Una borsa di studio alla Fondazione Longhi è già una sorta di riconoscimento per l’occhio esordiente. Stando agli italiani, la conoscenza visiva è un sapere di cui loro sono gli unici a possedere la chiave. Una chiave che con grande generosità trasmettono a pochi eletti, convinti che nessuno a parte loro sia in grado di formare l’occhio. Questo non significa che la scuola di Longhi sia una realtà blindata: al contrario, si sforza di far intrecciare ai suoi allievi relazioni in tutto il mondo e offre ai suoi ospiti internazionali la leggendaria accoglienza degli italiani. Uscito di lì, anch’io potevo dedicarmi a fare ricerca e a pubblicare come tutti i longhiani.
L’occhio che punta a farsi conoscere conta su due parole chiave: “scoperta” e “pubblicazione”. È grazie agli apporti offerti dal suo sguardo e dalla sua sensibilità personale che potrà guadagnarsi il rispetto dei colleghi e farsi un nome. Per riuscirci, però, deve sforzarsi di mantenere una linea di pubblicazione coerente ed evitare di compromettersi con il mercato dell’arte. Non importa quanto sia sicuro di sé: una manciata di articoli sconnessi basterà a tacciarlo come uno studioso più affamato di visibilità che di conoscenza, e questo è il migliore preludio a qualche errore grossolano. Ampliare progressivamente il proprio bagaglio di competenze e guadagnare autorevolezza nel corso degli anni è la strada più consigliabile, ma non è sempre facile. A differenza dei normali ricercatori, infatti, l’occhio non si confronta solo con i suoi colleghi, ma anche con il mondo dei collezionisti, dei mercanti e con gli eredi di grandi patrimoni. Se nell’ambiente intellettuale degli studiosi è considerato una bestia rara, i collezionisti, gli eredi e i mercanti pendono dalle sue labbra e non possono fare a meno del suo parere. Sta a lui giudicare le opere da cui dipendono il loro prestigio e la loro fortuna, e spesso l’ammirazione di queste persone può apparirgli più inebriante del rispetto della comunità scientifica. Benché la prospettiva di esercitare un simile potere sia seducente, l’occhio deve stare attento a non bruciarsi le ali. Il riconoscimento accademico, per quanto austero, è l’unica garanzia della sua integrità. Se il credito di cui godiamo dipendesse solo dalla buona opinione che il mercato ha di noi, verremmo sospettati di agire per interesse, tanto più all’inizio, quando abbiamo forti possibilità di sbagliarci, anche se in buona fede. L’esempio di Longhi, Zeri e Mina Gregori può affascinare, ma un occhio alle prime armi non può illudersi di dispensare pareri come facevano loro, spaziando dal XIII al XX secolo. Limitare il campo non preserva dagli errori, ma se dobbiamo commetterne – e può sempre capitare – è meglio farlo in un ambito in cui siamo al di fuori di ogni sospetto e nel settore in cui iniziamo a farci riconoscere.
All’epoca delle mie indagini sui ritratti, scoprii alcuni petits maîtres a cui volevo dedicare una serie di articoli mirati. Il vero occhio si appassiona a questioni che interessano solo gli specialisti: è questo che prova il suo amore per il mestiere. Se l’attribuzione di un’opera a un grande artista può sempre destare sospetti sui suoi reali interessi, è solo l’amore per la conoscenza a spingerlo a stilare la lista delle opere di un Jacopino del Conte, di uno Jacone o di un Giovanni Stradano.
Ma torniamo a villa Longhi. La responsabile delle nostre sedute di attribuzione era Letizia Strocchi, detta Titi, con la quale avevo sviluppato un rapporto di grande complicità. Quando mi propose di aiutarla a organizzare un convegno su Andrea del Sarto nel 1986, anno del quinto centenario dalla sua nascita, accettai volentieri. Il mondo della ricerca vive sul filo di queste ricorrenze: oltre che un felice momento di scambio fra specialisti dello stesso ambito, i convegni sono un’occasione formidabile per farci notare grazie ai nostri interventi. Andrea del Sarto fu il grande divulgatore della rivoluzione pittorica operata a Firenze da Leonardo, Raffaello e Michelangelo sul finire del XV secolo: una rivoluzione destinata a segnare il passaggio nella pittura italiana da un’immagine piatta – la cui espressione più sublime si trova nella Nascita di Venere di Sandro Botticelli – a un’immagine costruita, più vera che in natura. Leonardo da Vinci inventò l’atmosfera, la vita: circondando gli oggetti di sottili sfumature d’ombra, fece coincidere la loro immagine con il modo in cui venivano percepiti, al contrario di quanto era accaduto fino ad allora con le rappresentazioni in prospettiva, che rivelavano sempre un elemento esteriore, artificiale o meccanico, e non riuscivano a infondere la vita nelle figure.
Andrea del Sarto si appropriò di quella rivoluzione in un modo squisitamente fiorentino. Davanti a una qualsiasi delle sue tele, l’occhio riconosce subito un pennello fiorentino, e ciò per diverse ragioni. La prima è senza dubbio il tratto, i contorni che caratterizzano il disegnatore d’eccezione, vero marchio di fabbrica dell’arte fiorentina. La seconda sono i colori, che hanno sempre un che di acido; le carni sono crude, i corpi avvolti da una certa freddezza: una distanza sublime che, pur senza urtare il gusto classico, preannuncia già il tratto caratteristico e più affascinante dei suoi successori, i manieristi. Per uno studioso del Cinquecento fiorentino, insomma, Andrea del Sarto è un punto di riferimento imprescindibile. È nella sua bottega che ha avuto luogo l’invenzione della scuola fiorentina. Quel convegno fu il pretesto per la mia ultima ricerca a quattro mani con Anne Fabre, nella quale ci occupammo degli allievi di Andrea del Sarto passati sotto silenzio e che grazie al nostro studio sui ritratti avevamo imparato a conoscere bene. Servendoci del gruppo degli “eccentrici fiorentini” riesumati grazie alle pubblicazioni di Federico Zeri, esponemmo la nostra visione delle opere di Foschi, Jacopino del Conte e Jacone, i tre allievi minori più interessanti di Andrea del Sarto, mentre gli storici dell’arte più conosciuti si dedicavano a dissertare sui capolavori del maestro incontrastato del classicismo fiorentino.
