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L’ESTATE DEL GRANDE TRADIMENTO

Fu quella l’estate in cui Salvini perse la testa.

L’estate del grande tradimento.

L’estate del Papeete, dei deejay, delle dichiarazioni in costume da bagno.

Se me lo avessero detto, non ci avrei mai creduto.

Eppure il sospetto non mi aveva mai abbandonato, soprattutto dopo l’ultimo periodo, durissimo, in occasione delle elezioni europee, durante il quale la tensione tra noi e la Lega era salita alle stelle. C’era sempre stata una parte di me ostaggio della paura di essere ingannato, credo fosse una sensazione del tutto naturale allora. Del resto, fin dall’adolescenza mi ero affidato molto a me stesso, senza però mai smettere di contare sul gruppo. Eravamo stati, tutti, artefici e protagonisti di ogni nostro successo o fallimento.

Adesso, per la prima volta, ci eravamo invece affidati a qualcun altro e questa scelta, nonostante fosse stata condivisa e giunta a seguito di un accordo con il Pd, non riguardava solo noi o i nostri singoli destini, ma tutto il Movimento. Ed ero io il capo, ero stato io a suggellare quel patto di governo con Matteo Salvini.

Intanto l’afa romana, per me che il 7 agosto ero ancora a Palazzo Chigi a lavorare, diventava insopportabile.

Si sudava, e senza neppure muoversi.

Ero nel mio ufficio, al terzo piano. Sembrava che anche i muri sudassero. Trasudavano secoli di tradimenti, congiure e brama di potere.

Al mio fianco, oltre al mio staff, c’erano Riccardo Fraccaro, Vincenzo Spadafora e Alfonso Bonafede. Quest’ultimo passeggiava su e giù con un certo nervosismo.

«Vuole farlo davvero?» si chiedeva.

«Salvini vuole davvero staccare la spina al governo?»

«Vuole mandare all’aria un anno di lavoro, e per cosa? Per i sondaggi?»

Quelle domande riecheggiavano nella testa di ciascuno di noi.

C’era qualcosa che non ci tornava.

La voce di un’eventuale rottura da parte della Lega rimbalzava su tutti i giornali ormai dalla mattina, anzi da settimane, in modo insistente. Il Carroccio aveva innescato una vera e propria “strategia della tensione” tesa a sfiancarci. Trovavo sempre qualcuno pronto a scommettere che prima o poi Salvini avrebbe lasciato. E puntualmente, ogni volta che incontravo Matteo, lui metteva le mani avanti: «Luigi, non dare credito alle voci».

Quella mattina eravamo dunque pervasi da un dubbio che ormai avevamo imparato a conoscere, con il quale avevamo familiarizzato e con il quale avevamo condiviso l’esperienza governativa, giorno dopo giorno fino a quel momento.

Si tratta di un bluff, siamo davanti al solito teatrino mediatico di Salvini o stavolta fa sul serio?

Ci sentivamo indecisi.

D’altronde come Movimento erano mesi che attraversavamo un momento di difficoltà e ogni riflessione risultava complessa. Avevamo inanellato una serie di sconfitte politiche, tutte a vantaggio della Lega, che avevano fatto sprofondare nella disperazione tutti gli eletti e i militanti. Prima le elezioni regionali di febbraio in Abruzzo, di marzo in Sardegna e di aprile in Basilicata furono un duro colpo, poi le europee ci diedero la mazzata finale.

Di solito la politica cerca sempre di ridimensionare le elezioni amministrative, ogni capo politico prova ad allontanare il fantasma del test sulla propria leadership, sperando che il dato elettorale non incida sull’andamento del consenso nazionale intorno al partito. Purtroppo, però, tra le tante regole non scritte della politica, che piaccia o meno, le regionali e le amministrative, talvolta perfino i referendum, sono sempre considerate delle elezioni di mid-term. Che siano le elezioni del comune di Canicattì o della regione Lombardia, l’impatto è lo stesso. La sera dello spoglio c’è un vincitore e un perdente. E siccome in Italia si vota ogni sei mesi, queste mid-term sono uno spettro che riappare spesso e turba il sonno di ogni leader.

