colonna, voltandosi verso gli altri delegati, intenti a confabulare animatamente tra di loro. Dopo qualche istante uno di loro si staccò dal gruppo e si accostò al suo orecchio, mormorando qualcosa.

«Quello che chiedete equivale a più di quattrocento libbre d’oro. Come possono i cittadini metterne insieme tanto in breve tempo? C’è bisogno di liquidare possessi, attendere l’arrivo di merci...»

«Avete tempo fino a domani a mezzodì. I miei uomini scalpitano, deve essere distribuito il soldo se volete evitare che mettano a sacco la città», replicò inflessibile Cesare.

I delegati tornarono a consultarsi, più d’uno con le mani nei capelli. Voci concitate uscivano dal gruppo, come se non vi fosse accordo e fosse in corso una disputa. Solo Fabrizio Colonna aveva mantenuto la calma. Squadrava Cesare con uno sguardo severo, fissandolo negli occhi con intensità, come se cercasse di penetrare oltre la barriera delle pupille per leggergli direttamente nell’animo.

In quel mentre uno dei delegati era tornato ad accostarsi. «Pagheremo il richiesto», dichiarò con voce tremante. «Ma vogliamo garanzia che non vi saranno rivalse sul popolo e la città.»

«Avete la mia parola. Appena versato il riscatto, i miei uomini riprenderanno la marcia verso Napoli. Resterà solo un presidio, per assicurare il rispetto della volontà di re Luigi.»

«Come avverrà il pagamento?» chiese Fabrizio Colonna.

«Domani a mezzogiorno un drappello dei miei uomini si appresserà alla porta Tifatina, che dovrà essere aperta, come pure le altre, in segno di fiducia. Anche la guardia alle mura dovrà essere rimossa. Io stesso guiderò gli armati, e nella piazza dei Giudici raccoglierò la vostra offerta.»

Fabrizio Colonna aveva ascoltato senza apparenti reazioni. Gli occhi dei delegati si volsero verso di lui, in attesa del suo giudizio. Lentamente il condottiero tese la destra verso Cesare. «Dicono che siate un uomo pericoloso. Ma che abbiate senso dell’onore. Spero che abbiate ben chiaro il peso di un giuramento verso il nemico vinto. Esso non è garantito dalla forza di chi lo riceve, ma solo da quella di chi lo pronuncia. Spero che la vostra coscienza sia forte.»

Cesare tese a sua volta la mano, limitandosi a un cenno di assenso.

Le ore successive trascorsero nella città immersa in un’attività frenetica. Tutte le vie, tutte le piazze, le chiese, le case erano attraversate da uomini incaricati dal governatore di raccogliere la cifra richiesta. Le corporazioni avevano ognuna una meta da raggiungere, in ragione dei membri che ne facevano parte, e anche ogni parrocchia era stata chiamata a contribuire. Faticosamente il piatto della grande stadera sistemata nel palazzo di Città saliva verso l’equilibrio, a mano a mano che nuove once d’oro venivano aggiunte.

Un continuo via vai durante tutta la notte, e poi alle prime luci dell’alba, e quindi mentre il sole saliva alto verso il mezzo cielo. I suoi raggi stavano ormai arroventando i tetti e il selciato delle vie, ma il peso non era stato ancora raggiunto.

Il piatto era quasi livellato con il contrappeso, ma mancava ancora un grado. In quella fece il suo ingresso l’arcivescovo della città, vestito dei suoi paramenti da cerimonia. Si avvicinò alla bilancia e poi con un gesto plateale si sfilò dall’indice il grosso anello vescovile e lo depose sul piatto. Oscillando questo salì ancora, tra le grida di giubilo e di liberazione dei presenti, mentre in lontananza la squilla delle buccine e il rullare dei tamburi annunciavano l’ingresso del Valentino.

I rappresentanti della città raccolsero le monete d’oro e gli oggetti preziosi in un ampio telo di lino, poi afferratone ognuna delle quattro cocche i maggiorenti scesero lentamente le scale verso l’uscita sulla piazza.

Intanto dall’altra parte dello slargo, dalla bocca della via che conduceva alla porta Tifatina, giungeva sempre più forte il suono marziale degli armati in avvicinamento.

