Il Club delle baby sitter è stata un’idea tutta mia, di cui sono molto fiera, anche se poi l’abbiamo portata avanti insieme. Proprio noi quattro: Mary Anne Spier, Claudia Kishi, Stacey McGill e io: Kristy Thomas. La “lampadina” mi si è accesa uno dei primi pomeriggi di scuola, in seconda media. Era martedì e faceva un caldo tale che, d’accordo con i prof, avevamo spalancato porte e finestre e spento tutte le luci; anche perché nella mia scuola, la Stoneybrook Middle School, l’aria condizionata non esiste proprio.
Mi sentivo i capelli pesanti e appiccicati sul collo e avrei dato chissà cosa per trovare un elastico e farmi la coda. Dalle finestre aperte entravano delle fastidiosissime api e il professor Redmont sospese la lezione per permetterci di fare ventaglietti con i fogli di cartoncino che usavamo per i progetti. I ventaglietti servirono solo a scacciare le api, ma fu divertente farli e saltare dieci minuti di studi sociali.
Soffocanti e lente, le ore comunque passarono e quando le lancette dell’orologio sulla parete davanti a noi segnarono le 14.42 e finalmente la campanella suonò, mi catapultai fuori dal banco con un: «Urrà!», felice di svignarmela.
Non che non mi piaccia la scuola, ma quando è troppo è troppo!
Il prof era sbalordito, probabilmente perché si era sentito molto generoso per la faccenda dei ventagli e non capiva la mia esplosione di felicità, né la mia mancanza di riconoscenza per il suo gesto.
Mi sentii un po’ in colpa, ma non avrei potuto comportarmi diversamente. Sono fatta così: quando penso di fare una cosa la faccio. La mamma dice che sono impulsiva e che spesso questo è un guaio. Anche se non ne è poi così convinta, credo.
Però questa volta nei guai mi ci ero ficcata per davvero. Lo sentivo, ed era una sensazione spiacevole… che non mi era affatto nuova.
Redmont si schiarì la voce: in fondo, era un brav’uomo, anche se troppo serio e pignolo, e si capiva che non voleva umiliarmi davanti a tutta la classe.
«Kristy…» cominciò. Ma subito cambiò idea e riprese daccapo. «Ragazzi, i compiti a casa li avete, potete andare. Kristy, vorrei che ti fermassi un minuto.»
Mentre gli altri raccoglievano le loro cose e lasciavano rumorosamente l’aula, io mi avvicinai alla cattedra e prima che il professore potesse aprire bocca, cominciai a scusarmi, visto che qualche volta il trucco aveva funzionato.
«Mi dispiace davvero, professore» dissi. «Non intendevo… voglio dire, non intendevo essere contenta perché la scuola era finita. Cioè, ero solo contenta di andare a casa. A casa c’è l’aria condizionata…»
Redmont assentì. «Ma non credi, Kristy, che ti sarebbe possibile, in futuro, comportarti con un po’ più di… decoro?»
Non ero del tutto certa di conoscere l’esatto significato della parola “decoro”, però capivo che voleva dire evitare di rovinare la lezione strillando di gioia e dandomela a gambe al suono della campanella.
«Certo, prof» dissi.
Talvolta anche la gentilezza aiuta.
«Bene» fece lui. «Però voglio che questo incidente tu non lo dimentichi e il modo migliore per ricordare le cose è prenderne nota per iscritto. Così, stasera, scriverai un tema di un centinaio di parole sull’importanza di mantenere un atteggiamento decoroso in classe.»
Uffa! In un modo o nell’altro avrei dovuto imparare il significato della parola “decoro”.
«Sì, prof» dissi di nuovo.
Ritornai al mio banco, lentissimamente raccolsi i libri e, sempre lentissimamente, uscii dalla classe. Speravo tanto che il professor Redmont notasse la lentezza: avrei giurato che c’entrasse molto con il decoro.
Appena fuori dall’aula, trovai Mary Anne Spier che mi aspettava. Era appiattita contro la parete e si rosicchiava le unghie.
Mary Anne è la mia migliore amica, siamo vicine di casa e, per certi versi, ci somigliamo. Siamo entrambe piccole di statura per la nostra età, e tutte e due abbiamo i capelli castani che ci arrivano alle spalle. La somiglianza però finisce qui perché, mentre io non riesco mai a tenere la bocca chiusa, Mary Anne, almeno apparentemente, è silenziosa e timidissima. Ma Claudia, Stacey e io, che la conosciamo bene, sappiamo che in realtà Mary Anne sa essere spiritosa e divertente.
«Ehilà!» Salutandola le tolsi le dita di bocca e le osservai le unghie. «Mary Anne! Come puoi sperare di metterti lo smalto sulle unghie se continui così?»