Il giorno dopo, chi ha vinto prova a intestarsi il risultato con falsa modestia (“è un ottimo risultato ma restiamo prudenti”) e chi ha perso recita la solita frase di rito (“dobbiamo sicuramente fare di più, ma le elezioni amministrative non sono un test nazionale”). I miei problemi nel primo governo gialloverde iniziarono proprio in seguito a questi appuntamenti elettorali della prima metà del 2019 e quel giorno, al terzo piano di Palazzo Chigi dove avevamo allestito una sorta di war room, tutti i nodi stavano venendo al pettine.

Alfonso continuava a fare su e giù per la stanza. Era stato un anno difficile, molto difficile, e ne eravamo tutti consapevoli. Dopo una breve armonia iniziale, il rapporto con la Lega si era andato deteriorando. Talvolta avevamo trovato più faticoso relazionarci con i nostri alleati che con le opposizioni e con parte di quell’establishment economico e finanziario, che pure non perdeva occasione per criticarci.

Mi capita spesso di ripensare a quel lunghissimo anno, pesò sulle mie spalle come un decennio. Comparvero i primi capelli bianchi.

Oggi posso dire che ci arrivammo con diverse lacune e forse una punta di presunzione. Non conoscevamo la macchina, né le persone, né i ministeri, neanche i processi, ci mancavano le liturgie, non sapevamo come e quando chiamare qualcuno, chi scegliere. Non avevamo un’idea chiara del potere che era nelle nostre mani e tantomeno persone esterne a cui affidarci, visto che chiunque nel tempo aveva deciso di sposare le nostre idee era praticamente stato isolato dal “sistema”. In realtà, non avevamo proprio idea di cosa fosse il potere, il che può sembrare qualcosa di nobile, di estremamente puro, ma non lo è. Quando siedi ai vertici di un’amministrazione pubblica devi saper riconoscere ed esercitare il tuo potere, ancor di più se la tua forza politica è l’azionista di maggioranza dell’esecutivo.

Il problema non è il potere in sé, il punto è il modo in cui lo eserciti.

Anche perché, in fondo, il potere cos’è?

È la politica, il potere? Sono io, il potere?

Ne siamo parte o siamo solo degli schiavi, dei prodotti, dei meri interlocutori temporanei?

Nel primo anno di governo non sapevamo assolutamente nulla del potere, né cosa fosse, né come mostrarlo, non riuscivamo a imporci. Dopo aver vinto le elezioni il numero delle telefonate che riceveva la mia segreteria si impennò vertiginosamente. Non c’era uomo di Stato che non provasse ad avvicinarsi. Chi chiedeva un incontro, chi un posto, chi un incarico, chi aspettava una nomina. Noi respingevamo ogni proposta, avevamo paura di scivolare in qualche tranello. Eravamo ossessionati dalla trappola, d’altronde i cinque anni all’opposizione ci avevano insegnato che il sistema sarebbe stato pronto a tutto pur di colpirci e non volevamo in alcun modo prestare il fianco.

Ma non è così che si governa un Paese, oggi posso dirlo.

Ogni rappresentante delle istituzioni democratiche ha l’obbligo di gestire il potere che gli viene attribuito e ha il dovere di farlo al meglio, nel rispetto della nazione e dei valori della Costituzione su cui ha giurato. Va riconosciuto che, allo stesso tempo, quel che abbiamo davanti è un controverso e perverso meccanismo autolesionistico, perché il potere può anche cambiarti, può sicuramente distruggerti.

Ci sono due regole auree da tenere in considerazione: prima di tutto l’amministrazione del potere di nomina e poi l’amministrazione del potere mediatico. Sono i due pilastri su cui si fonda la sopravvivenza di una forza politica. Bisogna imparare ad amministrarli con parsimonia e non si deve credere che uno sia più importante dell’altro, ma noi non avevamo problemi di priorità, la situazione era ben più disastrosa di quanto pensavamo.

