“Maggiore!”
Alexander aprì gli occhi di colpo. Era ancora nell’aula dell’interrogatorio, sulla seggiola di legno; ancora sotto la sorveglianza di Ivanov. Slonko entrò con passo deciso. Non aveva più il comportamento informale e amichevole di poco prima.
“Bene, maggiore, a quanto pare dovrà smetterla con i suoi giochetti.”
“D’accordo”, disse Alexander. “Non sono in vena di scherzi.”
“Maggiore!
“Perché urlate tutti?” chiese Alexander portandosi le mani alla testa. Era come se stesse per esplodergli il cranio.
“Conosce una donna di nome Tatiana Metanova, maggiore?”
Rimanere calmo era ancora più difficile di quanto non lo fosse stato quando gli parlavano della madre. Si ancorava saldamente alla forza di volontà. Se fosse riuscito a superare quella prova, avrebbe potuto superare qualunque cosa. Non sapeva se fosse meglio mentire o dire la verità. Slonko stava chiaramente tramando qualcosa.
“Sì”, rispose Alexander.
“E chi sarebbe?”
“Era una delle infermiere dell’ospedale di Morozovo.”
“Era?”
“Be’, io non sono più là al momento, non è così?”
“Sembra che non ci sia nemmeno l’infermiera.”
Non era una domanda. Alexander non aprì bocca.
“È più di un’infermiera, non è vero, maggiore?” incalzò Slonko tirando fuori dalla tasca il passaporto di Alexander. “Proprio qui c’è scritto che è sua moglie.”
“Sì”, ammise Alexander. Tutta la sua vita in una riga. Cercò di rimanere calmo. Si fece forza. Sapeva che Slonko non si sarebbe accontentato e doveva tenersi pronto.
“Ah, allora è vero che è sua moglie.”
“Si.”
“E dove si trova al momento?”
“Dovrei essere onnisciente per saperlo. Non lo so.”
“Ce l’abbiamo noi”, disse Slonko piegandosi in avanti. “È in nostra custodia.” Rise soddisfatto. “Cosa ne pensa, maggiore?”
“Cosa ne penso?” ripeté Alexander senza distogliere lo sguardo dal suo inquisitore. Incrociò le braccia e aspettò. “Potrei avere una sigaretta?” chiese, e gliene portarono una. La accese con mano ferma. Prima che qualcun altro parlasse Alexander stabilì che Slonko stava bluffando. Decise di credere che stesse bluffando. Il giorno prima Stepanov gli aveva detto che Tatiana era scomparsa e nessuno era riuscito a trovarla. Gli aveva anche detto che gli uomini di Mechlis erano nel panico. Ma nelle precedenti conversazioni, Slonko non aveva accennato a nulla del genere. Assolutamente nulla, come se fosse ignaro della faccenda. Poi all’improvviso aveva tirato fuori dal cappello la storia di Tatiana, pavoneggiandosi. Stava bluffando. Se davvero fosse stata nelle loro mani gli avrebbero fatto domande in proposito anche prima. Slonko avrebbe di certo accennato al fatto che la stavano cercando. Invece non era stata fatta parola di Dimitri, né di Sayers, né tanto meno di Tatiana.
Ma lui non era solo e Slonko aveva con sé tre guardie che gli puntavano la luce accecante in faccia; era debole per la mancanza di sonno, per la stanchezza mentale, per la ferita alla schiena che pulsava e per il peso che gli opprimeva il cuore. Non disse nulla, ma quello sforzo gli costò molto. Su quante altre risorse poteva contare? Nel 1936, quando era stato arrestato, era nel pieno delle forze e sano. Perché non aveva incontrato Slonko allora? Strinse i denti e attese il resto.
“Sua moglie è sotto interrogatorio in questo esatto momento...”
“Con un altro che non è lei, Slonko?” chiese Alexander. “Sono sorpreso, compagno, che possiate affidare a un’altra persona un compito così delicato. Devono esserci uomini molto qualificati nella squadra.”
“Maggiore, ricorda cosa accadde tre anni fa, nel 1940?”
“Sì. Stavo combattendo nella guerra contro la Finlandia. Venni ferito e ricevetti una medaglia al valore e poi fui promosso sottotenente.”
“Non parlavo di questo.”
“Ah!”
“Nel 1940 il governo sovietico stabilì delle leggi per le donne che non rinnegano il marito per crimini commessi contro l’articolo 58 del Codice Penale. Il mancato ripudio del coniuge è un crimine punibile con dieci anni in un campo di lavoro. Ne sa niente?”
“Non molto, compagno, per fortuna. Nel 1940 non ero sposato.”
“Voglio mettere le cose in chiaro, maggiore Belov, perché sono stanco di questi giochetti. Sua moglie, il dottor Sayers e un uomo di nome Dimitri Černenko hanno tentato di fuggire...”
“Aspetti”, lo interruppe Alexander. “Di certo il dottor Sayers non stava fuggendo. Non era con la Croce Rossa? Loro sono liberi di attraversare i confini, non è così?”
“Sì”, scattò Slonko. “Ma sua moglie e il soldato, no. In un incidente al confine hanno sparato al soldato Černenko.”
“Era per caso lui il vostro testimone?” Sorrise. “Spero che non si trattasse dell’unico...”
“Sua moglie e il dottor Sayers hanno proseguito verso Helsinki.”
Alexander continuò a sorridere.
“Ma il dottore era gravemente ferito. E sa come facciamo a saperlo, maggiore? Perché abbiamo chiamato l’ospedale di Helsinki. Ci hanno detto che il dottore è morto due giorni fa.”
Il sorriso si gelò sul viso di Alexander.
“Ci è stato inoltre riferito dai solerti medici della Croce Rossa che il dottor Sayers era arrivato con un’infermiera della Croce Rossa, anch’essa ferita. Coincide con la descrizione di Tatiana Metanova. Piccola, bionda, apparentemente incinta. Uno sfregio sul viso. Potrebbe essere lei?”
Alexander non si mosse.
“Io l’ho pensato. Abbiamo chiesto al dottore di trattenerla fino all’arrivo dei nostri uomini. L’abbiamo ritrovata all’ospedale di Helsinki e l’abbiamo riportata indietro questa mattina. Ha qualche domanda?”
“Sì”, disse Alexander facendo un enorme sforzo per alzarsi. Poi decise di rimanere seduto. Irrigidì il viso, le braccia e l’intero corpo. Ma non servì a nulla. Le gambe tremavano. Ma con voce ferma chiese: “Cosa volete da me?”
“La verità.”
Il tempo... che cosa strana. Il mese di luna di miele a Lazarevo era volato; svanito in un istante. E invece adesso il tempo sembrava immobile, mentre Alexander tentava di mantenersi calmo, di respirare. Per un attimo, mentre guardava il pavimento di legno sporco, pensò di dire la verità, per salvare lei. Firmerò quei fottuti documenti. Per me in effetti è la verità. Io sono la persona che lui sta cercando. Ma poi tornò con la mente al caporale Maikov. La sua verità era che non ne sapeva nulla e di certo non conosceva Alexander. Quale verità poteva aver rivelato prima che lo uccidessero? Per Slonko le bugie erano verità e la verità menzogna. Le risposte date, le risposte nascoste, sono solo una finzione, ma il successo della sua missione si basa su quante menzogne riesce a cavare dalle nostre bocche. Lui non pensa che io sia Alexander Barrington, più di quanto potesse pensarlo Maikov. Vuole solo che io menta in modo da poter dire che il suo compito è andato a buon fine. Vuole il diciassettenne che non è mai riuscito a interrogare, per punire il coraggio – l’impudenza! – di un agitatore prigioniero fuggito. Ecco cosa lo spinge. Vuole solo che io firmi un pezzo di carta che lo autorizzi a uccidermi, ora, sette anni più tardi, che io sia o no Alexander Barrington. Vuole l’assoluzione per il mio omicidio. Con la confessione gliela offrirei.
Slonko stava distorcendo la verità per cercare di indebolire Alexander. Tatiana era scomparsa: e questo era vero. La stavano cercando: vero anche questo. Forse avevano chiamato la Croce Rossa di Helsinki. Forse avevano scoperto che Sayers era morto. Povero Sayers! Probabilmente avevano saputo che con lui c’era un’infermiera e, senza conoscerne il nome, ma dalla sola descrizione, avevano dedotto che si trattava della moglie di Alexander. Erano passati pochi giorni. Potevano davvero aver mandato uno dei loro funzionari a Helsinki così in fretta? Avevano problemi a recuperare i camion di rifornimenti da Leningrado che si trovava a soli settanta chilometri da lì. Helsinki era a cinquecento chilometri. Potevano averla realmente intercettata e riportata indietro?
Possibile che Tatiana si fosse fermata a Helsinki? Certo, Alexander le aveva detto che non avrebbero dovuto fermarsi in quella città, ma lei, distrutta dal dolore, se ne sarebbe ricordata?
Alexander sollevò lo sguardo verso Slonko, che lo fissava con l’espressione soddisfatta di un uomo pronto a far festa. Di un uomo che sta per essere testimone dell’incornata del matador.
“C’è qualche verità che ancora non avete saputo da me?” disse freddo Alexander.