«Ma dai» fece lei con un sospiro, «mettermi lo smalto… Avrò settantacinque anni prima che mio padre me lo lasci fare!»
Mary Anne è orfana di madre, non ha fratelli né sorelle e il padre, ovvero tutta la sua famiglia, è un tipo rigido e molto severo. Non le permette neanche di sciogliersi i capelli (sempre legati in strettissime trecce) e guai se corre in bicicletta con me e Claudia! A casa Spier la parola d’ordine è “regole” e fu un vero miracolo che Mary Anne ebbe il permesso di far parte del Club delle baby sitter.
Uscimmo da scuola e subito mi dimenticai del famigerato decoro, perché mi venne in mente qualcosa che mi costrinse a correre all’impazzata.
«Oh, mamma mia!» gridai.
Mary Anne mi inseguiva affannata: «Cosa ti succede?».
«È martedì» le urlai correndo.
«E allora? Dai, Kristy, rallenta. Fa troppo caldo per correre così.»
«Non posso rallentare. Il martedì devo tenere David Michael: dovrei arrivare io a casa prima di lui, sennò gli tocca tenersi da solo.»
David Michael è mio fratello, ha sei anni e un pomeriggio alla settimana, finché la mamma non rientra dal lavoro, lo teniamo a turno io e i miei fratelli maggiori: Charlie e Sam.
Gli altri due pomeriggi ci pensa Kathy, che ha quindici anni, sta a due isolati da casa nostra e, naturalmente, viene pagata. Charlie, Sam e io, no.
Con Mary Anne, corsi a gambe levate fino a casa e quando fummo davanti all’ingresso eravamo sudate da far schifo e col fiatone. Lì seduto, abbandonato sui gradini della porta d’ingresso, trovai David Michael, con i riccioli scuri appiccicati alla fronte: appena ci vide, scoppiò a piangere.
«Cosa succede, fratellino?» gli chiesi sedendomi accanto a lui e abbracciandolo stretto.
«Mi hanno chiuso fuori» gemette.
«Dove sono le tue chiavi?»
«Non lo so…»
David Michael scosse la testa e si asciugò gli occhi singhiozzando.
«Be’, non importa» feci io. «Prendiamo le mie.»
David Michael scoppiò di nuovo a piangere. «Fai presto! Mi scappa!»
Aprii la porta: quando mio fratello è in quello stato, è meglio far finta di niente, fargli credere che va tutto bene.
Mentre io e Mary Anne gli tenevamo la porta aperta, fummo travolte dal nostro collie Louie che, mentre entravamo, si precipitò fuori eccitatissimo (chi poteva dargli torto? Era chiuso in casa dall’ora di colazione).
Spinsi David Michael in bagno.
«Mentre stai qui» gli dissi, «vado a preparare una bella limonata, okay?»
Finalmente mi sorrise.
«Okay!»
Me la cavo bene con i bambini, e anche Mary Anne. La mamma lo dice sempre. Abbiamo passato interi pomeriggi e weekend a fare le baby sitter, come un lavoro vero e proprio. Quel pomeriggio, per esempio, mi era stato offerto di tenere un altro bambino, ma avevo dovuto rinunciare a causa di mio fratello.
Me ne ricordai proprio in quel momento.
«Sai» raccontai a Mary Anne mentre accendevo l’aria condizionata, «la signora Newton mi ha chiesto di tenere Jamie oggi pomeriggio. Non è che per caso ha chiamato te, dopo aver sentito me?»
Mary Anne scosse la testa. «No, ma può darsi che abbia chiamato Claudia.»
Claudia Kishi abita di fronte a me, dall’altra parte della strada; io, lei e Mary Anne viviamo qui a Bradford Court da quando siamo nate. Siamo cresciute insieme, però Claudia ha passato molto meno tempo con noi, perché è sempre occupata con i suoi corsi di arte e, quando non lo è, si chiude in camera sua a disegnare, a dipingere o a leggere racconti del mistero: un’altra sua passione.
Claudia sembra molto più grande di Mary Anne e me: da piccole noi due giocavamo alla scuola, alle bambole, alle signore, ma dovevamo implorarla per farla partecipare. Però Claudia era sempre pronta quando si trattava di fare una corsa in bici e di andare al cinema o in piscina.
E poi, una delle cose che segna un punto a suo favore, almeno per me, consiste nel fatto che suo padre non assomiglia per niente a quello di Mary Anne. Il signor Kishi è severo riguardo ai compiti di Claudia, ma non fa una piega se si tratta di una corsa giù in città per una Coca o un divertimento qualsiasi.