Stando a Vasari, Jacone amava più le taverne delle botteghe. Molti dei suoi disegni, del resto, sono imbrattati di chiazze di vino. A volte si lasciava andare al punto da fare una vita da barbone. Un giorno che Vasari tornava a Firenze a cavallo in alta tenuta da cortigiano, lo trovò accasciato contro il muro di Porta Romana, gli abiti sbrindellati e lo sguardo offuscato dall’alcol. «Meglio vivere alla filosofica che vestire di velluto!» lo punzecchiò Jacone. Pur essendo un architetto e un disegnatore ineccepibile, Vasari, lo sanno tutti, non brillava affatto come pittore. Di Jacone invece si possono biasimare, come fece Vasari, le Madonne bizzarre e i bambini dalle pose acrobatiche con il volto contratto in smorfie. Personalmente, sono sempre stato rapito dal loro fascino. Come se non bastasse, e su questo non c’è alcun dubbio, Jacone era anche un grandissimo disegnatore. Quanto a Pier Francesco di Jacopo Foschi, alla morte del maestro prese a lavorare nella bottega di Pontormo, dove incrociò Bronzino e subì sistematicamente l’influsso degli artisti che lo circondavano. Le sue opere, che dovrebbero costituire un vero rompicapo a giudicare dalla quantità di influenze che recepiscono, in realtà sono facili da riconoscere, specie grazie al modellato dei volti, alla forma delle mani e alle pieghe dei panneggi: sono i vantaggi del buon vecchio metodo morelliano! Rispetto agli allievi più celebri di Andrea del Sarto (Jacopo da Pontormo, Rosso Fiorentino, Francesco Salviati), i nostri pittori erano stati del tutto dimenticati, tranne che da Zeri. A Jacopino del Conte, che era quello che conosceva meglio, Zeri dedicò svariate pubblicazioni. La sua opera era stata a lungo mal interpretata, forse perché, a differenza di quella di Foschi, non poteva nemmeno venire ricondotta direttamente a una scuola. Originario dell’Italia centrale, Jacopino si divise tutta la vita tra Firenze e Roma. Il suo successo all’epoca fu tale che lavorò per tutti i papi susseguitisi fra il 1530 e il 1598. Vasari ne parla come di un ritrattista impareggiabile e già nel 1568 precisa che, a partire da papa Paolo III Farnese, realizzò i ritratti di tutti i pontefici, oltre che di un gran numero di vescovi e cardinali e di parecchi ambasciatori e nobiluomini di passaggio dal regno pontificio. Ritrattista di grandi famiglie romane come i Colonna e gli Orsini, nonché di letterati, gentiluomini e dame di qualità residenti a Roma, Jacopino realizzava anche commesse per i fiorentini riparati nella capitale pontificia durante il catastrofico regno di Alessandro de’ Medici. Zeri fu l’unico a rimettere ordine in un corpus fino ad allora del tutto oscuro. Cercando di arricchire quelle ricerche indagando soprattutto sui ritratti che in vita gli avevano procurato una fama prodigiosa, Anne e io proponemmo una nuova selezione di dipinti da attribuirgli, e l’immagine che si aveva del suo stile ne uscì trasformata.
Il giorno della conferenza la sala era piena di gente. La recente scomparsa della vedova di Roberto Longhi ci aveva dato di nuovo accesso al soggiorno della villa, che lei aveva gelosamente sottratto agli sguardi di tutti. Il pubblico, accomodatosi alla bell’e meglio, ascoltava con attenzione gli interventi, mentre Federico Zeri discuteva animatamente con un invitato nella sala da pranzo, separata dal soggiorno da una porta a vetri. Quando fu il nostro turno, Zeri aprì la porta e si appostò all’ingresso del salone in piedi, a braccia conserte, nonostante la stazza e gli attacchi di gotta che dovevano affaticargli le gambe. Non solo si trattava di un tema che conosceva meglio di chiunque altro, ma anche di un’occasione per metterci alla prova e vedere se avevamo capito la lezione impartitaci durante la visita a Mentana. Venutoci incontro alla fine della presentazione, si dichiarò d’accordo su quasi tutti i punti che avevamo sollevato ma non risparmiò le critiche su una Madonna conservata al Musée des Beaux-Arts di Nancy, che noi pensavamo di poter attribuire a Jacopino del Conte. Lui aveva avuto l’opera sotto gli occhi e lo escludeva categoricamente: corrispondeva, è vero, allo stile dell’artista, ma rivelava un’esecuzione troppo “molle” per provenire dalla sua mano. Naturalmente aveva ragione. Per dovere di cronaca, devo però aggiungere che non sono ancora riuscito a trovare il misterioso allievo che l’ha eseguita.