Una nube di polvere, trasportata da una folata di vento arido, uscì dalla strada, seguita da un branco di cani randagi che si dispersero spaventati da chi premeva dietro di loro. E poi comparve un uomo a cavallo, seguito da una compagnia di picchieri allineati in riga di quattro.

Cesare Borgia avanzò fino al centro della piazza, prima di dare un tratto di redini, il volto nascosto dietro la maschera di velluto nero. Con uno strappo alle redini fece inarcare il cavallo, come se cercasse di esser visto anche negli angoli più lontani, poi le zampe anteriori della bestia ricaddero pesantemente al suolo.

Quasi fosse stato un segnale convenuto, a quello schiocco i tamburini che aprivano la colonna al suo seguito presero a rullare con un ritmo frenetico, mentre allo stesso tempo dal palazzo uscivano i maggiorenti con il loro prezioso carico.

Avanzarono in silenzio fino a pochi passi dal Valentino, sotto gli sguardi attoniti della cittadinanza che assisteva, assiepata lungo il perimetro della piazza. Quindi distesero la tela davanti al condottiero. Non più trattenuta nella conca di lino, la massa dorata si allargò in terra infiammata dalla vampa del sole a mezzogiorno.

Cesare chinò appena la testa verso il bagliore, poi fece un cenno. Dalla colonna uscirono di corsa un gruppo di uomini guidati da Miguel, che si affrettarono a raccogliere il tesoro e a tornare nei ranghi da cui erano usciti.

«Avete avuto quello che chiedevate», disse Fabrizio Colonna. «Ora mi aspetto che teniate fede all’accordo, e liberiate la città dal gravame dell’assedio.»

Cesare annuì cerimoniosamente, portandosi la mano alla celata dell’elmo, ma senza accennare a sollevare la maschera di velluto nero che gli nascondeva il volto.

«Prima della vostra partenza, gradirei poter vedere in volto colui che può vantare la gloria della mia sconfitta», disse ancora Colonna, in tono severo.

«Vorrei, ma purtroppo il male che mi travaglia trae forza dalla luce solare. Proteggermi dalla sua vampa è il solo modo per lenirne i danni», rispose lentamente Cesare Borgia.

Colonna stava per replicare, quando la sua attenzione fu attratta da un’improvvisa agitazione tra la folla, fino a quel momento silenziosa. Un uomo trafelato si era fatto strada attraverso la gente ammassata e stava correndo verso di lui. Quando l’ebbe raggiunto gli si accostò all’orecchio, riferendo concitato qualcosa.

Il condottiero ascoltò attento, mentre una smorfia di disappunto andava stampandosi sempre più marcata sul suo volto. Poi di scatto tornò a rivolgersi al Borgia, alto sopra di lui.

«Vostri uomini stanno entrando dalle altre porte della città! Non era questo il patto!»

«Questa città è talmente bella e ricca di richiami, che mi parve delitto privare i miei uomini del piacere di osservarla più da vicino, almeno per un giorno», rispose Cesare.

«Non era questo il patto!» gridò ancora Fabrizio Colonna.

Imperturbabile Cesare Borgia sollevò in alto lo scettro che fino a quel momento aveva tenuto accostato al fianco, una bacchetta di metallo dorato. A quel gesto le prime righe della colonna di archibugieri balzarono in avanti, circondandolo con un muro di lame. Poi gli altri si allargarono a semicerchio, puntando verso i lati della piazza.

La folla prese a sbandarsi tra grida di terrore e pianti di donne, in un moto convulso in cui ognuno cercava scampo rifugiandosi nelle poche porte aperte o correndo verso le vie che dalla piazza conducevano verso i diversi quartieri di Capua.

Ma anche da quelle proveniva un vociare confuso di gente in movimento, su tutto un grido che si ripeteva sempre più forte: «I mori!»

«Che avete fatto, maledetto!» gridò Colonna mentre arretrava verso il palazzo di Città, incalzato dai picchieri. «Avete scatenato quei cani contro dei cristiani!»

«Assicuratevi che Colonna e i maggiorenti restino chiusi nel palazzo», disse Cesare, chinandosi di sella verso Miguel, che lo aveva affiancato. «Che a loro non sia torto un capello. Per il resto conosci i miei ordini: che la truppa abbia tre giorni di sacco, e che questo pareggi il soldo della condotta.»

«Ne saranno soddisfatti? Non prendono paga da mesi, e credo che si aspettino...»