A proposito del sistema dell’informazione, ad esempio, non sapevamo neanche cosa fosse un retroscena (cioè una ricostruzione giornalistica che riporta quanto avvenuto dietro le quinte, appunto il retroscena, di una notizia), o un off the record (vale a dire quando la fonte non desidera che la sua notizia sia usata in alcun modo, concetto che nel giornalismo italiano è però confuso con il deep background, ovvero quando la fonte consente l’uso giornalistico della notizia purché non le venga attribuita). Continuavamo ad affidarci a post sui social e a note stampa, eravamo privi di una strategia ma soprattutto della conoscenza, nel senso reale del termine.

In tutto l’anno di governo col Carroccio ero stato io a immolarmi, sovraesponendo terribilmente la mia immagine e indebolendo me e il Movimento.

Mentre Alfonso andava su e giù per quella stanza di Palazzo Chigi, incrociai gli sguardi di chi stava intorno a me e tutto, in un istante, mi parve più chiaro. Eravamo già cambiati, incluso il mio nuovo portavoce, Augusto Rubei, che era con me solo da poche settimane e, in un certo senso, anche il suo arrivo era parte di un grande cambiamento.

Avevo infatti conosciuto Augusto un giorno qualsiasi della diciassettesima legislatura nell’ufficio comunicazione del nostro gruppo alla Camera dei Deputati. Era stato assunto dal capo comunicazione di allora, un giornalista antimafia siciliano che sapeva il fatto suo, Nicola Biondo. Augusto era stato chiamato, in quanto giornalista di esteri, a seguire le commissioni esteri della Camera dei Deputati, ma era molto più di un giornalista. Veniva dalle borgate romane, era cresciuto guardandosi le spalle ogni giorno e in un contesto in cui la selezione naturale di Darwin non fa sconti. Aveva sempre fame. Studiava un accidenti e apprendeva con gli occhi. Si è laureato, è arrivato a collaborare con una delle più prestigiose riviste di geopolitica: «Limes». Era un unicum. Un esperto di Diritto Internazionale, cresciuto nelle periferie romane, in grado di spiegare la guerra in Siria al venditore di cocomeri e allo stesso tempo capace di spiegare i problemi che affliggevano il venditore di cocomeri all’inviato speciale per la Siria delle Nazioni Unite, conquistando la sua totale attenzione. Di una sfrontatezza ammirevole. È quello che si può definire uno spin doctor completo ed è per questo che lo avevo chiamato al mio fianco. L’intervista al «Financial Times» sulla svolta del Movimento 5 Stelle rispetto alla permanenza nella NATO, qualche anno prima, l’avevamo decisa insieme. Nei momenti più importanti della mia vita politica è apparso e mi ha dato la dritta giusta, e per me non è stato solo un portavoce: ha intessuto legami politici, ha guidato la mia svolta verso l’alleanza con il Pd e ha costruito il mio profilo in politica estera. E come tutti quelli bravi, poi, a un certo punto è volato ancora più in alto.

Oggi si occupa di relazioni internazionali nella più importante società partecipata italiana, Leonardo Finmeccanica. Ma in quel preciso istante, anche alla luce delle sue esperienze pregresse maturate con altri partiti politici, sapevo che mi avrebbe aiutato a guardare le cose con maggiore obiettività.

Eravamo cambiati dentro, nel profondo, avevamo una consapevolezza diversa, eravamo più sicuri di noi stessi, non impeccabili ma cresciuti. Il problema è che ormai era troppo tardi, Salvini aveva portato la Lega a essere il primo partito d’Italia, la sua strategia di logoramento aveva funzionato, la nostra non era mai esistita.

Nel Movimento si percepivano i primi malumori. Qualcuno puntava l’indice contro di me, sai che sorpresa! Ero provato. Ci sentivamo in balia delle onde e stava per crollare tutto, in quei lunghi giorni di agosto.

«Perché mai far cadere il governo adesso? Gli italiani non lo capirebbero, ne risentirebbe per primo lui» commentò Fraccaro. In effetti non aveva senso, ma la politica spesso è priva di una visione sul lungo periodo e Salvini era ormai vittima di una sindrome napoleonica. Discettavamo sulle varie ipotesi che si sarebbero potute verificare da lì in avanti, quando il mio telefono squillò.