Essere colti in fallo non è mai piacevole. Ciò nonostante, sono grato a Zeri per averlo fatto di persona e non essersi limitato ad alzare le spalle in segno di disappunto. Di solito è questo che ci si limita a fare, di fronte a un’affermazione incoerente. A pensarci bene, però, non c’è niente di peggio dell’indifferenza. Per questo, quando ci fanno una critica, dovremmo vederla come un segno di considerazione e ringraziare chi si prende la briga di discuterne. Zeri aveva ragione. Come spesso accade ai giovani, ci eravamo lasciati prendere dall’entusiasmo: non avremmo mai dovuto pronunciarci su quel dipinto senza averlo sottoposto a un esame diretto. Nondimeno, le sue obiezioni erano un’attestazione di riconoscimento nei confronti del nostro lavoro. A partire dalla fine degli anni ottanta, in parte grazie a noi, gli studi sui petits maîtres fiorentini conobbero uno sviluppo colossale e sono ancora lungi dall’essersi conclusi. Un terreno sul quale, con un po’ di cautela, potranno cimentarsi i nuovi talenti di domani.
L’anno in cui partecipai al convegno su Andrea del Sarto diedi alle stampe il mio terzo articolo, in cui facevo il punto sulle opere di gioventù di Alessandro Allori a cui avevo lavorato alla Fondazione Longhi in compagnia di Simona Lecchini Giovannoni, una simpatica professoressa dell’università di Firenze. Era la ricerca che aveva spinto Zeri a darmi del pazzo. Nondimeno, quell’articolo segnò uno spartiacque. Un aneddoto aiuterà a chiarire quanto fosse necessaria una messa a punto in quell’ambito. Presso la Galleria degli Uffizi è conservato il ritratto di una giovane donna con un cammeo in mano. La modella è raffigurata in piedi davanti a una poltrona ornata di figurine tratte dalle opere di Michelangelo e recante sul bracciolo l’iscrizione “A Roma, 1559”; sul tavolo, accanto alla modella, è posata una miniatura della statua della Vita contemplativa scolpita sulla tomba di papa Giulio II, una delle opere più importanti dell’artista. Il dipinto era stato attribuito a Bronzino, sebbene fosse dimostrato che quell’anno il pittore non si trovava a Roma. Le fonti, in compenso, ci dicono che Alessandro Allori vi si era recato per dipingere i ritratti della famiglia Montauto – banchiere fiorentino che gestiva a Roma gli affari di Michelangelo –, e più in particolare quello di Ortensia de’ Bardi da Montauto. Non occorreva un occhio particolarmente esperto per identificare il personaggio del ritratto e l’autore che lo aveva eseguito. Tuttavia, i miei predecessori erano così ossessionati dall’idea di ricondurre l’ignoto al noto, e l’importanza di Bronzino aveva a tal punto eclissato quella del suo entourage, che nessuno si era sentito in dovere di tenere conto della preziosa iscrizione. A questo proposito va detto che la confusione in cui versava la prima produzione di Allori si doveva in parte all’incapacità degli specialisti di spiegare il passaggio dal suo stile di gioventù, influenzato dalla bottega di Bronzino, a quello delle opere realizzate alla fine della sua carriera. Contrariamente a una tipologia di artisti riconoscibili in ogni fase della loro attività, Allori non dipinse gli stessi quadri per tutta la vita e si allontanò rapidamente dallo stile del maestro. Il mio studio esordiva sottolineando i tratti che distinguevano la produzione di Allori da quella di Bronzino, giovinezza inclusa. Successivamente passavo a dimostrare la grande permeabilità di Allori rispetto al suo ambiente. Quando Cosimo de’ Medici, all’apice del suo regno, reclamò la presenza dei fiamminghi in alcuni dei cantieri che aveva avviato, Allori assorbì alcune peculiarità del loro tocco, facendo propria la tecnica della pittura su rame e dotando il proprio pennello di un tratto molto più fine. Al termine della sua vita, invece, i suoi dipinti furono influenzati dai veneziani e dalla pittura del Nord Italia, assumendo il tocco morbido e sfumato tipico della generazione che gli sarebbe succeduta alla fine del secolo. I risultati delle mie indagini confluirono in un articolo che riassumeva i ritratti citati nelle fonti contemporanee ad Allori. Alcune delle mie conclusioni hanno finito per apparire così evidenti che i giovani ricercatori di oggi le danno spesso e volentieri per scontate. A molti potrà sembrare frustrante, ma non a me: il fatto che gli storici dell’arte attingano alle mie scoperte senza nemmeno citarle costituisce la prova migliore del mio successo. Una ricerca può dirsi davvero compiuta quando le sue conclusioni vengono riprese da tutti con assoluta naturalezza.