“Forse, maggiore Belov, lei non tiene alla sua vita, ma sono sicuro che parlerà con noi quando ci sarà in ballo quella di sua moglie incinta.”
“Le ripeto la domanda, compagno, nel caso non l’abbia sentita la prima volta. C’è qualcosa che volete e io non vi ho dato?”
“Sì, non ci ha dato la verità!” esclamò Slonko schiaffeggiando Alexander con forza.
“No!” ribetté Alexander a denti stretti. “Quello che non vi ho dato è la soddisfazione di sapere che avete ragione. Pensavate di aver finalmente preso l’uomo a cui davate la caccia. E io vi dico che state sbagliando. Non potrete sfogare su di me la rabbia per la vostra impotenza. Devo essere portato davanti a un tribunale militare. Non sono uno dei vostri insignificanti prigionieri politici che sottomettete senza scrupoli. Sono un ufficiale decorato dell’Armata Rossa. Ha mai servito il Paese in guerra, compagno?” Si alzò. Era di due spanne più alto di Slonko. “Non credo. Voglio essere portato davanti al generale Mechlis. Risolveremo la questione immediatamente. Vuole arrivare alla verità, Slonko? Si sbrighi, allora. La guerra ha ancora bisogno di me. Mentre lei deve tornare nella sua prigione a Leningrado.”
Slonko imprecò. Ordinò alle guardie di farlo sedere, cosa che quelle fecero con una certa difficoltà. “Non avete autorità su di me”, disse Alexander a voce alta. “Non avete niente contro di me. Il mio accusatore è morto, altrimenti lo avreste portato. Chi ha autorità su di me sono il mio ufficiale comandante, il colonnello Stepanov, e il generale Mechlis, che ha disposto il mio arresto. Le diranno che ho ricevuto l’Ordine della Stella Rossa in presenza di cinque generali del nostro esercito prima dell’operazione Spark. Sono stato ferito durante la missione sul fiume Neva e in virtù del mio impegno in guerra ho ricevuto la medaglia di Eroe dell’Unione Sovietica.”
Slonko non riusciva quasi a proferire parola. “Dov’è questa medaglia, maggiore?”
“La custodisce mia moglie. Di certo se lei è nelle vostre mani avrete modo di darle un’occhiata.” Alexander sorrise. “Sarà la sua unica opportunità di vedere una medaglia del genere.”
“Sono io l’ufficiale incaricato dell’interrogatorio!” urlò Slonko rosso in faccia, e lo schiaffeggiò ancora una volta.
“Stronzate!” urlò Alexander. “Lei non è un ufficiale! Io sono un ufficiale. Forse è in grado di esercitare il suo potere con le donne, ma con me non funziona.”
“È qui che sbaglia, maggiore”, disse Slonko. “Io ho potere su di lei, e sa perché?”
Visto che Alexander non rispondeva, Slonko gli si avvicinò e sibilò maligno: “Perché presto avrò potere su sua moglie”.
“Davvero?” disse Alexander liberandosi dalle guardie e alzandosi. “Ne sarei molto sorpreso. Non ha potere sulla sua, mi domando come possa averne sulla mia.”
Slonko non indietreggiò. “Oh, stia sicuro che le riferirò tutto quello che succederà.”
“La esorto a farlo, così saprò subito che sta mentendo.”
Slonko ringhiò.
“Compagno”, disse Alexander, “non sono l’uomo che state cercando.”
“Lei è quell’uomo, maggiore. Le sue parole e i suoi gesti non fanno che aumentare la mia convinzione.”
Tornato nella sua piccola cella fredda Alexander ringraziò Dio per i vestiti che aveva addosso. Avevano lasciato la lampada a cherosene nella cella e l’occhio della guardia non si spostava mai dallo spioncino.
Alexander era convinto che l’intera vicenda non avesse nulla a che vedere con l’ideologia comunista contraria all’imperialismo, né con il tradimento o lo spionaggio, ma solo con l’orgoglio di un uomo insignificante.
Dimitri e Slonko erano fatti della stessa pasta. Dimitri, con la sua meschinità di mente e di cuore, era stretto parente di Slonko, che però fondava la sua malizia su un certo potere. Dimitri non aveva nulla e quell’impotenza lo rendeva ancora più furioso. Ora era morto. Ma era morto comunque troppo tardi.
Era seduto nell’angolo quando sentì il rumore del lucchetto. Sospirò. A quanto pareva non avevano intenzione di lasciarlo in pace.
Slonko entrò lasciando la porta aperta. Le guardie restarono fuori. Ordinò ad Alexander di alzarsi. Lui obbedì con riluttanza e rimase in piedi piegato leggermente in avanti per non toccare il soffitto troppo basso, in una posizione che l’inquisitore avrebbe potuto interpretare come un gesto di sottomissione.
“Bene, bene. Sua moglie è una donna piuttosto interessante”, disse Slonko.
“Davvero?”
“Sì, ho appena finito con lei.” Si sfregò le mani. “Davvero interessante.”
Alexander lanciò una rapida occhiata alla porta. Dov’era la guardia? Infilò la mano nella tasca interna dei mutandoni e Slonko gridò: “Cosa sta facendo?” Ma non era armato.
“Mi faccio un’iniezione di penicillina”, rispose Alexander. “Il colonnello Stepanov ha acconsentito che la tenessi. Sono stato ferito. La schiena mi fa male.” Sorrise. “Devo prendere la medicina. Non sono più l’uomo che ero a gennaio, compagno.”
“Buono a sapersi”, commentò Slonko. “È lo stesso uomo che era nel 1936?”
“Sì, sono ancora quell’uomo.”
“Mentre si sistema lasci che le dica cosa ci ha rivelato sua moglie...”
“Prima che vada avanti”, lo interruppe Alexander aprendo la fialetta di morfina senza guardare Slonko, “ho letto che ci sono Paesi nel mondo in cui è contro la legge costringere una moglie a dare informazioni sul marito. Incredibile, vero?” Infilò l’ago nella fialetta e aspirò lentamente la soluzione nella siringa.
“Oh, non l’abbiamo costretta”, Slonko sorrise. “Ha ceduto di buon grado, direi.” Sorrise di nuovo. “E non è l’unica cosa...”
“Compagno!” urlò Alexander facendo un piccolo passo avanti. “Ti avverto. Non continuare.” Era a mezzo metro di distanza da lui. Avrebbe potuto appoggiargli una mano sulla spalla in un gesto fraterno, se fosse stato opportuno. Ma non lo era.
“No?”
“No”, disse Alexander. “Fidati, compagno Slonko. Stai provocando la persona sbagliata.”
“Oh, e come mai?” disse Slonko gentile. “Perché non si lascerà provocare?”
“Direi il contrario.”
Slonko tacque.
Alexander anche.
“Be’, non deve riempirsi di penicillina, maggiore?”
“Quando se ne andrà lo farò.”
“Non me ne vado.”
Alexander scosse la testa senza spostarsi da dov’era. “So che lei è un uomo ligio al dovere e immagino che avrà organizzato un tribunale militare per me. Di sicuro la lasceranno assistere al procedimento, così potrà ascoltare un innocente che viene assolto in un Paese comunista.”
“Nel suo Paese, maggiore”, Slonko lo corresse.
“Nel mio Paese comunista”, convenne Alexander senza muovere una sola parte del corpo. La cella era lunga circa due metri e larga uno. Aspettò. Sapeva che Slonko non aveva organizzato nulla. Non gli era stata conferita l’autorità per farlo: né per un tribunale, né per un’esecuzione o per un vero e proprio interrogatorio. Voleva una confessione che non interessava a nessun altro. Per quanto ne sapeva, dal momento che il testimone chiave era stato trovato morto nella neve, Mechlis poteva aver già dato l’ordine di liberare Belov. Non potevano permettersi di perdere uomini validi e Stalin non aveva emanato alcun ordine in merito alla morte di Belov. Ma allo stesso tempo Slonko non cedeva. Perché?
Slonko non poteva toccarlo. Non era neppure degno della considerazione di Alexander. Ecco dov’era arrivato il proletariato. Un uomo come Slonko, uno sbirro del partito per tutta la vita, non aveva alcun potere su un uomo come Alexander, a cui aveva dato la caccia per sette anni.
Questo era giusto nel mondo di Alexander, ma era completamente sbagliato in quello di Slonko.
Alexander aspettò ancora. Dopo qualche minuto disse: “Perché non te ne vai, compagno, e non torni con qualcosa di più concreto? Portami davanti ai generali. Oppure portami l’ordine di scarcerazione”.
“Maggiore, lei non tornerà mai più in libertà. L’ho consigliato io stesso.”
“Quando morirò sarò libero.”
“Non le permetterò di morire. Sua madre è morta. Suo padre è morto. Io voglio che lei viva la vita che loro avevano progettato e per cui la portarono qui. Non facevano che pensare al loro figlio, Alexander Barrington. Me lo hanno detto entrambi. Crede di aver realizzato i loro sogni?”
“Non posso dire nulla di quelle persone, ma so di aver realizzato le speranze di mia madre e di mio padre. Erano semplici contadini. Io sono entrato nell’Armata Rossa. Sarebbero fieri di me.”
“E cosa mi dice delle speranze di sua moglie, maggiore?”
“Compagno, te lo ripeto... non parlarmi di mia moglie.”