Guardai il display: Giuseppe Conte.

Risposi in un silenzio tombale.

Io: «Giuseppe!».

Lui: «Luigi!».

Ancora io: «Dimmi. Lo hai sentito?».

Ancora lui: «Sì, Matteo mi ha chiamato ora. Mi ha detto che vuole rompere, che dirti, ma ora provo a parlarci io. Vuole annunciarlo oggi a Sabaudia, Luigi…».

Rimasi sorpreso dal tono della voce di Giuseppe, percepii uno strano senso di leggerezza nelle sue parole, non sembrava affatto preoccupato.

Ci salutammo e chiudemmo.

Non feci in tempo a rimettere il cellulare in tasca che squillò ancora.

Guardai di nuovo il display.

Questa volta un sms: Matteo Salvini: «Ho parlato con Conte. Tra un po’ ti chiamerà e ti spiegherà come stanno le cose».

Trovavo assurdo che non avesse avuto il coraggio di alzare il telefono e parlarmi. Allora lo feci io. Mi rispose, era in auto verso Sabaudia. Ricordo ancora nei dettagli quella telefonata. Ogni pausa, ogni parola, ogni sospiro sembravano studiati, come fa un attore appena si apre il sipario sul palco.

«Luigi…» primo lungo sospiro.

«Matteo, ho parlato con Conte. Spiegami.»

«Luigi, io non tengo più i miei, mi dispiace, vogliono tutti andare a votare, non ce la facciamo.»

«Matteo, ma siamo in pieno agosto! Fra tre settimane votiamo il taglio dei parlamentari. Votiamo almeno il taglio, era nel programma di governo, aspetta almeno il 9 settembre.»

«No Luigi, mi dispiace, al taglio non ci arriviamo. Già oggi dirò qualcosa.»

«A me sembra surreale – gli risposi – abbiamo appena votato la TAV, e tu lo sai i problemi che avevamo nel Movimento, perché eravamo contrari. Ma l’abbiamo fatto. Ora vuoi far cadere tu il governo proprio prima del taglio dei parlamentari?»

Silenzio. Secondo sospiro.

«Matteo, voglio dirtelo: sono profondamente dispiaciuto. Non solo perché mi sono fidato di te, ma perché ho portato tutta la mia forza politica a fidarsi di te e questo è il risultato. È un comportamento sleale. Hai preso la tua decisione e ne sarai responsabile davanti al Paese.»

Ancora un suo silenzio e l’ennesimo sospiro.

Chiusi il telefono.

Pochi giorni prima Salvini mi aveva assicurato che il governo sarebbe andato avanti, aveva appena incassato la fiducia sul decreto Sicurezza. Dal punto di vista della lealtà e del rapporto personale mi sentii ferito. Solo oggi posso dire di aver governato quattordici mesi con una delle persone più false che abbia mai conosciuto, ma non la più falsa. Mentre assorbivo il colpo, lui scendeva dall’auto e saliva sul palco di Sabaudia accompagnato dalle note della romanza di Puccini. Da quel momento scatenò tutto il suo desiderio di onnipotenza.

Compresi ogni cosa e mandai un messaggio a Virginia. Le scrissi: «Salvini ha chiesto la crisi, si prospetta l’inferno».

Quella avrebbe dovuto essere la nostra prima estate, avevamo programmato un viaggio all’estero, lontano da tutto e da tutti. Saremmo dovuti partire qualche giorno dopo. Niente. Dovemmo cancellare la vacanza e io continuai a lavorare anche nella settimana di Ferragosto. Lo feci da Palinuro, dove Virginia mi supportò con una forza che non mi aspettavo avesse. Palinuro per me è un po’ come una seconda casa, i miei genitori mi ci portavano sempre da bambino, passavamo lì le nostre vacanze estive. E ogni anno, se posso, ci torno volentieri, proprio sul lido della Marinella, dove una volta c’era un piccolo villaggio di pescatori che un buon imprenditore qualche anno fa ha salvato dal vortice della globalizzazione, mantenendo viva una comunità straordinaria, in cui mi riconosco. In quella spiaggia dove all’età di undici anni mi chiedevo cosa avrei fatto da grande, decisi il destino del nuovo governo.