Nel corso di quella lunga indagine scoprii altri artisti fiorentini dell’epoca di Allori a cui avrei dedicato le mie pubblicazioni successive. Fra loro c’erano Carlo Portelli e Giovanni Stradano, due pittori della cerchia di Vasari impiegati alla corte di Cosimo de’ Medici per realizzare le decorazioni del nuovo Palazzo Vecchio. Stradano, che vantava origini fiamminghe, fu uno dei più brillanti collaboratori di Vasari. Ciò nonostante, molti suoi dipinti erano stati erroneamente attribuiti al Pontormo o al suo contemporaneo Alessandro Allori. Un malinteso che era possibile rettificare: se il cognome fiammingo Stradanus era stato italianizzato, la sua pittura, al contrario, recava in modo indelebile l’impronta delle sue origini nordiche. Tutto cominciò quando incappai in un ritratto conservato nel museo del Vassar College, a Poughkeepsie, una di quelle piccole realtà universitarie americane sprofondate nel verde che si giovano delle donazioni e dei lasciti degli ex allievi. Il dipinto mostrava un uomo ancora giovane, raffigurato in piedi in abito nero; si trattava di un membro della famiglia Capponi, clan di ricchi borghesi cortigiani appartenente allo stesso ambiente dei Panciatichi. Il nome dell’uomo, Niccolò, compariva insieme alla sua data di morte (1579) sul memento mori, un orologio posato sul tavolo accanto a lui. Il dipinto rivelava una parentela innegabile con la pittura di Allori: vista la sua prodigiosa fama di ritrattista, era del tutto comprensibile che fosse stato attribuito a lui. Più lo studiavo nei dettagli, però, più mi appariva evidente quel peculiare modo di segnare i tratti dei personaggi che caratterizza gli artisti nordici e che fa di loro dei ritrattisti altrettanto apprezzati. Successivamente, a Princeton, decisi di analizzare un dipinto conservato presso i fondi dell’università. Il ritratto, realizzato vent’anni prima rispetto al precedente, raffigurava un altro membro della famiglia Capponi, Luigi, seduto in poltrona contro uno sfondo grigio, vestito anch’egli di nero e con una leggera barba secondo la moda dell’epoca. Guardandolo mi accorsi che le due opere rivelavano analogie stilistiche sconcertanti. Curiosamente, però, il secondo ritratto veniva attribuito a Jacopo da Pontormo. Dopo qualche ricerca, fui in grado di risalire alla causa di quella straordinaria somiglianza. Luigi era niente meno che il padre di Niccolò; dopo che una malattia gli aveva portato via il figlio, si era rivolto allo stesso artista che lo aveva immortalato anni prima commissionandogli un ritratto postumo dell’erede scomparso. A due decenni di distanza, l’immagine del primo, dipinto dal vero, riaffiorava in quella del secondo, finemente ricostruita con gli strumenti dell’immaginazione e grazie a un modello di riferimento. Nonostante il persistere di una chiara impronta naturalistica da un ritratto all’altro, quello di Niccolò rivelava una natura molto più eterea, legata all’evoluzione verso lo sfumato che caratterizza in parte la produzione tardiva di Allori e l’arte fiorentina dell’epoca. Decisi di dedicare un articolo al tema, che apparve poi su Paragone. Il confronto fra le due opere non lasciava dubbi sull’identità dell’autore, e spinse a riconoscere come erronee le attribuzioni al Pontormo e all’Allori. Stradano dipingeva con il tocco naturalistico della sua regione d’origine, invecchiando i volti che Bronzino, Allori o Pontormo tendevano invece a ringiovanire. Fu così, grazie al susseguirsi di quelle pubblicazioni meno sistematiche ma più puntuali, che riuscii ad affermarmi come occhio attendibile sul Cinquecento fiorentino.
Per molto tempo mi confrontai con i giganti solo in modo indiretto. A determinare quella scelta fu, credo, soprattutto il mio amore per le scoperte, ma anche un timore reverenziale nei confronti di geni come Pontormo, Andrea del Sarto o Bronzino. Quella modestia aveva un che di sano. Lo studio dei minori mi ha costretto a sviluppare uno sguardo originale sul mio secolo d’elezione, ed è stato proprio quello sguardo che più avanti mi ha permesso di vedere sotto una nuova luce la produzione dei grandi. Ignorare il loro contesto, per quanto marginale, induce ad affrontare questi ultimi come figure a sé, avulse dal tempo e dal loro ambiente: una visione seducente, che spesso però porta a giudizi probabilmente erronei. Bisogna saper giudicare un genio alla luce dei suoi contemporanei. È questa la grande lezione che gli italiani hanno colto e che li spinge ad avventurarsi consapevolmente nelle regioni più oscure della storia dell’arte. Contrariamente alla Francia, dove il culto dei classici ci condanna perlopiù a ripetere il responso dei grandi specialisti e a parafrasarne gli studi senza saperli argomentare, in Italia i professori spingono gli studenti a scrivere tesi sugli artisti dei luoghi da cui provengono, facendoli entrare in contatto con il ricchissimo bagaglio di conoscenze che da sempre circonda i petits maîtres. All’università di Bologna, uno studente di storia originario di Carpi si vedrà assegnare una tesi che lo costringe a misurarsi con gli archivi e le chiese della sua città, dando vita a un’indagine esaustiva e a un repertorio fotografico utili a tutta la comunità scientifica. Grazie a questo sistema, studenti e professori non smettono mai di formarsi. È il principio che sta dietro a uno strumento di lavoro formidabile come la Guida rossa, che da un’edizione all’altra viene aggiornata di continuo grazie ai contributi e alle precisazioni dei giovani ricercatori, cosa che ci permette di capire perché l’Italia ospiti i migliori occhi del mondo. Non si sa mai abbastanza sui petits maîtres: se non li conosciamo saremo sempre tentati, come è spesso accaduto, di ricondurre le loro opere agli artisti più noti. Con questo non intendo dire che ci si debba limitare per tutta la vita allo studio dei minori, ma che la curiosità per le produzioni trascurate dal mercato e dalla storia dell’arte ufficiale va sempre alimentata.