“No? Lei invece mi è sembrata abbastanza bendisposta a parlare. Quando non era disposta a... fare altro...”
“Compagno!” Alexander fece un passo avanti. “Questa è l’ultima volta. Non ce ne sarà un’altra.”
“Non me ne andrò.”
“Invece te ne andrai. Sei congedato. Ritorna quando avrai qualcosa.”
“Oh, non me ne vado, maggiore”, disse Slonko. “Più lei desidera che io me ne vada, più io desidero restare.”
“Non ne dubito. Ma in ogni caso te ne andrai.” Alexander rimase immobile come una statua. Senza quasi respirare.
“Maggiore! Non sono io quello agli arresti. Non è mia moglie quella che è stata arrestata. Non sono io l’americano.”
“Per quanto riguarda l’ultima cosa, non lo sono neppure io.”
“Lo è, lo è, maggiore. Me lo ha detto sua moglie mentre mi succhiava il cazzo.”
La mano di Alexander si abbatté sulla gola di Slonko, che non ebbe neppure il tempo di respirare. La testa sbatté contro il muro di cemento, gli occhi strabuzzati, la bocca aperta. Con la mano libera Alexander affondò la siringa contenente dieci dosi di morfina nello sterno dell’uomo, dritto nella cavità destra del cuore. Premette lo stantuffo con il palmo e nel frattempo gli chiuse la mascella. Anche se avesse voluto, Slonko non sarebbe riuscito a emettere alcun suono.
Alexander gli parlò in inglese: “Sono sorpreso. Non sapevi con chi avevi a che fare? È strano come a volte si pensi di sapere tutto, anche se in realtà si sa così poco.” Digrignando i denti strinse il collo di Slonko. Gli occhi dapprima si annebbiarono dopo di che divennero vitrei. “Questo è per mia madre e mio padre... e per Tatiana”, sussurrò.
Slonko fu percorso da convulsioni e si accasciò a terra. Alexander lo sorresse con la mano premuta sulla gola, mentre i muscoli del collo si tendevano e poi si rilassavano. Le pupille erano dilatate e quando smise di battere le palpebre, rimanendo a occhi aperti, Alexander lo lasciò andare. L’investigatore capo cadde a terra come un sacco di patate. Alexander gli tolse la siringa vuota dal petto e la buttò nel tubo di scarico, si affacciò alla porta e urlò: “Guardia! Guardia! Il compagno Slonko non sta bene!”
La sentinella si precipitò, guardò nella stanza e vide Slonko accasciato sul pavimento. “Cos’è successo?” chiese, confuso.
“Non lo so”, rispose Alexander calmo. “Non sono un medico, forse sarebbe il caso di chiamarne uno. Credo che il compagno abbia avuto un attacco di cuore.”
La guardia non sapeva se correre, rimanere lì, lasciare il prigioniero, portarlo con sé. Non sapeva se chiudere la porta o lasciarla aperta. La confusione era così evidente sulla sua faccia pallida che Alexander, con un sorriso gentile, disse: “Lo lasci qui e mi porti con lei. Non c’è bisogno di chiudere la cella. Non andrà da nessuna parte”.
La guardia afferrò Alexander e corsero insieme lungo le scale, attraversarono la scuola, uscirono e arrivarono all’alloggio del comandante. “Non so neppure con chi devo parlare”, ammise il soldato in tono sconsolato.
“Andiamo a parlare con il colonnello Stepanov. Lui saprà cosa fare.”
Dire che Stepanov fu sorpreso di vedere Alexander sarebbe stato poco. La guardia era in preda a un tale panico che non riuscì neppure a parlare. Borbottò qualcosa su Slonko. Non aveva udito alcun rumore, stava facendo il suo dovere vicino alla porta e non aveva udito nulla. Stepanov lo esortò a calmarsi, ma il soldato non sembrava in grado di eseguire semplici ordini. Alla fine il colonnello dovette offrirgli un bicchiere di vodka, prima di girarsi verso il prigioniero con espressione perplessa.
“Signore”, disse Alexander, “il compagno Slonko è collassato mentre era nella mia cella. La guardia si era appena allontanata”, fece una pausa. “Forse era occupata in faccende private. Ha paura perché pensa che si possa dire che non stava facendo il suo dovere. Io so per certo che è diligente e attento, e penso che non avrebbe potuto fare niente per il compagno, la cui ora era ormai giunta.”
“Mio Dio, Alexander”, mormorò Stepanov alzandosi e vestendosi in fretta. “Questo vuol dire che Slonko è morto?”
“Non lo so, signore. Non sono un medico. Però le suggerirei di chiamarne uno. Forse si può ancora fare qualcosa.”
Trovarono un medico che si presentò alla cella. Scrollò le spalle e, senza neppure tastargli il polso, dichiarò l’uomo morto. La cella era impregnata di un odore ripugnante che prima non c’era. Uscirono tutti trattenendo il respiro.
“Oh, Alexander”, disse Stepanov.
“Signore, a quanto pare sono sfortunato.”
Nessuno sapeva cosa fare con Slonko. Era andato nella cella di Alexander alle due del mattino. Tutti dormivano e nessuno voleva occuparsi della faccenda. Non c’era nessun posto in cui mettere il prigioniero che si dichiarò pronto a dormire nell’anticamera dell’alloggio del colonnello con una guardia al fianco. Stepanov e la sentinella acconsentirono. Si sdraiarono sul pavimento. Il colonnello portò una coperta ad Alexander. “Grazie, signore”, gli disse lui abbassando la testa. Stepanov lanciò un’occhiata alla guardia che tremava nell’angolo e poi si rivolse di nuovo ad Alexander cercando di non farsi sentire. “Cosa diavolo sta succedendo, maggiore?” sussurrò.
“Me lo dica lei, colonnello”, rispose Alexander. “Cosa sta succedendo? Cosa voleva Slonko da me? Continuava a dirmi che hanno portato qui Tatiana da Helsinki e che lei ha confessato. Di cosa stava parlando?”
“È un vero mistero”, ammise Stepanov. “L’hanno cercata dappertutto, ma non è da nessuna parte. Le persone non scompaiono così, in Unione Sovietica...”
“In realtà, signore, spariscono in continuazione.”
“Non senza lasciare traccia.”
“Sì, senza lasciare traccia.”
“Basta così!”
“Signore.”
“Sto dicendo che quando l’ospedale ha detto all’NKGB...”
“Come?”
“Ah, non sei stato informato? Non esiste più l’NKVD. Ora è l’NKGB. Il Comitato del popolo per la sicurezza dello Stato. Stessa agenzia, nome diverso. È il primo cambiamento di nome dal 1934.” Stepanov fece spallucce. “Comunque, quando all’NKGB sono stati informati che Sayers e Metanova non erano arrivati all’ospedale di Leningrado, hanno cominciato a sospettare. Hanno trovato un furgone rovesciato, quattro soldati sovietici morti e qualche finlandese, nessuna attrezzatura per il pronto soccorso sul furgone e inoltre il simbolo della Croce Rossa era stato strappato dal telone. Nessuno ha saputo dare una spiegazione. Nessuna traccia né del dottore né dell’infermiera. Sei stazioni di confine lungo la strada dicono di aver controllato i documenti di un’infermiera e di un dottore di ritorno a Helsinki con un pilota finlandese ferito a bordo. Non ricordano il nome dell’infermiera, ma giurano che fosse americana. Per il momento abbiamo il pilota finlandese ferito. Non è finlandese, non è neppure un pilota e ferito mi pare un eufemismo, date le sue condizioni. Si tratta del soldato Dimitri Černenko ed è pieno di buchi. Questa è la situazione. Lui è morto e il dottore e l’infermiera sono svaniti nel nulla. Così Mitterand chiama l’ospedale della Croce Rossa di Helsinki e si imbatte in un dottore che non parla una parola di russo. A quegli idioti incapaci” – la voce era un sussurro – “ci è voluta una giornata intera per trovare qualcuno che parlasse inglese.” Sorrise. “Volevo proporre te.”
Alexander rimase seduto immobile.
“Insomma, alla fine hanno fatto venire qualcuno da Volchov che parlasse inglese con il dottore. Da quanto ho capito, Matthew Sayers è morto.”
“Quindi questa notizia era vera.” Sospirò. “Hanno un modo tale di mescolare le menzogne più assurde con la verità che si può impazzire a cercare di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è.”
“Si, Sayers è morto a Helsinki. Setticemia causata dalle ferite. Per quanto riguarda l’infermiera che era con lui, il dottore ha detto che se ne era andata e non la vedeva da due giorni. Credeva che non si trovasse più in Finlandia.”
Alexander fissò il colonnello con aria triste, dispiaciuto, ma allo stesso tempo sollevato. Erano troppe le emozioni. Non sapeva cosa provare, né cosa dire. Per un momento assurdo fu dispiaciuto di sapere che Tatiana non era stata riportata indietro. Pensava che avrebbe potuto rivederla un’ultima volta. Ma alla fine considerò la faccenda con obiettività. “Grazie, signore”, sussurrò.
Stepanov gli diede una pacca sulla spalla. “Ora dormi. Hai bisogno di recuperare un po’ di forze. Hai fame? Ho delle salsicce affumicate e del pane.”
“Me le lasci, ma ora preferisco dormire.”