Davanti a una crisi il peggiore errore che si possa compiere è farsi prendere dal panico ed elaborare una strategia sul breve termine. Le crisi sono lunghe, gli animi e gli umori cambiano di ora in ora. Così, prima di partire per il Cilento, mi ritrovai come sempre a casa di Pietro Dettori. Con me erano presenti Roberto Fico, Davide Casaleggio, Paola Taverna, Alessandro Di Battista e i maggiorenti del Movimento. Mi sentii sotto processo, sembrava che l’alleanza con la Lega l’avessi voluta soltanto io, ciononostante concordammo che sarebbe stato opportuno prendere tempo, almeno fino al taglio degli eletti. Dicemmo ai media che avremmo prima votato il taglio e poi Conte si sarebbe presentato alle Camere, poiché lui voleva che fosse il Parlamento a sfiduciarlo, quando un post di Grillo ci aprì la strada: «Non è il momento per andare al voto, troviamo una soluzione».

Qualcosa si stava muovendo, in molti nel Movimento cominciavano a fare pressione per una nuova alleanza con il Partito Democratico. Io ero combattuto, molto combattuto. Non avevo ancora smaltito il colpo della crisi e avrei già dovuto intavolare un dialogo con il nemico di sempre, con quello che fino a quel momento avevamo considerato il nemico giurato?

Non potevo farcela, ma internamente il pressing continuava a crescere, soprattutto tra i parlamentari M5S. In un’assemblea molti di loro, direi ben oltre la maggioranza, espressero chiaramente la volontà di non andare a votare. Chiunque mi ripeteva che era la cosa giusta e mi convinsi, aprii con i dem una fase interlocutoria, lasciando che fossero Patuanelli e il mio portavoce Rubei a tenere i contatti con Matteo Renzi. Dovevamo prima di tutto capire le sue mosse, era lui a controllare ancora gran parte del gruppo Pd al Senato, dove i numeri della maggioranza traballavano.

Arrivò in quel preciso istante la mossa della disperazione di Matteo Salvini. Stava per restare intrappolato nella legislatura e provò a correre ai ripari. Riprese a scrivermi, dopo giorni di silenzio, proponendomi un rimpasto di governo e offrendomi il ruolo di premier.

«Noi ci siamo ancora Luigi, nessun premier sarebbe meglio di te!»

Non mi feci blandire. Non avevo più alcuna fiducia in lui.

Arrivò persino a dirmi che aveva informato la presidenza della Repubblica della volontà di sostenermi a Palazzo Chigi. Non diedi seguito né credito a quei messaggi; malgrado ciò nel Movimento si creò una profonda spaccatura, con Alessandro Di Battista propenso a riaprire un dialogo con la Lega, ma senza Matteo Salvini, e questo ovviamente rendeva impossibile qualsiasi soluzione, mentre Roberto Fico e molti altri erano proiettati verso la definizione di un accordo col Pd. Devo ammettere che mi sorprese la posizione di Alessandro, poco prima aveva scritto un libro in cui non aveva risparmiato critiche a me, al governo e alla Lega stessa. Ma tant’è…

Sulla spiaggia di Palinuro, tra una telefonata e l’altra, mi confidai con Virginia. La ascoltai come forse non avevo mai fatto, il suo sorriso mi rassicurò l’anima e rafforzò le mie convinzioni che andavano prendendo forma. Il nuovo governo con il Pd era l’unica strada percorribile per spingere all’angolo Matteo Salvini e, soprattutto, per salvare la leadership di Giuseppe Conte.

Fino a quel momento ogni decisione era stata presa collegialmente; entrambi i governi furono l’esito di un ampio dibattito aperto tra i vertici del M5S. E soprattutto è vero che io ebbi per ben due volte la possibilità di fare il presidente del Consiglio e che rinunciai, per consentire la continuità del progetto e del programma M5S. Scelsi di non portare l’Italia in esercizio provvisorio, col rischio di bloccare il Paese per quasi un anno, e rivendico ancora adesso quella scelta.

