Tutti si ritrovarono al tramonto sulla bella terrazza, ove cenavano lietamente con molta dovizia di buoni cibi e ottime bevande. Solo Fioralba mangiò poco e in fretta, e pareva voler anticipare la fine del pasto, e cosí aiutò persino le fantesche a togliere le tovaglie. Non lo aveva mai fatto. Tanta era la fretta di udire il seguito della storia.
Finalmente, sorseggiando vino dal suo calice, Galvano riprese a raccontare.
«Poi che fummo rimasti qualche minuto abbagliati da quel fiero chiarore, scendemmo tutti lentamente verso il centro della radura, verso il luogo da cui proveniva quella luce che quasi ci accecava. Ci avvicinammo riparandoci gli occhi con la mano, ma tale era la forza di quel bagliore che io dovetti arrestarmi a qualche passo di distanza e vidi che anche Galaad si fermava. Vedemmo allora che la luce proveniva da un gran fuoco che circondava una roccia. Mentre noi guardavamo attoniti, Perceval avanzò verso il fuoco.
Vidi che allungava una mano per toccarlo, e gridai:
– Attento! Bada che ti bruci!
Ma non mi udí o non mi volle udire. Stese la mano su quella pietra in mezzo alle fiamme, e il fuoco si spense e con lui la gran luce.
Allora mi fu chiaro che quella avventura era riservata a Perceval, solo a lui era consentito non aver paura del fuoco che circondava la pietra e spegnerlo col solo tocco della mano. Galaad si avvicinò a me, e guardammo insieme, muti, il cavaliere che scendeva di cavallo e si avvicinava al masso che prima era circondato dal fuoco. Qualcosa scintillò nel fianco della roccia: era una spada, lunga e bella, la piú bella che avessi mai visto.
Perceval la prese con la destra e senza nessuno sforzo la trasse a sé. Si voltò verso di noi levando alta la sua spada dalla lama lucente, la spada che il destino gli aveva assegnata. Gli corremmo incontro e lo abbracciammo.
E da quel giorno Perceval cambiò carattere. Non era piú il ragazzo allegro e spensierato che tanto mi piaceva, ma divenne serio come se in un attimo fossero passati molti anni della sua vita. Se ne stava spesso appartato a meditare, amava i luoghi isolati e quando trovava una chiesa o una cappella si inginocchiava a pregare. Io non lo riconoscevo piú, e mi sentivo terribilmente solo, soprattutto la sera, quando stanchi di cavalcare, ce ne andavamo al piccolo trotto in cerca di un alloggio per la notte.
Allora eravamo soliti raccontarci le nostre avventure e scacciare cosí la malinconia. Galaad, che era sempre stato silenzioso ed era ancora molto giovane, ascoltava le nostre chiacchiere, e la strada passava sotto gli zoccoli dei cavalli, finché un lume ci rivelava di lontano una capanna, o un castello, dove potevamo trovare ospitalità. Ora cavalcavo con i miei compagni in silenzio, e i pensieri mi si affollavano alla mente e, pensate un po’ amici miei, rischiavo di diventare serio come un filosofo. Finalmente, dopo alcuni giorni di noioso viaggiare sempre verso oriente, le montagne restarono alle nostre spalle, e ci addentrammo in una serie di bei colli dove la foresta lasciava spazio ogni tanto a fiorenti colture di mele. Per fortuna era il tempo in cui cominciavano a maturare, e io consolavo la mia malinconia cogliendo dai rami, senza smontare da cavallo, una mela dopo l’altra, e morsicandola con molto piacere. Ma avevo voglia di chiacchiere, di risate, e soprattutto di avventure.
E una bellissima ci si presentò, quando giungemmo a un castello che sorgeva sulla cima di uno di quei colli. Vi abitava una dama solitaria con la sua corte. Ci ospitò con molta ricchezza, ci offrí uno splendido banchetto di lepri e fagiani e altre carni, e poi tra i discorsi che si fanno a tavola dopo mangiato ci propose un indovinello. Fece portare una bella tavola di pietra sulla quale erano incise queste parole:
“Sine sole sileo”.
– Chi saprà spiegare il senso della scritta, – disse, – potrà scegliere un premio: o una delle fanciulle della mia corte come sposa, o un libro di vite di santi tutto ornato di miniature.
Credo che mi sian brillati gli occhi, perché avevo visto nel seguito della dama molte belle fanciulle, e una mi aveva particolarmente colpito, perché aveva occhi verdi assai luminosi e una lunga treccia color castano che tendeva al biondo. Decisi di risolvere l’indovinello e vincere la gara, per avere in sposa quella bella fanciulla che molto mi piaceva. Cominciai a pensare, scavando con la mente nelle cose studiate da fanciullo, e ogni tanto guardavo i miei compagni che, silenziosi, rivolgevano nel pensiero le parole misteriose. E spiavo l’espressione del loro volto per capire se stavano giungendo alla soluzione o se, come me, navigavano nel buio. Infatti, per quanto facessi lavorare il cervello, non trovavo a quelle parole nessun senso. Eppure volevo vincere la gara, perché la fanciulla dalla treccia castana mi aveva ferito profondamente nel cuore. E mi pareva che anche lei mi guardasse con qualche simpatia. Ma proprio questo, ahimè, mi distraeva, e non riuscivo a fissare il pensiero nelle parole arcane.
A un tratto vidi Perceval alzare il capo, lento e composto, dalla sua meditazione:
– Credo, signora, – disse, – che quelle parole sian dette dallo gnomone di una meridiana.
Lo guardai stupito: di che gnomone parlava? Ma la castellana, tutta sorridente, gli disse:
– Perceval, avete vinto la gara. Quelle parole stanno scritte su una meridiana e voglion dire che lo gnomone non segna l’ora con la sua ombra, e quindi «silet», quando il sole non c’è.
D’un tratto capii il senso di quel latino, che pure avevo tradotto esattamente: “senza sole taccio”; ma non avevo capito a chi si adattasse quella frase.
– Perceval, avete vinto, – dissi senza rancore, ma con molta tristezza nella voce. La bella fanciulla dalla treccia castana non sarebbe stata mia sposa. Ma quale fu la delusione quando l’amico scelse il premio!
– Che cosa scegliete, Perceval, – chiese la castellana, – una delle mie damigelle o questo libro che sta aperto su quel leggio?
Perceval s’alzò e si avvicinò al leggio, sfogliò qualche pagina, e disse:
– Col vostro permesso, signora, scelgo questo libro.
Se non fossi stato seduto, sarei crollato al suolo per la meraviglia: riuscii a sussurrargli: – Ma che cosa hai in testa al posto degli occhi? Uova sode? – Mi guardò con l’aria di non avermi udito, e prese dalle mani della dama il libro miniato di vite di santi.
– Va be’, affari suoi, – mi dissi. Tanto io non avevo vinto la gara. Ma tutta la notte sognai quella fanciulla dalla treccia dorata.
Quando al mattino ripartimmo, al momento di congedarci dalla castellana, io chiesi che, per la sua bontà, mi concedesse di salutare la damigella, ed ella acconsentí di buon grado, forse vedendo i miei occhi malinconici, e ci lasciò soli qualche piccolo minuto.
– Damigella, – dissi alla bella fanciulla, – se avessi vinto io la gara, avrei scelto voi come sposa.
– E io ne sarai stata contenta, – disse lei abbassando gli occhi al suolo.
Allora le presi la testa tra le mani e la baciai sulla bocca. Poi partimmo in cerca dell’avventura che doveva toccare a Galaad.