Stepanov scomparve nei suoi alloggi e Alexander, sentendo finalmente allentarsi la morsa dell’angoscia, prima di dormire pensò che Tatiana doveva aver ascoltato quanto le aveva detto. Non era rimasta a Helsinki. Doveva essere partita per Stoccolma. Pensò anche che il dottor Sayers doveva essersi comportato bene fino alla fine, perché se le avesse rivelato la verità, Tatiana sarebbe tornata subito indietro, dritta nelle grinfie dell’uomo che... Oh, Tatiana...
Ma era tutto quello che aveva.
Almeno quel bastardo di Dimitri era morto.
Dormì un sonno intermittente.
Ad Alexander avevano domandato chi era quando aveva diciassette anni, nella prigione di Kresty, dopo l’arresto. A quell’epoca non importava... lo sapevano già. Lo domandavano e poi se ne andavano, a volte per giorni interi, poi tornavano. Finché dissero: “Sei Alexander Barrington?”
“Sì, lo sono”, rispose Alexander, perché allora non aveva altre risposte e pensava che la verità avrebbe potuto proteggerlo.
Gli lessero la condanna. Nessuna aula di tribunale per lui, né una giuria militare. Solo una cella di cemento vuota e senza finestre con sbarre alle porte, un buco nel cemento come gabinetto, nessuna privacy e una lampadina appesa al soffitto. Lo fecero alzare mentre leggevano qualcosa da un foglio con voce tonante. Erano in due e, come se Alexander non avesse capito quello che diceva il primo, l’altro prese il foglio e glielo lesse di nuovo.
Sentì il suo nome, pronunciato chiaro e forte, “Alexander Barrington”, e udì la sentenza, chiara e forte: “Dieci anni in un campo di lavoro a Vladivostok per agitazione antisovietica a Mosca nel 1935 e per il tentativo di indebolire l’autorità e lo Stato sovietico con domante triviali e illegittime che mettevano in discussione le lezioni di economia del loro Padre e Maestro”. Li sentì pronunciare la frase “dieci anni” e pensò che si fossero sbagliati a leggere. Poi glielo rilessero per la seconda volta. Stava quasi per chiedere dove fosse suo padre. Lui avrebbe potuto spiegare tutto, risolvere la faccenda e dirgli cosa fare.
Ma rimase zitto. Sapeva che qualunque cosa stesse capitando a lui stava capitando anche ai suoi genitori, così come era successo alle altre ottantasette persone che avevano vissuto con loro nell’hotel di Mosca, come era successo al gruppo di suonatori che a volte Alexander andava ad ascoltare, come era successo al gruppo di comunisti a cui lui e suo padre appartenevano, come era successo al vecchio Slavan, che un tempo era stato felicemente esiliato sotto Nicola n.
Si chiese anche se Nikita fosse nella vasca da bagno di qualche altro hotel, ma non lo riteneva possibile.
Gli domandarono se comprendeva le accuse che gli venivano imputate e la punizione inflitta.
Non capiva le accuse. Non capiva la punizione. Annuì ugualmente.
Era occupato a immaginare la vita che lo aspettava. Quella che il padre aveva voluto per lui. Avrebbe voluto chiederlo a lui se passare la giovinezza a portare a termine due piani quinquennali pretesi da Stalin per l’industrializzazione della Russia sovietica – Alexander aveva ben chiaro cosa non funzionava nello Stato socialista – era ciò che Harold aveva desiderato per lui. Ma non era lì per rispondere.
Il destino di Alexander era quello di estrarre oro dalle miniere della tundra siberiana perché lo Stato utopistico non era in grado di pagarlo?
“Qualche domanda?”
“Dov’è mia madre?” domandò. “Voglio salutarla.”
Le guardie risero. “Tua madre? E come diavolo facciamo a sapere dov’è? Parti domani mattina. Vedremo di riuscire a trovarla prima.”
Se ne andarono ridendo. Alexander rimase lì in piedi.
Il giorno seguente fu caricato su un treno diretto a Vladivostok. L’uomo spaventato, rannicchiato accanto a lui, disse: “Siamo fortunati che ci portano a Vladivostok. Sono appena tornato dal Perm-35. Quello sì che è l’inferno”.
“Oh. E dove si trova?”
“Intorno alla città di Molotov. Ne hai sentito parlare? Vicino ai monti Urali e al fiume Kama. Non è lontano quanto Vladivostok, ma è molto peggio. Nessuno sopravvive, laggiù.”
“Tu sei sopravvissuto.”
“Perché ci sono rimasto solo due anni. Ho superato la mia quota di produzione per quattro trimestri di seguito. Erano contenti della mia produttività capitalista.”
Alexander trovò Vladivostok su una mappa e capì immediatamente che, sebbene non avesse soldi né casa, doveva scappare se voleva avere una minima possibilità di sopravvivere. Quella città si trovava nella regione più sperduta del mondo e, se esisteva un inferno in terra, doveva essere a Vladivostok. Avrebbe viaggiato su un carro bestiame attraverso i monti Urali, le pianure occidentali e l’altipiano centrale della Siberia, oltre la Mongolia e intorno alla Cina per marcire in una città industriale fatta solo di cemento su una sottile striscia di terra sulle coste del Mar del Giappone. Era sicuro che non avrebbe fatto ritorno dall’eternità che Vladivostok rappresentava.
Per mille chilometri guardò fuori dalla piccola feritoia del treno, o dalle porte che le guardie di tanto in tanto aprivano per dare un po’ d’aria ai prigionieri. Vide la sua opportunità quando stavano per attraversare il fiume Volga. Salterò, pensò. Il Volga scorreva sotto il malfermo ponte che attraversava il precipizio, a circa trenta metri di altezza, cento piedi americani. Alexander non conosceva il Volga. Era un fiume dal letto roccioso? Era profondo? Scorreva veloce? Vide che era largo e sapeva che sfociava nel Mar Caspio, mille chilometri a sud, nella regione dell’Astrakan. Non sapeva se avrebbe avuto un’altra possibilità, migliore. Ma sapeva che se fosse riuscito a sopravvivere al tuffo nel Volga sarebbe potuto andare verso una delle repubbliche del Sud. Magari la Georgia, o l’Armenia, per poi attraversare il confine con la Turchia. Avrebbe voluto avere con sé i dollari americani di sua madre. Quando erano tornati dal viaggio fallimentare a Mosca aveva riportato il libro in biblioteca e poi era stato arrestato così in fretta che non aveva più avuto la possibilità di riprenderlo. Ma anche senza soldi sapeva che le sue uniche possibilità erano la morte o la fuga.
Guardò sotto e gli si attorcigliarono le budella. Aveva qualche speranza di sopravvivere? Di certo non aveva intenzione di morire. Gli tornò in mente William Miller, di Barrington. Il suo amico biondo, bello e famoso. Andava a lezione di nuoto fin da piccolo. Sapeva saltare e fare le capriole e trattenere il respiro sott’acqua. Nuotava più veloce e si tuffava meglio di qualsiasi altro bambino di Barrington, compreso Alexander, che di certo non temeva la competizione. Un pomeriggio d’estate, quando avevano otto anni, stavano giocando a Tarzan nella piscina olimpionica a casa di William e si tuffavano a bomba nella parte più profonda, in quelli che dovevano essere quattro metri d’acqua. William si era buttato da un trampolino alto sessanta centimetri in quattro metri d’acqua, ma non aveva considerato Ben lo spilungone, che abitava in fondo alla via e che, proprio in quel momento, nuotava troppo vicino al trampolino. William vide Ben un microsecondo troppo tardi e si inclinò a sinistra per evitarlo. Batté la testa contro la parete della piscina con un colpo sordo e da quel momento in poi William Miller andò in giro su una carrozzella accompagnato da un’infermiera a tempo pieno e si alimentava grazie a un tubicino nella pancia. Strano? Poteva forse essere più strano di un ragazzo di diciassette anni, alto circa un metro e novanta per ottanta chili di peso, che si butta da trenta metri in un fiume che potrebbe essere profondo tre metri con un letto roccioso? Non poteva appellarsi alle immutabili leggi della fisica in quel caso, ma qualcosa gli diceva che non erano a suo favore. Non c’era tempo per aver paura, né per riflettere. Sapeva che avrebbe potuto saltare verso la morte. Ne era cosciente. Il suo stomaco lo sapeva. Il cuore che stava per esplodere lo sapeva. Ma la morte sarebbe stata quanto meno rapida. Si fece il segno della croce. A Vladivostok sarebbe morto per il resto della vita.
Sussurrando una preghiera, saltò dal treno, solo con la divisa da prigioniero che indossava.
Trenta metri era un salto non indifferente, ma bastarono pochissimi secondi e quando toccò l’acqua il treno aveva quasi raggiunto l’altra sponda del fiume. Aveva saltato di piedi nella speranza che il Volga fosse abbastanza profondo per attutire il colpo. Lo era. Ed era anche molto freddo, la corrente forte. Fu afferrato dalla corrente e trasportato per almeno mezzo chilometro e per tutto il tragitto si dibatté nel tentativo di respirare. Quando riuscì a girare la testa verso il ponte il treno era un puntino in lontananza. Non sembrava che si fosse fermato. Non era neppure sicuro che qualcuno lo avesse notato, a parte il prigioniero seduto di fianco a lui che non aveva fatto altro che sogghignare da Leningrado fino al Volga, mormorando frasi del tipo: “Un ragazzo grande e grosso come te... aspetta di arrivare a Vladivostok e vedrai come ti ridurranno...”