«Conosco bene la città», lo interruppe Cesare. «Le case dei ricchi mercanti sono colme di ricchezze, e il tesoro dell’Arcivescovato rivaleggia con quello di Roma. Saranno soddisfatti. Ma bada che le cose più preziose delle chiese non spariscano, quelle le voglio avviate a Roma quanto prima. E che siano tre giorni e non oltre. Non voglio che il cattolico re Luigi abbia a ricevere rimostranze, specie adesso che è alleato di mio padre.»

«Sarà così. Ma quanto alle donne, sarà difficile tenerli a freno, soprattutto i mori...»

«Lasciateli fare», rispose il Valentino con un’alzata di spalle. «Anche alle peggiori bestie si lascia un momento di libertà, prima che scendano nell’arena. Facciamo così con i tori, in Spagna, prima della corrida, perché muoiano più contenti. E ne avranno di occasioni per morire i nostri mori, prima che il disegno sia compiuto.»

Intanto dalle altre porte della città una fiumana di uomini armati stava dilagando per le vie. Come un’onda di piena si accavallavano gli uni sugli altri, ansiosi di arrivare per tempo al bottino che era stato annunciato dagli ufficiali. E già le prime risse si stavano accendendo per la sete di una casa, il possesso di una collana o di un anello, il furto di una coppa o un crocefisso di metallo prezioso.

I difensori della città, alcune migliaia di uomini disorientati dalla trattativa e privi di un comando efficace, tentavano qua e là di organizzare una resistenza, ma venivano via via sopraffatti dall’orda infuriata che li circondava da tutte le parti.

Alcuni palazzi di proprietari più ricchi, quelli in grado di avere una piccola milizia privata, resistevano con i difensori asserragliati dietro le mura. Dalle finestre piovevano colpi di archibugio, ma già si levava il fumo dei primi incendi accesi per costringerli uno dopo l’altro alla resa.

Cesare Borgia aveva seguito l’inizio del sacco dalla sua posizione in piazza dei Mercanti. Ma poi, assicuratosi che il riscatto pagato fosse ormai al sicuro nel suo accampamento, si era inoltrato con la scorta in uno dei vicoli, procedendo cautamente verso i quartieri dove erano in corso i combattimenti.

La strada che aveva imboccato mostrava netti i segni della razzia che era in corso. In alcuni degli edifici le finestre erano ridotte a vuote occhiaie, da cui uscivano volute di fumo nero, sulle porte di altri si intravedevano uomini carichi di bottino, o erano in corso scontri sanguinosi tra abitanti e assalitori. Dappertutto cadaveri di uomini e donne giacevano in terra dove erano stati aggrediti, o stretti tra di loro dove avevano tentato una qualche resistenza.

Rumori e grida di uno scontro più violento giungevano dalla parte della cattedrale. Un gruppo numeroso di cittadini aveva cercato scampo, sperando nella protezione della croce. Con loro anche diversi membri delle milizie del comune, che con le armi cercavano di tenere a distanza gli assalitori.

Intorno alla costruzione centinaia di nordafricani si assiepavano incalzandosi l’un l’altro, premendo picche e arieti di fortuna contro il portale della chiesa, e sui lati erigendo piramidi umane per poter raggiungere il livello delle finestre sulla muraglia.

Non v’era traccia delle altre milizie mercenarie, che intanto stavano depredando il resto della città. Forse per rispetto della religione, o più probabilmente per il superstizioso terrore di incorrere in un sacrilegio che poi avrebbe attirato la mala sorte, nessuno delle milizie francesi o spagnole si era aggregato all’impresa.

Ma poiché il portale, costruito in solida quercia, pareva resistere, qualcuno dei saraceni aveva tratto da una delle stalle cittadine alcune coppie di buoi e le aveva spinte con urla e colpi di frusta fino alla piazza.

Lì con i cordami rapinati da una bottega avevano costruito un traino improvvisato. Attorte le corde agli angoli del portale, decine di uomini si accanivano sulle bestie, percuotendole a sangue perché queste lo strappassero via.

Gli animali sbuffando e contorcendosi sotto i colpi tiravano senza coordinamento e in direzioni diverse, tanto che il portale scricchiolava ma resisteva al suo posto. Dentro, i rifugiati ascoltavano con terrore le grida in una lingua incomprensibile e i muggiti delle bestie, un coro demoniaco che lasciava intendere come l’inferno stesso si fosse spalancato sul sagrato della cattedrale.