Durante l’estate, ho avuto l’impressione che Claudia si stesse allontanando da me e Mary Anne. Anche se tutte e tre andavamo in seconda media, all’improvviso Claudia sembrava… più grande. Parlava di ragazzi e trascorreva la maggior parte del suo tempo al telefono o davanti allo specchio. Per la fine dell’estate avevamo già fatto pace, ma a volte avevo la sensazione che avessimo imboccato strade diverse.
David Michael era tornato in cucina molto più allegro.
«Ecco qui» gli dissi, porgendogli un bicchiere di limonata mentre lui si sistemava accanto a Mary Anne.
Subito dopo arrivarono Charlie, che si mise a giocherellare con il pallone, e Sam, seguito dal cane scodinzolante. Charlie ha sedici anni e Sam quattordici; vanno entrambi alle superiori di Stoneybrook.
«Ciao a tutti. Ciao, microbo» fece Charlie a David Michael.
«Io non sono un microbo» gli rispose David Michael.
Da quando era entrato nella squadra delle superiori, Charlie si dava sempre un sacco di arie: si credeva il primo e unico giocatore di Stoneybrook.
«Noi andiamo a giocare nel cortile degli Hanson» annunciò Sam. «Vieni anche tu, Kristy?»
Avrei davvero voluto, ma non con il “microbo” alle calcagna.
«Penso che porteremo David Michael al ruscello. Ti va?» chiesi al mio fratellino, che annuì tutto contento.
«Ci vediamo più tardi, ragazzi!»
Salutai Sam e Charlie, che se ne andarono tirandosi dietro rumorosamente la porta d’ingresso; poi, con Mary Anne e Louie, portai David Michael al ruscello dove rimanemmo a guardarlo mentre sguazzava nell’acqua, faceva le barchette e cercava di afferrare i pesciolini. Louie correva in giro in cerca di scoiattoli.
«È meglio che vada» fece Mary Anne dopo poco più di un’ora. «Papà sarà quasi arrivato.»
«Già, anche la mamma sta per tornare. David Michael» chiamai, «torniamo a casa!»
Mio fratello si alzò controvoglia e, insieme a Louie, tornammo tutti e tre.
Una volta arrivati all’altezza della nostra strada, David Michael si mise a correre per il prato e Mary Anne mi sussurrò: «Alle nove, allora?».
«Okay» le risposi con un sorrisino.
Avevamo un codice segreto noi due, inventato da Mary Anne: ci trasmettevamo segnali luminosi con le torce. Le nostre finestre erano proprio una di fronte all’altra e, visto che a Mary Anne era stato proibito di parlare al telefono dopo cena se non per i compiti o per prendere impegni di baby-sitting, per notti e notti avevamo comunicato in quel modo.
Poco più tardi arrivò la mamma; aveva comprato una pizza al formaggio e peperoni dal profumo davvero eccezionale.
Sam e Charlie, però, avevano un’aria sospettosa.
«Già me l’immagino cosa vorrà» mormorò Sam.
«Anch’io» fece Charlie.
La mamma compra la pizza solo quando vuole chiederci un favore. Fui io a decidere di chiarire la faccenda.
«Allora, mami, ce lo dici il perché di questa pizza?» domandai.
Charlie mi sferrò un calcio sotto il tavolo, ma io feci finta di nulla.
«Dai, dicci che cos’hai in mente!»
La mamma fece un sorrisetto; in effetti ci voleva chiedere un favore. «Ecco… si tratta di Kathy. Mi ha chiamato al lavoro per dirmi che domani non potrà occuparsi di David Michael. C’è qualcuno di voi ragazzi così gentile…»
«Allenamento» ribatté subito Charlie.
«Lezione di matematica, mammina» gli fece eco Sam.
«Baby-sitting dai Newton» dichiarai quando toccò a me.
«Accidenti!» disse la mamma.
«Però ci dispiace davvero» aggiunse Sam.
«Lo so.»
Ci tuffammo sulla pizza mentre la mamma cominciava a fare telefonate.
Chiamò Mary Anne, ma lei era impegnata con i Pike. Chiamò Claudia, che aveva uno dei suoi corsi. Chiamò anche due ragazze delle superiori… niente da fare. David Michael stava per scoppiare a piangere.
Alla fine la mamma chiamò la signora Newton e le chiese se per lei era un problema che portassi David Michael con me mentre mi occupavo di Jamie; per fortuna, la signora Newton non aveva problemi.
Ingollai un boccone appiccicoso di formaggio e peperoni pensando che era davvero un peccato che la pizza della mamma diventasse fredda per colpa di tutte quelle telefonate.
Pensai anche a quanto fosse brutto che David Michael dovesse sentirsi in colpa solo perché aveva sei anni e non poteva ancora stare da solo.
Fu in quel momento che mi venne l’idea del Club delle baby sitter… e per poco non soffocai!
Quella sera faticai ad aspettare le nove per comunicare a Mary Anne, con le torce, la mia idea geniale.