Non voleva rischiare di uscire dall’acqua prima che il ponte fosse scomparso dalla vista. Nuotò seguendo la corrente per circa cinque chilometri e quando fu troppo stanco si issò a riva. Era estate e si asciugò in fretta. Cavò delle patate dal terreno e le mangiò crude, si tolse i vestiti, si preparò un letto di foglie, costruì una sorta di baldacchino di rami (doveva essere grato al periodo passato negli scout) e dormì. Quando si svegliò gli facevano male le gambe e i vestiti erano umidi. Non sapeva come procurarsi altri abiti, così decise di accendere un fuoco per asciugarli. Li rivoltò in modo che il grigio della divisa della prigione non fosse più tanto visibile. Prese delle foglie e macchiò gli indumenti di verde, per mascherare ancora meglio il colore. Usò anche del fango e qualche fragola. Quando i vestiti non sembravano più quelli offerti dall’NKVD si rimise in marcia, rimanendo vicino alla riva.
Viaggiò seguendo il corso del fiume su chiatte e barche di pescatori offrendo i suoi servigi, finché uno di questi non gli chiese il passaporto. Dopo quell’episodio Alexander decise di cambiare percorso e si diresse nell’entroterra, sperando di trovare la strada che lo avrebbe portato alle montagne tra la Georgia e la Turchia. Si teneva alla larga da pescatori e contadini. Sapeva che prima o poi qualcuno gli avrebbe chiesto il passaporto e non sarebbe più riuscito a liberarsi. Il suo gli era stato sottratto e in cambio gli era stato dato un libretto di lavoro del campo di prigionia. Di certo non avrebbe potuto mostrare quello. Lo bruciò.
Viaggiare senza l’aiuto di nessuno aveva il grande svantaggio della lentezza. A piedi riusciva a percorrere meno di trenta chilometri al giorno. Per arrivare a sud più velocemente avrebbe dovuto correre il rischio di accettare un passaggio su qualche carro.
Poi un giorno una ragazza di quindici anni che lavorava nel campo che stava attraversando lo trattenne abbastanza a lungo da dargli il tempo di chiedere un bicchiere d’acqua, un po’ di pane e del lavoro per guadagnare qualche soldo. Lei lo portò a casa con sé e lo presentò ai suoi magnanimi genitori. Giovane, sana, aveva le mani callose da contadina, i capelli lunghi e castani, la faccia tonda, il corpo tondo, il sudore intorno al collo e alle braccia e il petto lucido su cui brillava una piccola croce d’oro.
Alexander non arrivò fino alla Georgia. Si fermò a Belyj Jar, un villaggio vicino a Krasnodar e al Mar Nero, ancora nella repubblica di Russia. Lì aveva notato Larissa ed essendo agosto, stagione di raccolto, aveva offerto le proprie braccia alla famiglia di contadini, i Belov. Yefim e Maritza Belov avevano quattro figli, Grisha, Valerij, Sasha, Anton, e una figlia.
Non c’era posto per lui nella piccola fattoria, perciò si accontentò di buon grado del fienile. Lavorava dall’alba al tramonto e di notte pensava a Larissa. Lei gli sorrideva sempre, con i denti bianchi e la bocca leggermente aperta, come se fosse senza fiato. Alexander sapeva che era un trucco, ma funzionava, perché aveva fame e aveva bisogno di essere nutrito. Il suo corpo era stato in tensione troppo a lungo, in fuga e sempre in guardia. Larissa sembrava una promessa di liberazione.
Ma Alexander si teneva alla larga. I fratelli non erano certo tipi con cui discutere. Il lavoro nei campi a raccogliere patate, carote, cipolle e a mietere il grano per le fattore collettive, i kolchoz, senza l’aiuto di animali, li aveva fatti crescere simili a buoi, e la vita insieme a quella sorella adolescente, carnosa e impaziente, li aveva resi piuttosto diffidenti nei confronti dei lavoratori stagionali come Alexander, che si toglieva la camicia e lavorava a torso nudo, sempre più abbronzato dopo ogni giornata di sole. Aveva diciassette anni, ma l’aspetto era quello di un uomo e mangiava come un uomo. E lavorava come un uomo. Aveva, in tutti i sensi, gli appetiti di un uomo e anche il coraggio. Larissa se ne era accorta. E se ne erano accorti anche i suoi fratelli. Lui si teneva alla larga. Si offriva di fare balle di fieno e di tagliare la legna per l’inverno. Propose di costruire un tavolo nuovo e più grande, sperando di ricordarsi ancora, dai giorni dell’infanzia passata con il padre, come usare una sega, una pialla, un martello, i chiodi. Cercava tutti i modi possibili per stare lontano dai campi e vicino al fienile.
Quanto più Alexander si teneva in disparte, tanto più Larissa si faceva avanti, con l’atteggiamento impudente di una quindicenne che viveva isolata in una fattoria con i genitori e quattro fratelli.
Era agosto inoltrato nella calda Krasnodar, vicino al Mar Nero. Un pomeriggio, mentre si trovava nel fienile a legare mucchi di fieno, vide un fascio di luce e quando si girò la luce se ne era andata, oscurata da Larissa che gli si era piazzata davanti.
Alexander aveva in mano un forcone, un rotolo di spago e un coltello. Lei gli chiese, a voce bassa, cosa stesse facendo. Balle di fieno, stava per rispondere, ma si rese conto che lo sapeva e non aveva bisogno di parole. In altre circostanze non si sarebbe fermato. Riuscì a trattenersi a fatica. Quella ragazza portava guai: lo sentiva.
“Larissa, questa faccenda non va a finire bene”, disse.
“Non capisco di cosa stai parlando”, replicò lei avvicinandosi. Era scalza e indossava un indumento che non si poteva certo definire un vestito, “Fa un caldo infernale là fuori. Sono entrata qui solo per cercare un po’ d’ombra. Non ti dispiace, vero?”
Lui le voltò la schiena e si chinò sul mucchio di fieno. “I tuoi fratelli mi uccideranno.”
“E perché? Lavori così tanto. Saranno contenti.” Si avvicinò ancora. Riusciva a sentire l’odore del sudore sul corpo di Larissa. Sentiva il suo respiro.
“Fermati.”
Lei fece un altro passo, poi si fermò. Alexander le dava ancora le spalle, ma con la coda dell’occhio la vide saltare su un cancelletto di legno. “Starò seduta qui a guardarti”, la sentì dire.
La osservò per un istante, quindi si rimise al lavoro. Il corpo stava per esplodergli. Basta un attimo, pensò, solo un attimo. Mi darebbe un po’ di sollievo. E non farei del male a nessuno. Chiuse gli occhi per un istante.
“Alexander”, lo chiamò lei con voce fioca. “Guarda qui. Voglio farti vedere una cosa.”
Sofferente, riluttante, disperato, guardò. Lei sollevò lentamente la gonna e aprì un po’ le gambe. I suoi fianchi erano giusto a livello degli occhi di Alexander. Spostò lo sguardo che si fermò tra le cosce nude. Gli sfuggì un gemito.
“Vieni qui, Alexander.”
La raggiunse. Le spostò le mani e si mise tra le sue gambe, poi scostò il vestito per vedere quel corpo. Respirava con affanno, sudava e la desiderava. Sollevò la testa verso le labbra di lei e si appoggiò voracemente sui suoi seni, mentre con le dita la accarezzava. Morbida, calda... gemeva afferrandosi alla barra... Echeggiarono delle risate appena fuori del granaio e Larissa cercò di allontanare Alexander. Lui non si spostava.
Larissa lo respinse con forza e saltò giù dal cancelletto. In quel momento la luce illuminò il fienile e Grisha, il fratello più grande, entrò. “Ecco dov’eri, Larisska. Ti ho cercata dappertutto. Vieni fuori e smettila di disturbare Alexander. Non vedi che deve lavorare? Corri dalla mamma. Vuole sapere perché non hai ancora riportato le mucche dal pascolo. Fra poco il kolchoznik sarà qui per il latte.”
“Vado subito”, rispose Larissa passando davanti ad Alexander. Grisha uscì e prima di andarsene lei si voltò e, con un delizioso sorriso sulle labbra, disse: “La prossima volta non ci interromperanno e ti bacerò dappertutto. Te lo prometto. E poi ti chiamerò Shura, e non Sasha come mio fratello. Devi solo aspettare”.
Alexander non riuscì a pensare ad altro per il resto della giornata e della sera e della notte. Solo, nel granaio. Ma il giorno dopo accadde qualcosa. Fu il viso pallido di Larissa. Quando si avvicinò la ragazza sollevò le mani senza guardarlo e mormorò: “Non sto molto bene”.
“Non mi importa. Ci penserò io a farti stare meglio.”
Lei lo respinse via senza forze, senza guardarlo. “Stammi lontano, Alexander. Fallo per te. Stammi lontano.”