Un picchiere trafelato e coperto di polvere si avvicinò al condottiero, che continuava ad avanzare per la via devastata. Era un sergente di una piccola compagnia toscana, che si era unita alla spedizione sul confine del regno di Napoli.

L’uomo accennò a un inchino, poi prese fiato. Sembrava imbarazzato, incerto su come esprimersi. «Duca, dovete intervenire!» disse finalmente d’un fiato. «Alla cattedrale, i mori si apprestano a una strage. Non potete permettere che sangue cristiano sia fatto scorrere per il trionfo di quei cani!»

Cesare Borgia volse lo sguardo nella direzione che l’altro gli indicava. La cattedrale era celata alla vista dalle costruzioni della via. Solo il campanile si scorgeva contro lo sfondo del cielo e le nuvole di fumo degli incendi sempre più numerosi, ma il clamore e le grida che giungevano da quella parte sembravano confermare l’allarme. «Cosa vuoi che faccia? Non posso impedire ai miei uomini di ottenere la giusta ricompensa alla loro fedeltà e ai loro sforzi.»

«I vostri uomini?» replicò indignato il sergente. «Non sono uomini vostri né nostri, ma bestie scappate dall’inferno! Il re di Spagna non li ha voluti come sudditi e nemmeno come servi, e li ha spediti a bruciare il mondo cristiano. Dovete fermarli!»

«Credo che sia tardi», replicò il duca, stringendosi nelle spalle. «Ma se è vero quello che dici, a cose fatte cadrà qualche testa e giustizia sarà fatta. Non ho certo ordinato alcuna violenza verso le popolazioni.»

«Ma state lasciando che avvenga!» reagì esasperato l’uomo, di fronte alla palese indifferenza del Borgia.

«Ti ho detto che è troppo tardi per fermarli», ripeté freddamente Cesare, dando di sprone e superando l’uomo esterrefatto. Questi provò a trattenere il cavallo aggrappandosi ai finimenti, ma un calcio di Cesare lo fece desistere.

«Firenze sarà avvertita di questa vostra infamia!» sentì risuonargli dietro.

Cesare si volse con aria blanda verso l’uomo che tendeva il pugno verso di lui. «Firenze e Toscana tutta avrà presto occasione di dirmi cosa si pensa di me.»

Miguel, che lo aveva seguito fin lì, spiccò qualche passo di corsa per tornare a fianco del destriero. «Duca, forse è imprudente sfidare la forza di Firenze», sussurrò, volgendo anche lui lo sguardo all’uomo restato indietro a braccio levato. «È città cristiana, di maledetti mercanti ma sempre servi del piviale. Una strage di cristiani desterebbe scandalo e ignominia, se associata al vostro nome. E poi l’alleanza con essa non è nelle mire del padre vostro?»

«In quelle del vecchio bastardo, ma non nelle mie. Fissata la capitale del regno mio in Bologna, da lì discenderò verso l’Arno, a mostrare a quei gaglioffi cosa significa avere di nuovo un Cesare in Italia! Non li temo di certo, specialmente ora che il Medici è scomparso e hanno proclamato la repubblica. Lorenzo era l’unico con un’oncia di cervello tra tutti loro, ora sono guidati da una schiera di bottegai incanagliti. Pensa che mi hanno inviato uno scribacchino come ambasciatore, quel Niccolò, un altro cacasenno.»

«Sì, duca, ma...»

«E poi chi riporterà a Firenze l’accaduto? Vedi forse qualcuno qui intorno, che possa farlo? Qualcuno che non sia già morto, in qualche scontro con i napoletani?» disse ancora Cesare, in tono allusivo.

«Capisco... sarà fatto», assentì Miguel, accennando col capo nella direzione in cui si era allontanato il sergente. «Comandate altro?»

«Sì. Ordina alla nostra compagnia di raggiungere il retro della cattedrale, e di schierarsi lì, in attesa di nuovi ordini.»

Sotto il tiro disperato dei buoi frustati a sangue, il portale emise uno scricchiolio lugubre, poi con uno schianto cedette definitivamente con le due grandi ante che scivolarono lungo la scalinata fino ad arrestarsi nel mezzo della piazza.