Erano 100 anni, dal 1919, che non si votava per le elezioni politche in autunno e il motivo è semplice: se voti a ottobre non riesci ad approvare la legge di bilancio entro la fine dell’anno. Nel nostro caso, uno scenario simile avrebbe significato un inauspicabile aumento dell’Iva. Migliaia di famiglie e piccole e medie imprese, tutto il nostro sistema produttivo sarebbe stato messo in una condizione di seria difficoltà.

Il 20 agosto in Senato arrivò la mozione di sfiducia presentata dalla Lega.

Conte fece un discorso molto lucido e tagliente, in cui non risparmiò critiche durissime nei confronti di Salvini. Durante il suo intervento si levarono spesso applausi dai banchi del Pd, un segnale politico che non avremmo potuto ignorare. Era praticamente già tutto deciso: il gruppo parlamentare voleva una nuova alleanza programmatica con i dem, i nostri attivisti ci chiedevano di “restituire il favore” a Matteo Salvini. Mancava solo un ultimo passaggio: ricevere la disponibilità di Conte. Trascorsi due giorni al telefono con lui per convincerlo e contestualmente incontrai il nuovo segretario Nicola Zingaretti, per la prima volta, a casa di Spadafora. Vincenzo con la sua consueta ospitalità ci aveva preparato qualche tartina, dei taglieri di salumi e formaggi per rendere più familiare e amichevole il confronto, ma né io né Zingaretti toccammo niente, eravamo alquanto tesi. Erano parecchie le cose da limare. Inoltre, ci guardammo negli occhi e con tutta onestà ci dicemmo che eravamo lì perché Renzi, più di chiunque altro, ci stava spingendo in quella direzione. Non avevamo torto.

A ogni buon conto, dopo grandi resistenze di Nicola trovammo l’intesa in via informale e riservata intorno al nome di Conte. Il 24 agosto si tenne il vertice del G7 a Biarritz. Conte ci andò, seppur in veste di premier dimissionario. Nell’occasione ricevette parecchi attestati di stima da parte dei partner europei, ma soprattutto arrivò il famoso tweet di Trump in cui sbagliò a scrivere Giuseppe in Giuseppi: «[...] ha rappresentato l’Italia in modo energico al G7. Ama il suo Paese grandemente e lavora bene con gli USA. Un uomo molto talentuoso che spero resti primo ministro!». Fu la consacrazione finale per lui agli occhi dello stesso Pd, nonché una sconfitta ulteriore per Salvini, convinto di essere lui l’interlocutore prescelto dall’allora presidente statunitense.

C’eravamo quasi. Mancavano le ultime formalità, tra cui il voto dei nostri iscritti sulla piattaforma Rousseau. Proposi a Zingaretti di mantenere, come avevamo fatto in precedenza con la Lega, i due vicepresidenti per permettere il collegamento diretto delle due forze politiche con il premier. Il Pd si rifiutò, era evidente che dopo aver subito la conferma di Giuseppe Conte ora cercasse il mio scalpo. Volevano indebolirmi, il loro era un chiaro, e prevedibile, tentativo di delegittimazione. E io fui costretto a giocarmi quella partita da solo, fin quando una domenica, prima del voto online, Virginia e io ci recammo a messa e raggiungemmo una chiesa non lontano da piazza San Pietro dove celebrava un sacerdote latinoamericano. Durante l’omelia, il prete pronunciò una frase che mi risuonò dentro come un monito, un suggerimento, un’illuminazione.

«Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato.»

Uscito guardai davanti a me. Virginia mi chiese cosa avessi. Mi voltai e le dissi: «Ho deciso, faccio un passo indietro, ne faccio un altro, lascio perdere la vicepresidenza».

Nacque così il Conte II.

Con la mia terza rinuncia.

Ma finalmente avevamo dato all’Italia un nuovo governo.

Molte cose erano e sarebbero ancora cambiate.

Io lasciavo il MISE per entrare alla Farnesina e un virus avrebbe irreversibilmente stravolto le nostre vite.