«Quando fui montato a cavallo e mi guardai attorno per vedere in quale direzione si doveva procedere per evitare di finire negli stagni e fare la fine di Galaad, vidi che nel punto in cui s’era fermato il cavallo, il sentiero da cui eravamo venuti terminava, e davanti a noi si aprivano a ventaglio tre viottoli, uno dei quali era proprio quello che Galaad aveva preso. Allora mi vennero in mente le parole di Merlino: eravamo arrivati al punto in cui il sentiero si divideva in tre e noi dovevamo separarci.
Lo dissi a Perceval, e lui parve scuotersi dal suo torpore.
Mi guardò con occhi diversi, e disse:
– Hai ragione, Galvano. Qui, purtroppo, dobbiamo separarci. Mi dispiacerà non sentirti piú brontolare.
– Allora mi sentivi? Dunque non eri poi cosí stravolto? E perché non mi hai risposto e non mi hai dato retta? Forse il povero Galaad sarebbe ancora vivo…
– No, Galvano. Galaad ha seguito la sua strada, non poteva fare diversamente. E non credo che sia morto. Forse lo rivedremo.
– Che Dio ti ascolti, mio buon Perceval, – dissi tutto intenerito. – Anch’io sentirò la tua mancanza. Saremo soli. Dio voglia che ci ritroviamo. Addio, Perceval, e cerca di fare attenzione a dove metti i piedi. Che Dio ci aiuti.
E con questo ci separammo. Io presi la mia strada e lui la sua».
S’era fatto molto tardi e il fuoco nel camino si era spento. La contessa Marta si alzò e, presa una candela dalla mensola, ci invitò a fare altrettanto e ad andare a letto. Fioralba si era addormentata sul suo sedile e fu presa in braccio dalla nutrice, che la portò a letto come fosse una bimba. A Galvano parve di capire che sognasse.
Chi sognava la bella addormentata? Galaad e la sua lacrimevole fine, il bel Perceval dagli occhi azzurri, o Galvano che, in realtà, era l’unico che aveva visto finora? Galvano sperò che l’ultima ipotesi fosse quella giusta.
L’indomani un gran trambusto annunciò il ritorno del conte al suo castello. Era arrivato un giovane staffiere a briglia sciolta già nel primo pomeriggio ad avvertire la famiglia che prima del tramonto il conte avrebbe fatto ritorno a casa dal suo viaggio in Francia, che giungeva con gli ospiti stranieri e che tutto fosse pronto per far loro buona accoglienza. Si preparassero tavole sontuose, si imbandissero vivande degne degli stranieri, e soprattutto si spillasse il miglior vino delle cantine comitali.
La gente del castello fu in grandi faccende tutto il giorno, e per preparare il pranzo in modo conveniente, e per trarre fuori dalle cassapanche gli abiti piú belli e gli ornamenti piú preziosi.
La contessa Marta, dopo aver dato gli ordini piú urgenti a cuoche e sguattere, si ritirò nelle sue stanze e non si fece piú vedere. Era una circostanza importante, poiché il conte suo marito era assente da quasi un mese in terra di Francia.
Galvano, solo e disoccupato, prese arco e frecce e, fatto sellare il suo cavallo, se ne andò a caccia nei boschi che coprivano le pendici del monte Pirchiriano e che si stendevano ininterrotti fino alle alte montagne oltre le quali sta la terra di Francia. Dopo la pioggia notturna era tornato il sereno e fiori e fronde risplendevano nella nuova luce quasi a vita nuova. Galvano si sentiva leggero e spensierato come un ragazzo.
Attraversò il torrente che separava il grande giardino del castello dalle boscaglie dove contadini e boscaioli traevano il loro profitto di legna e frutti selvatici con pieno diritto, e s’inoltrò baldanzoso nel folto allontanandosi dal castello, che tuttavia sempre emergeva sulla cima del monte Pirchiariano. Cavalcò tutto il giorno scoccando ogni tanto una freccia, cosí, senza mirare a nulla.
Il bosco risuonava di uccelli, e voli si intrecciavano in alto tra i rami.
Galvano sentiva la tentazione di scoccare una freccia a un fagiano o a una starna, ma tale era la letizia di quel bosco che gli spiaceva turbarla col suo strumento di morte.
« Che ti succede, Galvano, – disse tra sé, – sei sempre stato un buon cacciatore, e non ti sei mai fermato di fronte ai cinguettii degli uccelli. E quelle lepri che ti saltano attorno e sembrano volerti provocare? Veramente lascerai il bosco senza una preda? E rientrerai al castello con le mani vuote, come un cacciatore che ha fallito il bersaglio?»
Ma quando il sole aveva oltrepassato la metà del suo cammino e già inclinava verso la sera, uno spettacolo insolito si offrí ai suoi occhi. Era stato attratto verso una radura che si apriva tra gli alberi da un fruscio di fronde smosse che crebbe fino a diventare un forte rumore di frasche e rami spezzati. Si fermò nascosto tra gli alberi, e vide nella radura un grosso cinghiale con le zanne scoperte; stava immobile tormentando con l’unghia il terreno, che ne appariva profondamente solcato, e dirigeva il grifo minaccioso verso un’istrice ferma anche lei, ma ai limiti del bosco. L’istrice era in atteggiamento di difesa, con tutti i tremendi aculei rizzati sul corpo.
Fermo sul suo cavallo, silenzioso e nascosto, Galvano si accingeva ad assistere a quella battaglia che certamente sarebbe terminata con la morte di uno dei contendenti, ma era difficile pronosticare quale.
Il cinghiale a un tratto caricò l’istrice scaraventando nella corsa tutto il suo peso, ma quando fu giunto a venti metri da lei si fermò di botto, colpito da una scarica di aculei che l’animale aveva fatto schizzare via dal suo corpo. Il cinghiale indietreggiò, mentre l’istrice abbassava nell’attesa gli aculei.