All’interno i rifugiati avevano avuto il tempo di bloccare in qualche modo l’accesso con le panche e gli altri arredi della chiesa, e rintuzzavano con coraggio eroico i primi che da fuori cercavano di penetrare dentro sormontando gli ostacoli.

Ma il cedimento del portale aveva spinto su per la scalinata una massa scomposta di uomini, incitati dalla speranza di poter mettere le mani sul tesoro della cattedrale, di cui si favoleggiava da tempo tra le tende degli assedianti.

Con la forza della disperazione, gli assediati avevano trascinato verso l’entrata anche la pesante lastra di marmo che sormontava l’altare, ma anche quella non aveva offerto a lungo un riparo dalla furia degli assalitori. Prima scheggiata dalle salve degli archibugi e poi attaccata a colpi di mazza, si era spaccata in due parti e ora i frammenti stavano scivolando a terra aprendo un varco all’assalto.

I superstiti delle forze del comune si erano allineati per un’ultima difesa dietro la barricata improvvisata con le panche. Molti di loro avevano raccolto lì le loro famiglie, e dietro di loro donne e bambini terrorizzati piangevano torcendosi le braccia per la disperazione. Gli uomini mostravano una certa dimestichezza con le armi: senza che nessuno li guidasse per la scomparsa della linea di comando, potevano confidare solo sull’esperienza individuale che ognuno di loro aveva accumulato in anni di milizia.

Avevano organizzato due linee, la prima con gli archibugi già innestati nelle forcelle di sostegno e la seconda pronta con le micce accese. Dietro ancora di loro erano state ammucchiate le poche munizioni che erano state recuperate dalle caserme prima dell’invasione, e a qualcuna delle donne meno preda del panico era stato affidato il compito di provvedere alla ricarica delle armi.

In quella la barricata cedette con uno schianto, e nel varco del portale apparvero una dozzina di mori armati delle loro tipiche lame ricurve.

Una salva di fucileria li abbatté al suolo, ma subito i vuoti furono riempiti da altri assalitori, che ripresero a farsi avanti come forsennati. Gli archibugi della seconda fila crepitarono a loro volta, riempiendo la navata di un’acre nuvola di fumo biancastro, mentre gli uomini inginocchiati cercavano disperatamente di ricaricare le armi aiutati dalle donne che passavano loro i cartocci con la polvere. Il resto degli uomini validi, fino ai ragazzi appena in grado di reggere un’arma, si ammassavano sui lati, con in pugno ogni oggetto di fortuna che avessero potuto trovare. Candelabri, crocefissi e aste di gonfaloni, perfino gli ex voto di legno o metallo erano stati strappati dalla muraglia per servire alla difesa.

Al di là della nube si vedevano le ombre confuse degli assalitori. Poi, come se un velo si lacerasse di colpo, dalla nube spuntarono decine di corpi che si accalcavano gli uni sugli altri come la spuma di una marea nel tentativo di farsi avanti. Una nuova scarica di fucileria li accolse, ad opera di quanti avevano fatto in tempo a ricaricare l’arma.

I colpi avevano aperto nuovamente dei vuoti, ma quella volta l’assalto era incontenibile. Rendendosi conto che non vi sarebbe stato il tempo per una seconda scarica, gli archibugieri avevano impugnato le loro armi per la canna e le mulinavano come clave contro gli assalitori, cercando di rintuzzare i colpi delle scimitarre.

Anche i ragazzi e le donne combattevano con tutte le loro forze, ma venivano sopraffatti uno dopo l’altro, tra il pianto dei bambini e i gemiti di feriti e moribondi. Come una marea inarrestabile, l’orda degli assalitori dilagava per tutta la navata, inseguendo i sopravvissuti fin negli angoli o nei ripari improvvisati dei confessionali.

E poi di colpo un silenzio irreale cadde sotto l’alta volta. Con le armi ancora grondanti sangue, i saraceni avevano preso ad aggirarsi intorno come attoniti, in cerca di un nemico che non esisteva più. Improvvisamente la furia cieca che aveva imperversato fino a pochi attimi prima sembrava spenta, come se i cani dell’inferno fossero precipitati di nuovo nelle loro spelonche. Gli uomini apparivano stanchi, incerti sul da farsi, come delusi di una vittoria che sembrava non aver più significato.