Il 1989 segnò un’altra tappa importante nella mia carriera di storico. Tre anni dopo aver discusso la tesi sui ritratti, Roberto Contini, che avevo conosciuto a villa Longhi, mi chiese se fossi disposto a redigere il catalogo ragionato dell’opera pittorica di Jacopo da Pontormo, il maestro di Bronzino. Fu la mia prima vera occasione di misurarmi con un mostro sacro. Nel 1994, la casa editrice italiana per cui lavorava Contini aveva intenzione di pubblicare una monografia per il quinto centenario dalla nascita di quel grande genio riscoperto solo nel XX secolo. Accettare l’incarico significava entrare di diritto nella tradizione dei cataloghi ragionati, inaugurata da Johann David Passavant con la sua opera su Raffaello. I cataloghi ragionati giocano un ruolo importantissimo nella visione complessiva della vita e dell’opera di un artista, perché offrono l’occasione di fare una serie di precisazioni importanti. È per questo, forse, che i migliori cataloghi sono quelli scritti da specialisti dotati di occhio. Rispetto agli articoli che compaiono sulle riviste specializzate, la stesura di quei lavori richiede uno sforzo più ampio e mette maggiormente in gioco l’autorità di chi li scrive. Bisogna essere pronti a considerare i fatti senza pregiudizi, ma anche avere voglia di fare nuove scoperte. Un’inclinazione che ho sempre avuto e che caratterizza ogni occhio autentico, ma che può anche spingere a commettere errori; del resto, chi non si azzarda a gettare uno sguardo nuovo sul proprio artista si espone al rischio ancora peggiore di perpetuare gli errori del passato. Roberto Contini ne era consapevole, e fu forse per questo che si rivolse a me. Da parte mia, la conoscenza approfondita dei ritrattisti e gli studi sull’opera di gioventù di Allori e sui petits maîtres coevi a Pontormo mi indussero a raccogliere la sfida.
Jacopo Carucci detto Pontormo nacque nel 1494 a Pontorme, un piccolo villaggio della Toscana oggi inglobato a quartiere della cittadina di Empoli, e morì a Firenze all’età di sessantadue anni. Benché fosse uno degli artisti più celebri del suo tempo, la sua figura sprofondò in un lungo oblio per essere riscoperta solo agli inizi del XX secolo. La sua rinascita si deve a Frederick Mortimer Clapp, uno storico dell’arte americano che all’epoca si dedicava a comporre poesie di stampo postsimbolista dal tono elegiaco e disperato. Fu probabilmente il suo amore per le figure maledette a fargli trascurare altri artisti dal destino glorioso per riesumare quel genio incompreso della tradizione fiorentina. Il racconto che ci ha lasciato del suo primo incontro con l’artista è condensato in una pagina che qualsiasi storico dell’arte che abbia studiato Pontormo sognerebbe di avere scritto:
Quando una mattina presto, qualche anno fa, entrai nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, non immaginavo di dare inizio a una missione che da allora occupa tutto il mio tempo libero. Era autunno e avevo pensato – mi pare di ricordare – che in una giornata così luminosa sarebbe stato possibile vedere una pala d’altare che avevo spesso scrutato invano nell’oscurità della cappella Capponi. Non mi sbagliavo. La luce, scendendo obliquamente dalle finestre superiori della navata, cadeva perfino negli angoli più bui e, nel fugace splendore, per la prima volta potei realmente vedere la Deposizione di Pontormo.
Fu un momento d’inattesa rivelazione. Con stupore e diletto, studiai il quadro e mi resi conto non solo della sua bellezza ma anche della cecità con cui avevo accettato il pregiudizio di coloro che vedono in Andrea del Sarto l’ultimo grande artista fiorentino e in tutti i suoi più giovani contemporanei dei semplici e superficiali, ancorché abili, eclettici, la cui produzione si riassume negli affreschi di Palazzo Vecchio.
Avevo scoperto Pontormo. Poco a poco, mi feci strada attraverso l’oblio in cui era caduto e divenne per me una persona viva. Ero attratto dal suo solitario distacco, dal suo disdegno per il patronaggio e la passione con cui perseguiva la visione di una forma espressiva più creativa e più individuale di quanto potesse forse essergli possibile con le arti grafiche.*
Queste poche righe e lo studio a cui hanno dato vita fanno di Clapp lo “scopritore” moderno di Pontormo. Dopo secoli di negligenza, è stato necessario che uno studioso gli consacrasse la propria vita perché l’opera di quel grande artista potesse riemergere e arrivare fino a noi. La pala che emozionò tanto il suo primo grande ammiratore fu realizzata fra il 1525 e il 1528 a margine di tutti gli itinerari segnalati nei Baedeker, più precisamente nella cappella in cui un membro della famiglia Capponi aveva deciso di farsi seppellire, all’interno della chiesa di Santa Felicita a Firenze. Il dipinto, raffigurante una Pietà, si staglia su un fondo azzurro velato di tenebra. Un gruppo di donne con il capo coperto piange la morte del Cristo, mentre Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, giovani uomini dai boccoli biondi, ne sorreggono il corpo senza distogliere lo sguardo dallo spettatore. L’atteggiamento prostrato di Nicodemo, come la bocca semiaperta di Giuseppe, comunicano un turbamento assoluto. Il pittore, che ha raffigurato se stesso sullo sfondo del dipinto, scocca uno sguardo disperato al pubblico anonimo della scena, mentre un angelo si china a guardarla con tenerezza. Un drappo di un verde tenero giace sgualcito al suolo, evocando un prato e il giardino dei Getsemani, mentre la Vergine, sul punto di svenire mentre il corpo del figlio sta per esserle deposto sulle ginocchia, distoglie l’attenzione delle compagne dalla figura di Cristo con Maria Maddalena che si precipita ad asciugarle le lacrime. I volti hanno un’espressione languida e sensuale che, sommata all’acidità dei colori (rosa acceso, azzurro cielo, oro, verde tenero), conferisce all’insieme un tocco irreale e fa del dipinto una lamentazione pregna di teatralità estatica.