Perplesso, Alexander se ne tornò al lavoro. Non la vide per il resto della giornata, ma la sera, durante la cena, si accorse che Larissa, oltre a essere molto pallida, era febbricitante. La sera successiva la febbre era salita; il giorno dopo il viso era coperto di macchie rosse.
“Oh, no”, dissero gli adulti. “È malata.”
Poi Alexander ebbe la febbre e l’eruzione, ma quando si ammalò lui non ci fu tempo per il panico. Perché il cavaliere dell’Apocalisse sedeva sopra un destriero pallido che tutti sapevano essere il tifo, l’infezione mortale, incurabile e contagiosa. Il mal di testa che precedeva il manifestarsi della malattia era così violento e devastante che quando la temperatura salì a quaranta e l’eruzione rossa e pruriginosa gli infiammò il viso, lui fu contento di sprofondare in un lungo delirio. I fratelli avevano la febbre; Larissa fu colpita da emorragia. I genitori precipitarono nel delirio e la ragazza morì. Un attimo prima si era premuta contro le mani calde di Alexander, e adesso era morta, senza nessuno che la seppellisse perché erano tutti troppo deboli per scavare una fossa. La stesero nell’isba e aspettarono che il cavaliere venisse a prendere anche loro.
Alla fine rimasero solo Yefim, il padre di Larissa, e Alexander. Non erano usciti per giorni, forse settimane. Si erano sostenuti l’un l’altro, avevano bevuto acqua e pregato. Alexander aveva cominciato a pregare in inglese mescolato con il russo e aveva chiesto la pace per la madre e il padre, aveva supplicato che fossero vivi, aveva pregato per l’America, per la salute, per la sua vita, per quella di sua madre, per Teddy, Belinda, Boston, Barrington, per i boschi e per la morte, perché non ce la faceva più. Poi vide gli occhi tormentati di Yefim che lo fissavano, sentì la sua mano su di lui, sentì le parole che uscivano in un sibilo dalla bocca sanguinante: “Figliolo, non morire. Non morire qui e in questo modo. Torna da tuo padre e da tua madre. Cerca la strada per tornare a casa. Dov’è la tua casa, figliolo?”
Yefim morì. Ma Alexander non lo seguì. Dopo sei settimane di quarantena si riprese. Le autorità sovietiche, per evitare che la malattia si diffondesse in tutta la regione del Caucaso, bruciarono il villaggio di Belyj Jar insieme a tutti i corpi, le capanne, i fienili e i campi. Alexander, vivo ma senza un’identità, decise di costruirsene una nuova appropriandosi di quella del terzogenito di Yefim, Alexander Belov. Quando gli ufficiali del consiglio dei Soviet arrivarono con le mascherine sulla bocca e le cartellette in mano e gli chiesero, con voce ovattata: “Come ti chiami?” lui rispose senza esitazione: “Alexander Belov”. Controllarono i certificati anagrafici degli abitanti di Belyj Jar e con la documentazione disponibile relativa alla famiglia Belov fecero ad Alexander un nuovo passaporto che gli consentiva di spostarsi all’interno dell’Unione Sovietica senza essere fermato o arrestato per mancanza di documenti. Alexander fu messo su un treno e con il permesso scritto del Soviet regionale tornò a Leningrado e andò a vivere con Mira Belov, la sorella di Yefim. Mira fu sconcertata quando lo vide. Per fortuna non vedeva la famiglia e il vero Alexander Belov da oltre dodici anni e, sebbene fosse sorpresa dai capelli neri e dagli occhi scuri del ragazzo, dalla sua magrezza e dalla sua altezza (“Sasha, non riesco a crederci. Eri così piccolo e biondo quando avevi cinque anni!”) non ricordava a sufficienza i particolari perché si insinuasse in lei il sospetto. Alexander rimase. Dormiva su una brandina troppo corta per lui, sistemata nel corridoio. Cenava con Mira, suo marito e i genitori del marito e cercava di stare in casa il meno possibile. Aveva un piano. Doveva finire la scuola e poi sarebbe entrato nell’esercito.
Alexander non aveva tempo di ricordare, pensare, soffrire. Aveva una sola missione: rivedere i suoi genitori. E aveva solo un obiettivo e un sogno e un imperativo: lasciare l’Unione Sovietica, in un modo o nell’altro.
Negli ultimi sei mesi di scuola superiore Alexander conobbe Dimitri Černenko, un tipo minuto e difficilmente descrivibile, che gli stava sempre appiccicato e faceva domande, con curiosità invadente e a volte irritante. Dimitri era come il cucciolo che Alexander non aveva mai avuto. Sembrava innocuo, solo e bisognoso di amicizia. Era un ragazzetto scheletrico con i capelli crespi, la faccia tonda, gli occhi irrequieti che si spostavano velocemente da un punto all’altro, senza fermarsi mai per più di alcuni secondi. Ma il modo in cui guardava in su verso di lui, in cui apriva la bocca con soggezione quando parlava, divertivano Alexander. Era facile prenderlo in giro. Rideva di se stesso quando arrivava ultimo nelle corse, mancava la porta durante una partita di calcio o cadeva dagli alberi.
In un paio di occasioni Alexander aveva notato Dimitri che faceva il bullo con i ragazzini più giovani nel cortile della scuola. Una volta aveva anche tentato di coinvolgerlo nelle sue torture ai danni di un bambinetto pietrificato dalla paura, ma Alexander l’aveva preso da parte e gli aveva chiesto cosa si fosse messo in testa. Dimitri si era scusato e l’episodio non si era più ripetuto. Alexander attribuì quella mancanza di buone maniere al fatto che Dimitri non era molto benvoluto e lo perdonò, così come gli perdonava gli apprezzamenti scurrili nei confronti delle ragazze (“Non ha un gran bel culo? Ehi, belculo!”). Gli faceva notare puntualmente le sue mancanze in quanto a tatto e giudizi e Dimitri si dimostrava uno studente volonteroso, pronto a correggersi nei limiti del possibile, sebbene niente di ciò che Alexander poteva insegnargli lo avrebbe aiutato a mandare una palla in rete, arrivare primo in una corsa o ascoltare una ragazza che parlava di acconciature senza una smorfia annoiata sul viso. Ma in altri campi Dimitri cominciò a comportarsi meglio. E rideva a tutte le barzellette di Alexander, cosa che aiutava a cementare l’amicizia.
Dimitri era molto interessato al particolare accento di Alexander, ma lui preferiva glissare sulla questione. Non si fidava di questo amico, né di nessun altro. Anche senza parlare del suo passato americano i due avevano molti altri argomenti da affrontare: la politica comunista (sottovoce e in termini denigratori), le ragazze (Dimitri aveva meno esperienza di Alexander, anzi, nessuna), e i genitori.
Un pomeriggio mentre tornavano a casa Dimitri si lasciò sfuggire che il padre lavorava come guardia in una delle prigioni cittadine, e non una prigione qualsiasi, ma (con un sussurro beato) nella Casa di Detenzione, il più temuto e odiato penitenziario di Leningrado. Alexander sapeva che gliel’aveva detto perché la posizione di potere del padre lo avrebbe reso più prezioso ai suoi occhi. Ma fu proprio in quel momento che Alexander considerò Dimitri da un altro punto di vista.
Improvvisamente vide aprirsi uno spiraglio nella strada del suo destino: c’era la possibilità di scoprire cos’era successo ai genitori, e quell’opportunità fu sufficiente a fargli accantonare la diffidenza che nutriva nei confronti di chiunque e confidare a Dimitri la storia dell’America. Gli raccontò tutta la verità sul suo passato e gli chiese di aiutarlo a trovare Harold e Jane Barrington. Dimitri, con sguardo eccitato, rispose che sarebbe stato contento di aiutarlo. Alexander lo abbracciò pieno di gratitudine. “Dima, se mi aiuti, ti giuro su Dio che sarò tuo amico per sempre e farò qualunque cosa per te.”
Gli diede una pacca sulla spalla e disse che non aveva bisogno di essere ringraziato e che lo avrebbe aiutato volentieri perché era il suo migliore amico. Non era forse così?
“Lo sei”, rispose Alexander.
Pochi giorni più tardi Dimitri gli portò notizie della madre. Era stata “imprigionata” senza diritto di corrispondenza.
Alexander si ricordò della storia della vecchia Tamara e del marito. Sapeva cosa significava. Rimase impassibile davanti a Dimitri, ma quella notte pianse per la madre.
In seguito riuscirono a entrare nella Casa di Detenzione per cinque minuti, con la scusa di andare a trovare il padre di Dimitri per una ricerca scolastica sui progressi dello Stato sovietico nella repressione di agitatori e traditori stranieri contrari alla causa socialista.
Alexander vide il padre per alcuni minuti in un assurdo pomeriggio di giugno, caldo e assolato. Lo vide letteralmente per pochi minuti. Aveva sperato che potessero essere almeno dieci, di cui magari uno o due da solo con lui. Ne ottenne due in presenza di Dimitri, il padre dell’amico e un secondino. Nessuna privacy per Harold e Alexander Barrington.
Alexander si era ripetuto più volte quello che voleva dire al padre, fino a quando poche parole gli erano rimaste impresse nella memoria. Né l’ansia né la paura avrebbero potuto cancellarle.