Ma in quella un grido richiamò l’attenzione. Decine e decine di teste si risollevarono di colpo, improvvisamente tese come per una nuova battaglia. Uno degli uomini aveva scoperto la porta laterale, seminascosta da un tendaggio, che introduceva alla sacrestia e agli altri ambienti interni.

Subito anche quelli che avevano cominciato a strappare collane e diademi dai cadaveri e dalle statue interruppero la loro azione per gettarsi dietro ai primi che erano spariti al di là, in cerca del favoloso tesoro che si diceva fosse custodito nella cattedrale.

Solo un paio di sacerdoti terrorizzati restavano a sbarrare loro il cammino, subito abbattuti senza pietà. L’orda percorse un breve corridoio fino a una nuova porta sbarrata. Anche questa attaccata con furia subito cedette.

Gli assalitori si gettarono oltre la soglia, per arrestarsi subito sbalorditi di fronte alla selva di picche che si ergeva davanti a sbarrare l’avanzata. Un muro d’acciaio, in grado di resistere anche a una carica di cavalleria pesante, e del tutto invalicabile da uomini armati alla leggera come quelli che lo fronteggiavano.

«Dì loro nella tua lingua che non v’è nulla da rapinare qui, e che siano contenti di ciò che troveranno nelle abitazioni. Il tesoro è un possesso della Santa Chiesa e non può essere toccato», disse Cesare Borgia, in piedi in mezzo alla compagnia di picchieri. Accanto a lui un uomo dal volto scuro e dall’inconfondibile abbigliamento dei mercenari saraceni giunti dalla Spagna chinò il capo in segno d’assenso, per subito pronunciare ad alta voce alcune frasi in arabo.

Dalla folla dei saraceni si levarono subito una salva di esclamazioni, incomprensibili ma dal chiaro significato. Rabbia e delusione, insoddisfazione e rivolta, questo si intuiva come risposta.

«Dì loro ancora che se non ubbidiranno i loro capi saranno passati per le armi, e i rimanenti consegnati come schiavi al re di Napoli, perché ne tragga vendetta per le devastazioni che hanno inferto a una città cristiana innocente.»

Il moro tradusse, e di nuovo dalla massa si sollevarono proteste e invettive. Ma questa volta il loro tenore sembrava molto meno vivo. Il terrore di una fine terribile si stava facendo strada in quelle menti ancora ottenebrate dal sangue, a fronte della possibilità di continuare invece il saccheggio da un’altra parte. Né ravvedevano la possibilità di aver ragione di quell’ordinato reparto che si opponeva loro, un intero Tercio spagnolo con la sua terribile fama di invincibilità.

A poco a poco l’indecisione aveva preso a serpeggiare tra di loro, alimentandosi degli sguardi incerti e dei mormorii che correvano dall’uno all’altro. Poi a poco a poco la prima fila cominciò a voltarsi verso l’uscita, mentre anche quelli dietro di loro prendevano a rinculare verso la navata coperta di cadaveri.

Cesare Borgia aveva seguito le loro mosse con il suo solito atteggiamento imperturbabile. Ma, quando fu certo che i suoi ordini sarebbero stati eseguiti, non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo.

«Tutto è stato fatto come richiesto», disse Miguel, comparso silenziosamente al suo fianco. «Che ne devo fare?»

«Fa’ che la cassa giunga a Roma, al mio palazzo. E non perderla di vista un solo istante, tu e soltanto tu. Nessuno sappia nulla della sua fine. Tieni per te qualche gemma.»

Miguel chinò il capo in segno di ringraziamento.

«Ma non essere avido e non esagerare. Il resto mi servirà per rafforzare le artiglierie. Quando avrò realizzato il mio disegno, avrai cento volte quello cui rinunci ora. Ma è essenziale che nessuno sappia quello che è accaduto. Il tesoro della chiesa di Capua è scomparso nei torbidi che hanno seguito la caduta della città. Un tragico evento.»

«Molto tragico, duca.» Il valenziano si immobilizzò, poi si batté la mano sulla fronte come se fosse stato colto da un’idea improvvisa. «Poi, quando procederete ai nuovi arruolamenti e all’acquisto dei nuovi cannoni, si penserà che sia fatto con l’oro magico dell’orientale, come mi avete fatto dire in giro!» esclamò con una luce maliziosa negli occhi.

«Ti avevo detto che quell’uomo ci sarebbe servito, da morto più che da vivo.»