Lo sguardo di Mortimer Clapp, che si lasciò affascinare da quell’immagine, segnò una rottura con i canoni storiografici stabiliti dai lettori di Vasari e di Lanzi, abituati a pensare che Andrea del Sarto fosse l’ultimo grande artista fiorentino. Nel XIX secolo, lo storico svizzero Jacob Burckhardt era ricorso perfino a un’espressione del Vasari, trasformando la “maniera nuova” con cui l’artista italiano aveva indicato la moda pittorica del XVI secolo in una tendenza artistica decadente, un “manierismo”, appunto: un anatema che a partire da allora il pubblico borghese e puritano avrebbe scagliato su quei pittori e che sarebbe stato destinato a protrarsi nel tempo, riducendo per circa quarant’anni il ritrovamento di Clapp a una passione privata. Solo negli anni cinquanta la riscoperta del diario tenuto dal pittore fra il gennaio del 1554 e l’ottobre del 1556 – quando era ormai vecchio e dipingeva il suo ultimo capolavoro, gli affreschi della basilica di San Lorenzo – lo riportò improvvisamente dalla morte alla vita e dall’oblio alla gloria, facendo di lui un simbolo. Più che la pittura, però, a giocare un ruolo determinante in quel rovesciamento repentino fu una questione di scatologia. Di salute estremamente cagionevole, il povero Jacopo da Pontormo aveva registrato per circa due anni gli effetti delle nuove abitudini alimentari sui suoi escrementi. Il Diario era stato dato alle stampe in versione integrale dallo stesso Frederick Mortimer Clapp, ma fu solo dopo la guerra che alcuni spiriti insigni come Carlo Emilio Gadda o Pier Paolo Pasolini se ne impossessarono, leggendovi una sorta di testamento rivolto a tutti gli uomini del XX secolo, prostrati dalle esperienze del fascismo, dei campi di concentramento e dall’umiliazione estrema della carne. Grazie a loro e a quel nuovo breviario della modernità, nel giro di qualche anno il suo autore finì per essere elevato a icona della cultura pop. A New York, per esempio, posso testimoniare di aver pranzato in un ristorante di SOHO con le pareti tappezzate di ingrandimenti del suo Diario e nelle quali il pittore veniva raffigurato sotto i tratti di un lavoratore immigrato. Il tutto, in un posto chiamato Il Mezzogiorno, doveva rappresentare agli occhi del proprietario uno scherzo di ottimo gusto, anche se non sarei pronto a scommettere sull’effetto che le sue pietanze avrebbero avuto sullo stomaco cagionevole del nostro povero artista. Da Clapp a me, grazie a quel rovesciamento di fortuna, Pontormo si vide elevare dal rango di paria decadente a quello di artista più quotato di tutte le epoche passate, con lo smisurato boom di attribuzioni che un evento del genere suscita inevitabilmente.
Al di là degli entusiasmi scatenati dalla moda del momento, dunque, Pontormo deve molto ai neorealisti italiani. Del resto che cosa è peggio, veder riscoprire un grande artista sotto una luce temporaneamente deformante o lasciare sepolto per sempre nell’oblio il suo innegabile talento? In alcuni casi, fra l’altro, il Neorealismo ha offerto di Pontormo una lettura intelligente e raffinata. Ne è un esempio La ricotta, il mediometraggio del 1963 in cui Pasolini si confronta con il leggendario episodio della passione di Cristo e con la sua interpretazione pittorica, trasponendo in un tableau vivant la Pietà che aveva tanto sconvolto Clapp. La teatralità dell’immagine di Pontormo, che Pasolini considera un’espressione dell’animo rurale e contadino del popolo italiano e del suo disagio di fronte al rispetto che il sacro dovrebbe suscitare, è all’origine di una sequenza spassosa nella quale i due personaggi che reggono il corpo di Cristo, lasciando sbadatamente cadere il loro prezioso fardello, scatenano uno scoppio di risa mentre una voce fuori campo grida con tono beffardo: «Che peccato! Che peccato!». Per quanto parziale, questa visione della pittura di Pontormo riesce a esprimerne la natura sconcertante e ad aprire le porte al profano. Grazie all’entusiasmo suscitato dalla diffusione del suo Diario, nel 1956 ebbe luogo la prima mostra consacrata all’artista, alla quale più tardi ne sarebbero seguite altre. Per l’occasione, molti suoi dipinti lasciarono le collezioni in cui erano stati confinati; si trattava perlopiù di collezioni appartenenti all’aristocrazia fiorentina, all’epoca poco studiate e sempre ricche di sorprese. In un certo senso, dunque, il mio ruolo di “catalogatore” fu dettato dalle circostanze: poiché il corpus che gli veniva attribuito era diventato un groviglio incomprensibile, bisognava proporre una visione oggettiva dell’artista, affiancare all’entusiasmo suscitato dalla sua riscoperta estetica un rigoroso approccio scientifico, fare di quella nebulosa di dipinti legati al nome di Pontormo una costellazione chiara. E bisognava mostrare che, al di là delle proiezioni cui la sua pittura poteva dare adito, Pontormo era anzitutto un uomo del suo tempo, un artista impegnato nella difesa della fiorentinità e nelle questioni religiose sollevate in quegli anni: dimostrare, insomma, che la sua sensibilità estetica e intellettuale rifletteva le inquietudini della città e del secolo in cui era vissuto.