Papà! Voleva dire. Una volta, quando avevo sette anni, io, tu e la mamma andammo a Revere Beach, ricordi? Nuotai finché non cominciarono a battermi i denti e poi scavammo una grossa buca e costruimmo una barriera di sabbia e restammo lì ad aspettare la marea. In tutte quelle ore sulla spiaggia ci scottammo e poi andammo sulle montagne russe – tre volte – e mangiammo zucchero filato e gelato finché non mi fece male la pancia e tu odoravi di sabbia e di acqua salata e sole, e poi mi prendesti la mano e mi dicesti che anch’io sapevo di mare. Fu il giorno più felice della mia vita e sei stato tu a darmi quel giorno, e quando chiudo gli occhi è tutto quello che voglio ricordare. Non preoccuparti per me. Andrà tutto bene qui o da qualunque altra parte. Non preoccuparti di niente.
Ma non restò solo con il padre neppure un istante per potergli dire quelle parole, in nessuna lingua, e non pensava che Harold fosse in grado di leggere nel pensiero, al di là degli occhi pieni di lacrime. Alexander ebbe il timore che la commozione di Harold potesse far intuire alla guardia che c’era qualcosa di personale tra loro. Per fortuna il secondino non sospettava sotterfugi.
Harold fu l’unico a parlare, in inglese, con un piccolo aiuto da parte di Alexander. “Sarebbe possibile sentire il prigioniero parlare in inglese?” aveva chiesto alla guardia, che con un grugnito aveva risposto: “D’accordo, ma fatela breve. Non ho tempo da perdere.”
“Dirò qualcosa in inglese”, disse Harold. “Alcuni versi di Kipling, come riesco a ricordarli.” Non aveva quasi la forza di parlare. Prese le mani di Alexander e recitò: “Se riesci a sopportare di sentire la verità che tu hai detto, distorta da imbroglioni che ne fanno una trappola per ingenui, o guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte... Figliolo! Umiliati a ricostruirle con i tuoi arnesi ormai logori”.
Alexander lo sentì chiaro e forte.
Con le mani strette intorno a quelle del figlio e gli occhi gonfi di lacrime, Harold sussurrò: “Would that I had died for thee, O Absalom, my son, my son!”*
Senza dire nulla Alexander si fece indietro e allontanò da sé il padre, la madre, l’America. Pagò la tensione di quei pochi istanti nella cella di cemento con un dente scheggiato e una parte della sua anima immortale. I love you, aveva mormorato tra i denti, prima che le porte si chiudessero.
“Era tuo padre?” chiese Dimitri correndo a passi veloci a fianco di Alexander. “Non gli assomigli molto, per fortuna.”
“Sì, assomiglio a mia madre”, disse Alexander con i denti ancora serrati.
“E cosa ti ha detto? Ne è valsa la pena?”
“Non ha detto molto.”
“Ma cos’ha detto in inglese?”
“Erano delle strofe di una poesia di Rudyard Kipling che si intitola Se. La conosci?”
Dimitri fece spallucce. “L’ho letta tempo fa a scuola. Non mi ha colpito. E vuoi dirmi che di tutte le cose, anche personali, che tuo padre poteva dirti, ha scelto di citare le parole di un imperialista bianco morto?”
“È una bellissima poesia.”
Da quell’episodio Dimitri cominciò a stare sempre incollato ad Alexander, cosa che a lui non dispiaceva, visto che aveva bisogno di un amico.
Non ci volle molto prima che Dimitri iniziasse a escogitare piani per uscire dall’Unione Sovietica insieme all’amico, e le sue idee non erano molto diverse da quelle che frullavano nella testa di Alexander, che non aveva quindi motivo di fermarlo. E non vedeva ragioni per non portare con sé anche Dimitri. In due si combatte meglio che da soli e uno può sempre coprire le spalle all’altro. Questo immaginava Alexander. Che Dimitri sarebbe stato il suo compagno di battaglia. Che Dimitri gli avrebbe guardato le spalle.
Alexander era paziente, Dimitri no. Alexander sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento giusto, ne era sicuro. Parlavano di prendere treni diretti in Turchia, o di attraversare la Siberia in inverno e lo stretto di Bering ghiacciato. Parlavano anche della Finlandia e alla fine si concentrarono su quella soluzione. Era il Paese più vicino e più accessibile.
Alexander andava tutte le settimane a controllare il suo Cavaliere di bronzo. Cosa sarebbe successo se qualcuno l’avesse chiesto in prestito? O se qualcuno se lo fosse tenuto? Non poteva fare a meno di pensare che i suoi soldi non erano al sicuro.
Dopo il diploma Dimitri e Alexander decisero di iscriversi al programma trimestrale della Scuola di addestramento ufficiali dell’Armata Rossa. Fu un’idea di Dimitri. Lo riteneva un ottimo sistema per far colpo sulle ragazze. Alexander pensava che avrebbe aperto loro le porte della Finlandia se i due Paesi fossero entrati in guerra, cosa che sembrava probabile: alla Russia non piaceva avere un Paese straniero, un nemico storico, a soli venti chilometri da Leningrado, la più grandiosa delle città sovietiche.
La Scuola Ufficiali non fu come Alexander aveva immaginato. La brutalità degli istruttori, i programmi di addestramento massacranti, le continue umiliazioni da parte dei sergenti in carica avevano l’unico scopo di piegare il loro spirito prima che lo facesse la guerra. Era molto più difficile sopportare le umiliazioni che non le corse estenuanti, il sudore nelle giornate gelide, la pioggia. Ma la cosa peggiore era essere svegliati dopo il silenzio ed essere costretti a rimanere in piedi per ore mentre qualche idiota di cadetto veniva richiamato all’ordine per non aver lucidato gli stivali.
Alexander imparò cosa significava l’imperfezione, il comando e il rispetto. Imparò a tenere la bocca chiusa e l’armadietto pulito, a essere puntuale e a dire sempre “sissignore”, anche quando avrebbe voluto dire “vada a fare in culo, signore”. Si rese anche conto di essere più veloce delle altre reclute, più metodico, con un maggior autocontrollo e meno incline alla paura.
Capì anche quali erano le parole che avevano il potere di innervosirlo.
Una volta intuita la doppiezza della Scuola Ufficiali, il cui scopo era quello di forgiare uomini spezzando loro lo spirito, Alexander fu contento di non essere un soldato di leva: per loro la vita doveva essere ancora più dura.
E poi Dimitri fu bocciato.
“Riesci a crederci? Teste di cazzo. Mi hanno fatto passare questo inferno per poi bocciarmi! Ma che stronzata è questa! Ho intenzione di scrivere una lettera al comandante. Chi è il comandate della Scuola Ufficiali, Alexander? Hai visto quello che mi hanno scritto? Dicono che carico e scarico l’arma e striscio sulla pancia troppo lentamente e che nelle battaglie simulate non sono in grado di mantenere la calma e non mostro attitudini al comando tali da poter essere considerato adatto al ruolo di ufficiale. Guarda qui: mi invitano ad arruolarmi come soldato semplice. Be’, se non sono in grado di caricare l’arma in fretta abbastanza come ufficiale, cosa se ne possono fare di me come soldato?”
“Forse i criteri sono diversi per gli ufficiali e per i soldati semplici.”
“Certamente, ma per i soldati dovrebbero essere più rigidi! Dopotutto sono loro che vanno in prima linea. E così mi cacciano da un programma che mi avrebbe permesso di stare nelle retrovie, dove avrei fatto di certo meno danno, per offrirmi un ruolo che prevede l’azione diretta in guerra? No grazie.” Dimitri lo guardò. “Hai ricevuto anche tu la lettera?”
Ovviamente l’aveva ricevuta ed era stato informato della sua prossima promozione a sottotenente, e anche se Dimitri non era nello spirito adatto per sentirlo, non gli sembrava conveniente mentire. Quindi gli disse la verità.
“Ma è un’idiozia, Alexander. Così tutti i nostri piani vanno a farsi benedire. Che cosa possiamo fare insieme se tu sei un ufficiale e io un soldato semplice?” Poi si colpì la fronte con un gesto teatrale. “Ci sono! Ho una grande idea. C’è un’unica soluzione. Non la vedi?”
“No, non la vedo.”
“Devi rifiutare la promozione a sottotenente. Digli che ne sei onorato, ma che ci hai ripensato. In pochi giorni ti arruoleranno come soldato e così potremmo stare insieme nello stesso battaglione e fuggiremo non appena ne avremo la possibilità.” Sorrideva contento. “Per un attimo ho pensato che fosse tutto perduto e che i nostri piani fossero da buttare.”
“Aspetta un momento.” Alexander guardava l’amico di traverso. “Cosa vuoi che faccia?”
“Che rifiuti il grado di ufficiale.”
“E perché dovrei farlo?”
“Così possiamo portare a termine i nostri piani.”
“I nostri piani sono cambiati. Come sottotenente sarò al comando di un’unità in cui ci sarà un sergente a capo della tua squadra. Vedrai, riusciremo lo stesso ad andare in Finlandia insieme.”
“Sì, ma a che serve se non siamo nella stessa unità? I nostri piani erano quelli, Alexander.”
“Il nostro piano era quello di diventare ufficiali insieme. Non si era parlato di diventare soldati semplici.”
“D’accordo, ma ora i piani sono cambiati. Dobbiamo essere flessibili.”