– Perché non approfitta del vantaggio che ha ottenuto sul suo avversario per fuggire? – si chiedeva Galvano. Il cinghiale era certamente spaventato, ma non ferito al punto da lasciare il combattimento.
Infatti la scena si ripeté poco dopo: assalto del cinghiale e lancio di aculei da parte dell’istrice. E Galvano ebbe l’impressione che questa volta il getto di aculei fosse inferiore al precedente, e pensò che doveva costare molto dolore all’istrice quel modo di difendersi, molto dolore e un grande sforzo.
«Ma perché non fugge?» si chiese di nuovo Galvano. E come l’istrice abbassò le sue difese per riposare il corpo stanco, trovò la risposta alla sua domanda, e capí il motivo di quella caparbietà dell’animale. Dietro di lei, quasi nascosti dal suo corpo, c’erano alcuni batuffoli di pelo, poco piú grandi di una pigna. I piccoli dell’istrice.
Allora Galvano, preso il suo arco, incoccò la piú robusta delle sue frecce e mentre il cinghiale gli passava davanti a corsa sfrenata per compiere una terza carica, lasciò partire la freccia che lo colpí nel fianco. Con un grugnito che pareva un ruggito, il cinghiale ferito si volse a lui, lo caricò spezzando cespugli e frasche, aprí le fauci mostrando le zanne, pronto a immergerle nel ventre del cavallo, ma proprio nella gola Galvano lo colpí con una seconda freccia.
L’animale morente si dibatté nella radura schiacciando fiori ed erbe, finché con un doloroso grugnito rimase immobile. Con grande sforzo Galvano caricò la sua preda sul cavallo e tornò a piedi verso il castello. Tutta la gioia della giornata di sole, dei fiori e degli uccelli era sparita dal suo cuore.
«Che ti succede, Galvano? – si diceva camminando. – Tu che hai fatto tanti duelli, e nei duelli muore sempre qualcuno, e dunque, se tu sei ancor vivo… Sarà pur vero che non hai mai provato gusto ad ammazzare, però i tuoi avversari li hai uccisi. Non potevi fare altrimenti. E ora ti angosci per un cinghiale? Galvano mio, non ti riconosco piú».
E cosí parlando tra sé e sé coglieva dalle fronde degli alberi grandi rami di lillà e di maggiociondolo, un intero fascio, e anche di questo si stupiva, perché non era proprio nelle abitudini di un guerriero cogliere fiori. Giunto al torrente che segnava il confine con la tenuta del castello, si fermò a guardare come incantato un’immagine nell’acqua. Era un’immagine riflessa di lunghi capelli castani stillanti d’acqua, e le gocce cadevano nella pozza muovendola in piccole onde concentriche.
– Messer Galvano! – chiamò una voce al di là del torrente – Volete aiutarmi a pettinarmi i capelli? – Era Fioralba, che s’era lavata i capelli all’acqua del torrente.
In due balzi Galvano attraversò l’acqua e prese dalle mani della fanciulla un bel pettine d’avorio e oro, e cominciò a pettinarle i lunghi capelli castani.
– Ho colto questi fiori per voi nel bosco – disse comprendendo in quel momento perché li aveva colti.
– E avete ucciso un cinghiale per la nostra tavola, – aggiunse maliziosa la fanciulla.
E mentre pettinava i capelli Galvano le raccontò del suo incontro nel bosco e della lotta tra il cinghiale e mamma istrice. Poi si avviarono insieme verso il castello e nel camminare si asciugavano i lunghi capelli di Fioralba che svolazzavano alla brezza della sera e si impigliavano ai rami fioriti che sporgevano sul sentiero. Galvano si premurava di districarli, e lo faceva con somma perizia e delicatezza.
– Sembra che abbiate pettinato donne tutta la vita, – disse Fioralba.
– Invece è la prima volta, ve lo giuro. Ma se voi permettete vi pettinerei volentieri questa sera acconciando i capelli in lunga treccia che poi arrotolerei intorno al vostro capo come un’aureola. Volete?
– Io vorrei, sire Galvano. Ma mia madre non vorrà di certo.
– Perché?
– Perché c’è una cameriera apposta per pettinare lei e me, e non mi pare che mia madre sia mai stata pettinata da un uomo, neppure da mio padre.
– Pazienza! Ma dovrete dire a vostra madre che i tempi cambiano, e non bisogna meravigliarsene.
– Glielo dirò, – rispose con un sorriso Fioralba, – e intanto sapete che cosa farò? Mi intreccerò una corona con i fiori che avete colto per me, e la porterò in capo durante tutta la cena. Cosí ogni volta che muoverò la testa, voi capirete che penso a voi.
La madre li guardava da un’altana e sorrideva silenziosa.
Ma già si udivano suoni di corni echeggiare di lontano per annunciare a tutta la gente del castello che giungeva il signore con i suoi nobili ospiti. Nel castello si fece un gran correre e affrettarsi perché tutto fosse pronto a ricevere i nuovi venuti. E finalmente apparve la bella schiera montata su fiere cavalcature che salivano baldanzose il ripido sentiero del monte. Quando tutto il corteo fu giunto sulla grande spianata che precedeva il castello, tacquero i corni del seguito e due araldi in testa alla piccola schiera suonarono le loro lunghe trombe d’argento.
Subito uscirono dal castello servi e staffieri per aiutare i signori a smontare da cavallo e sulla porta comparvero, a dare il benvenuto, la contessa Marta e la figlia Fioralba.
Dietro le due donne si accalcavano i cortigiani, e tra questi, occhieggiando curioso tra i volti dei nuovi venuti, stava il cavaliere Galvano.