Il mio lavoro consistette dunque nel portare in primo piano il Pontormo che bisognava riscoprire. Rispetto agli affreschi della basilica di San Lorenzo, contraltare fiorentino del ciclo del Giudizio universale realizzato da Michelangelo nella Cappella Sistina, dimostrai come il proliferare di quell’umanità nuda e inturbantata che si accalca in adorazione del Salvatore andasse letta, più che come un’esaltazione dell’animo rurale del popolo italiano, come l’illustrazione di un nuovo programma di adorazione del Cristo, incentrato sulla soppressione degli intermediari che separavano Dio dagli uomini. Ne troviamo espressione nel Beneficio di Cristo, il libro di teologia ispirato da Valdés e noto ai Panciatichi, di cui possedeva una copia anche il maggiordomo e consigliere più intimo di Cosimo de’ Medici. Per il progetto di riforma del cattolicesimo italiano si tratta di un’opera altrettanto importante di quanto potevano esserlo state le tesi di Lutero per gli scismatici tedeschi. Vasari scrisse la vita del Pontormo dopo il concilio di Trento, nel 1568; proprio nel momento in cui avevano inizio la Controriforma e la lotta contro le idee riformate. Egli sapeva perfettamente che quegli affreschi erano eterodossi. Li definì strani, sebbene esprimessero lo stesso tipo di pensiero veicolato dal ciclo dipinto diversi anni prima in Vaticano da Michelangelo e di cui, all’epoca, si tendevano a mascherare i tratti scandalosi. Se Vasari non si dilungò sul loro significato intellettuale, fu perché non voleva attirare su quel capolavoro le folgori della censura. Gli affreschi, che Pontormo lasciò incompiuti e che il suo allievo Bronzino fu incaricato di portare a termine, andarono distrutti nel XVIII secolo per la bigotteria degli ultimi esponenti della famiglia Medici. Se alcuni disegni preparatori ci lasciano ipotizzare il risultato finale, la loro immagine si è persa per sempre nella storia. Solo un pittore come Michelangelo, le cui opere traboccano di audacie simili, poteva attraversare quasi indenne il trascorrere del tempo. Pontormo morì con l’illusione di vedere trionfare le sue idee riformiste e pagò a caro prezzo l’impegno intellettuale che si era assunto. È un punto importante, che ci permette di capire come il rifiuto della sua opera sia stato legato in primo luogo alle sue scelte politiche, successivamente camuffate sotto presunte audacie estetiche ed etichettate in modo sprezzante come “manieriste”. Per spiegare la natura bizzarra della pittura di Pontormo sottolineai l’influenza esercitata sulla sua arte dalla produzione di Dürer, essendo proprio la Germania il paese che incarnava un’alternativa al cattolicesimo praticato in Italia. Essendo riusciti a cogliere questo orientamento gotico della pittura di Pontormo, Clapp o Musset si erano avvicinati di più alla verità dei neorealisti italiani, che tendevano invece a negare l’influenza del maestro di Norimberga per via della sua impronta accademica. L’esclamazione di Cesario, il seguace di Pontormo nell’Andrea del Sarto di Alfred de Musset, esprime con esattezza il significato della sua evoluzione: «Viva il gotico! Se le arti muoiono, l’antichità non ringiovanirà nulla. Trallallà! Ci vuole del nuovo».
Contrariamente a quanto fece con Bronzino, Vasari documentò molto bene la vita di Pontormo. Da essa deduciamo chiaramente che molte delle sue opere non ci sono mai pervenute. Se a ciò aggiungiamo che l’abbondante corpus di disegni ci offre un’idea abbastanza precisa di come dovessero essere quei dipinti, non sarà difficile capire le forti aspettative di riesumare qualche nuovo capolavoro. Per redigere il mio catalogo, dunque, dovetti viaggiare molto ed esaminare tutti i presunti dipinti autografi da ricollegare alla produzione documentata. Quelli che non ebbi modo di vedere di persona furono scartati per precauzione dall’elenco delle opere accreditate.
In alcuni casi quella scelta si rivelò un errore, ma viste le somme di denaro in gioco ritenni più prudente agire così. Estremamente preziosa, in questo senso, fu la figura di Janet Cox-Rearick, storica dell’arte americana che nel 1964 aveva dato alle stampe un catalogo ragionato dei disegni di Pontormo e reso possibile un aggiornamento delle scelte operate da Mortimer Clapp nel 1914, epoca dalla quale il metodo di attribuzione dei disegni si era molto evoluto. Janet Cox-Rearick era una delle ultime rappresentanti della connoisseurship americana: formatasi alla scuola di Sydney Freedberg, era famosa per l’intransigenza con cui esercitava il suo ruolo di “Madame Pontormo” nella cerchia ristretta degli storici dell’arte. Non senza qualche smorfia, i miei amici ricercatori mi dissero che sarei dovuto scendere a patti con lei, dato che il tema era di suo esclusivo monopolio e che la signora, oltre a essere avara di informazioni, preferiva di gran lunga lavorare da sola, non esitando a congedare gli scocciatori con maniere oltremodo sdegnose. Rassegnato alla mia sorte, fissai un appuntamento e la incontrai a New York. Tra noi fu amore a prima vista. Nel giro di due minuti tutte le mie ansie erano svanite: quella donna bionda e alta in cui si concentravano gli ideali di bellezza WASP si disse pronta a collaborare con grande entusiasmo e, di lì a poco, mi avrebbe offerto tutto il suo sostegno. Fu durante i lavori di ristrutturazione alla Galleria degli Uffizi: all’improvviso, non avevo più accesso al fondo di disegni e di riproduzioni fotografiche e il mio lavoro rischiava di bloccarsi. Janet mi mise a disposizione tutta la sua fototeca. Grazie a lei riuscii a portare a termine il libro nei tempi previsti. Non smise mai di volermi bene, nemmeno quando osai dimostrare l’autenticità di uno strepitoso disegno conservato al Metropolitan Museum di New York, che lei aveva escluso dal suo brillante studio. Fu grazie alle sue raccomandazioni che, dieci anni più tardi, potei essere ammesso a villa I Tatti e dedicarmi, fra le altre cose, a studiare le opere di Bronzino.