“Sì, ma se siamo tutti e due soldati non avremo nessun tipo di potere.”
“Chi ha mai parlato di potere? Chi vuole il potere?” Dimitri socchiuse gli occhi. “Tu?”
“Non voglio il potere. Voglio essere in una posizione che possa aiutarci. Devi ammettere che se uno di noi due è un ufficiale avremo più possibilità, più opportunità di andare dove vogliamo. Mettiamo che fossi stato io quello bocciato e tu invece promosso ufficiale. Io avrei voluto che tu rimanessi ufficiale. Avresti potuto fare molto per tutti e due.”
“Sì”, disse Dimitri lentamente, “però io non sono diventato un ufficiale, giusto?”
“È solo questione di fortuna. Io non ci penserei più.”
“È difficile smettere di pensarci”, brontolò Dimitri, “visto che sto per diventare lo zerbino di chissà chi.”
Alexander non replicò e Dimitri ricominciò: “Credo che sarebbe meglio che io e te fossimo nella stessa squadra”.
“Non potremo avere alcuna garanzia di essere nella stessa squadra”, disse Alexander. “Tu potresti finire in Carelia e io in Crimea...” sbottò. Era ridicolo. Non aveva alcuna intenzione di rinunciare al grado di ufficiale. Ma nello sguardo di Dimitri, nella posizione ricurva delle sue spalle, nella smorfia poco convinta della sua bocca, Alexander percepì il primo serio strappo nel tessuto della loro amicizia. Un altro scadente prodotto sovietico, pensò, cercando di convincere Dimitri che la cosa avrebbe funzionato. “Prova solo a pensare a come sarà migliore la tua vita nell’esercito se io farò parte degli ufficiali in comando. Ti faciliterei un sacco di cose. Cibo migliore. Vodka migliore. Locali migliori. Missioni migliori.”
Dimitri sembrava scettico.
“Sono tuo complice e tuo amico e sarò nella posizione di fare qualcosa per aiutarti.”
Dimitri continuava a essere scettico.
E aveva ragione, perché, nonostante l’aiuto dell’amico, la sua vita poteva essere solo in parte più facile. Ma era innegabilmente migliore per Alexander. Stava in alloggi migliori, mangiava di più, aveva più privilegi e libertà, era pagato meglio, riceveva armi migliori, aveva accesso a importanti informazioni militari e altri tipi di donne si buttavano tra le sue braccia nei circoli per ufficiali. Dimitri aveva il vantaggio che Alexander era il suo ufficiale in comando nella guarnigione di Leningrado – con due sergenti e un caporale tra loro. Ma era un vantaggio molto ambiguo e Alexander se ne accorse quando vide Dimitri irrigidirsi la prima volta che dovette riprenderlo perché non teneva le righe durante la marcia. Alexander sapeva che doveva continuare a urlare ordini a tutti, compreso Dimitri, cosa che per l’amico non sembrava accettabile, o non urlare ordini a nessuno, cosa che non era chiaramente accettabile per l’Armata Rossa.
Alexander fece trasferire Dimitri in un’altra unità, agli ordini di uno dei suoi compagni di guarnigione, il tenente Sergeij Komkov, rovinando così il suo rapporto con lui in modo permanente.
“Belov, ti meriteresti di essere fatto a pezzi e sbudellato”, gli disse una sera il tozzo e quasi calvo Komkov mentre giocavano a carte. “Cosa avevi in mente quando mi hai chiesto di prendere con me Černenko? È una femminuccia di prim’ordine! È davvero inutile come soldato. Mia sorella è di sicuro più coraggiosa. Non riesce a far niente nel modo giusto, ma detesta che gli si dica come deve fare le cose. Non possiamo mandarlo davanti alla corte marziale per codardia?”
Alexander rise. “Dai, è un bravo ragazzo. Vedrai che in battaglia si comporterà bene.”
“Piantala di dire stronzate, Belov. Oggi sono stato sul punto di sparargli per diserzione quando ha lasciato cadere il fucile durante la marcia e ha dovuto fare tre passi fuori dalla formazione per andarlo a raccogliere. Gli ho davvero puntato l’arma contro. E mi è dispiaciuto. Poi per rimediare l’ho messo a pulire le latrine degli ufficiali.”
“Basta, Komkov. Andrà tutto bene.”
“Ma lo sai che è partito un colpo accidentale da uno dei nostri fucili e Černenko si è buttato pancia a terra nel cortile, con le mani sulla testa? E non ha neppure pensato a proteggere il suo compagno, potrei aggiungere. Non riesco a capire perché continui a difenderlo. In battaglia sarà la rovina di tutti noi.”
Quando iniziarono a frequentare i circoli militari conobbe una ragazza di nome Luba che gli piaceva. Si incontravano sempre più spesso e Alexander cominciò a perdere interesse nelle altre. Un giorno beccò Dimitri che parlava con lei, da solo. Dopo di che Dimitri espresse interesse nei confronti di Luba e Alexander si fece indietro. Luba ne fu ferita, mentre Dimitri si divertì un po’ e poi la mollò.
Successe altre due o tre volte. Ad Alexander non importava. Non aveva difficoltà a trovare altre ragazze. Aveva tentato di lasciare Černenko al bar Sadko per andare al circolo ufficiali, ma Černenko, che non poteva seguirlo, non aveva approvato. Così Alexander continuò ad andare al Sadko con lui e a fingere di non nutrire interesse nei confronti di nessuna in particolare. Era vero. Gli piacevano abbastanza tutte quante.
A Sveta piaceva stare sopra e non le piaceva essere toccata. A Olga piaceva essere toccata. Solo toccata.
Milla parlava troppo di comunismo ed economia.
Lena parlava troppo.
Isabel venne una volta, poi tornò ancora e al terzo tentativo gli chiese se voleva sposarla.
Dina gli disse che le piaceva più di tutti gli altri uomini con cui era stata e il fine settimana successivo la beccò con Anatolij Marazov.
Maya lo voleva in tutti i modi e lui la accontentò, ancora e ancora. Poi gli disse che per lei esisteva solamente lui.
Megan parlava in continuazione, anche mentre faceva lavoretti con la bocca.
Nina parlava anche mentre lui le faceva qualche lavoretto con la bocca.
Nadia voleva giocare a carte. Non prima o dopo, ma al posto di.
Kjra disse che l’avrebbe fatto solo se poteva esserci anche la sua migliore amica Ella.
Zoe era intraprendente e con lei finì tutto in quindici minuti.
Anche Masha era intraprendente, ma con lei durò un paio d’ore.
A Marisa piaceva anche parlare, a Marta no.
A Sofia piaceva tutto, a patto che lei non dovesse fare niente. Sonia era la più divertente fino a quando, all’improvviso, dopo un sabato sera di troppo, si calò nella parte della ragazza dal cuore spezzato. Non era né divertente né triste. Era furibonda.
Lara voleva sapere se aveva mai ucciso un essere umano.
Ženja voleva sapere se desiderava avere figli.
A un certo punto cominciò a dimenticare i loro nomi. Successe quando iniziò ad accettare sempre più volentieri i loro favori. Tornava da loro, le guardava negli occhi, guardava le loro bocche, cercava di farle spogliare, desideroso di un contatto, di qualcos’altro. Desiderava, dimenticava e continuava. Più di una per sera. Venerdì notte, sabato notte, domenica notte e nelle serate in cui era di sentinella, e le domeniche pomeriggio; non molte durante il giorno, con suo disappunto. Gli piaceva osservarle in quel loro fervore.
Poi perse entusiasmo, anche se continuava ad averne bisogno e a desiderarle. Aveva un’aria distaccata e triste; ma nonostante la sua indifferenza e i modi distaccati, la devozione delle ragazze nei suoi confronti sembrava aumentare.
Erano sempre di più quelle che cercavano la sua compagnia. Volevano passeggiare con lui lungo la prospettiva Nevskij attaccate al suo braccio, e alla fine lo abbracciavano con gratitudine e lo ringraziavano con un sussurro. Tornavano il fine settimana successivo, quando lui era già con un’altra. Erano sempre di più quelle che sembravano volere qualcosa da lui. Non sapeva cosa fosse, ma di certo lui non poteva darglielo.
“Voglio di più, Alexander”, gli diceva lei. “Voglio di più.”
“Credimi, ti ho dato tutto ciò che avevo”, rispondeva lui con il sorriso sulle labbra.
“No, voglio di più.”
Mentre passeggiavano, sulla via del ritorno, lui diceva, con tono rassegnato e freddo: “Mi dispiace, ma quello che vuoi è impossibile, per me. Questo è tutto ciò di cui sono capace”.
Ma ogni volta che posava gli occhi su una ragazza, o ne salutava una, o la baciava o la toccava, si domandava: sarà forse lei? Le ho avute quasi tutte e magari quella giusta se ne è andata così come è venuta. venuta e andata, e io non me ne sono accorto.
Ma ogni tanto, prima di sognare, prima che la notte nera si impossessasse di lui, per un istante, per un secondo, sotto le stelle, sui treni, sulle chiatte, sulle carrozze di altre persone, Alexander vedeva il fienile e sentiva l’odore di Larissa, e il piacere del suo respiro e la nostalgia per qualcosa che aveva perso e temeva non sarebbe più tornato.