La nuova lettura che avevo proposto dell’evoluzione dello stile di Pontormo mi permise di caratterizzare con precisione le diverse fasi della carriera dell’artista. Il catalogo che diedi alle stampe divenne un punto di riferimento, tanto per la comunità scientifica quanto per il mercato dell’arte. Lentamente, le opere che avevo inserito nel gruppo di quelle già attribuite ma da respingere tornarono a galla, e fu così che mi ritrovai a esaminare molti dipinti che potevano essere stati realizzati dall’artista. Per mia grande sorpresa, alcuni di quelli che avevo scartato si rivelarono autentici: si trattava delle tele che non avevo potuto esaminare di persona, e così mal conservate da risultare irriconoscibili in fotografia. Negli anni trenta, visto che Pontormo non piaceva, i restauratori avevano l’abitudine di ritoccare i suoi quadri nello stile di Bronzino. Al primo sguardo, dunque, era impossibile riconoscere lo stile e il pennello di Pontormo: bisognava avere l’opera sotto gli occhi ed esaminare attentamente le parti ridipinte per capire cosa nascondevano. Quel tragico errore dei restauratori spiega perché molte delle opere che Clapp poteva trovare sublimi si siano ormai ridotte a un pallido ricordo di ciò che erano state. Se le grandi pale d’altare sono rimaste intatte, le opere conservate nelle collezioni sono state rimaneggiate all’eccesso. La storia di un dipinto può mascherarne le caratteristiche: il suo stato di conservazione funziona come uno schermo. Mi è occorso del tempo per capire perché di fronte a certe opere provassi un disagio che non dipendeva da questioni di restauro. È il caso, per esempio, del Ritratto di un liutista, che conoscevo solo dalle riproduzioni. Il dipinto era stato esposto a Firenze nel 1956 e da quel momento non era più stato mostrato pubblicamente. Avevo provato a vederlo, ma invano. Si riteneva fosse appartenuto alla grande collezione fiorentina della nobile famiglia dei Guicciardini, ma non ero riuscito a scovarlo in nessuna delle loro residenze a Firenze o in Toscana. In fotografia, le pennellate ricordavano Pontormo ma avevano un che di caricaturale, di troppo “pontormesco”, che mi aveva indotto a pensare a un’opera del suo collaboratore Jacone. Alla fine, decisi di inserirla nel catalogo ragionato con tutte le riserve del caso. Tre o quattro anni dopo, il dipinto ricomparve sul mio cammino. Era finito in una collezione di Montecarlo e fui contattato dall’intermediario per andare a esaminarlo. Dal vero, provai lo stesso disagio che avevo avvertito in fotografia. La tavola rivelava delle ombre sospette e una matericità strana. Giunsi alla conclusione che fosse stato modificato. Le ombre non si dovevano a Pontormo, ma nemmeno a Jacone. Probabilmente avevamo a che fare con un’opera restaurata fra gli anni cinquanta e sessanta. All’epoca i restauratori trasformavano i Pontormo in Bronzino perché trovavano le opere del primo brutte da guardare. Il quadro era stato ridipinto, rimaneggiato e ritoccato: gli occhi recavano il segno di Bronzino. Poteva darsi che sotto le parti aggiunte in seguito l’opera fosse in buono stato, ma le analisi non rivelavano granché. Esposi al proprietario i rischi di un eventuale restauro, che lui accettò, affidando il compito ai più grandi restauratori di Firenze. Ne venne fuori un Pontormo autentico, simile a quello che avevo immaginato. Le ombre fastidiose erano state rimosse, i contorni dell’occhio avevano ritrovato le pennellate vigorose che caratterizzavano il maestro all’epoca dell’ultima Repubblica fiorentina, tra il 1528 e il 1530; i colori erano più vivi, le pieghe più marcate. Esposta nel 2012 a Hannover, l’opera fu riconosciuta come autentica all’unanimità.
Grazie alla fiducia dimostratami dall’amico della casa editrice milanese, la pubblicazione del catalogo ragionato mi garantì il definitivo riconoscimento in ambiente accademico. Avendo trattato un artista molto ricercato dai collezionisti, la cosa suscitò anche l’interesse del mercato. Di colpo mi ritrovai in una posizione nuova. Per certi versi, si trattava di un’arma a doppio taglio: non solo dovevo imparare a gestire i rapporti con i mercanti, ma passare dallo statuto di outsider a quello di esperto mi costringeva improvvisamente a fornire un parere su qualsiasi quadro mi venisse presentato. Oggi, se dovessi sbagliarmi, sarebbe difficile farlo sapere. È il destino che incombe su tutti gli occhi che, da un giorno all’altro, abbandonano i panni delle giovani promesse per venire ammessi nel club dei Berenson, dei Longhi e degli Zeri. Improvvisamente, abbiamo il diritto di contraddirli. Ma quel privilegio ha un prezzo: da quel momento, la gente non aspetta che di vederci fare un passo falso. È l’inizio di una vita frenetica, che a tratti fa rimpiangere gli spensierati anni giovanili ma che dischiude anche le porte a molte grandi avventure.
* F. Mortimer Clapp, Jacopo Carucci da Pontormo. His Life and Work, Yale University Press, New Haven 1916, cit. in P. Costamagna, Pontormo, Electa, Milano 1994, p. 9.