Volevano sapere chi fosse. Era l’unica domanda a cui doveva rispondere. Il tempo era scaduto. Lo sapeva. Mentre si alzava ricordò altri versi di Kipling, come se suo padre gli stesse parlando.
Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite
E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,
E perdere e ricominciare di nuovo dal principio
E non dire una parola sulla perdita.
Lo chiamarono. Quando fu riportato davanti al tribunale si sentiva quasi allegro.
“Bene, maggiore, ha avuto tempo per riflettere?”
“Sì, signore.”
“Qual è la sua risposta?”
“La mia risposta è che sono Alexander Belov, originario di Krasnodar, maggiore dell’Armata Rossa.”
“È lei l’americano espatriato di nome Alexander Barrington?”
“No, signore.”
Rimasero in silenzio. Era una fresca giornata di maggio. Alexander avrebbe desiderato di poter uscire di nuovo. I volti che aveva davanti erano cupi, immobili. Anche lui si adombrò. Uno dei generali tamburellava con una penna sul tavolo di legno. Gli occhi di Stepanov si posarono con discrezione su Alexander e quando gli sguardi dei due uomini si incrociarono il generale annuì impercettibilmente.
Alle fine il generale Mechlis ruppe il silenzio. “Temevo che la sua risposta sarebbe stata questa, maggiore. Se lei avesse risposto sì, ora ci staremmo mettendo in contatto con il Dipartimento di Stato americano. E così adesso la domanda che mi si pone è cosa ne farò di lei. Mi è stata conferita completa autorità sul suo destino e mi sono consultato con i colleghi qui presenti mentre lei era fuori. La decisione che dobbiamo prendere è difficile. Ammesso che lei dica la verità, queste accuse peseranno sulle sue spalle insieme alle mostrine e la seguiranno dovunque andrà nell’Armata Rossa. Il vortice delle chiacchiere, dei sospetti, delle malignità non avrà mai fine, e renderà faticosissimo il suo lavoro di ufficiale. Dovrà difendersi da altre false accuse e da uomini che avranno paura di combattere ai suoi ordini.”
“Le sfide non mi spaventano, signore. Ci sono abituato.”
“Sì, ma noi non ne abbiamo bisogno.” Mechlis sollevò la mano. “E non mi interrompa, maggiore. Se invece mente la situazione rimane la stessa, se non che noi, in qualità di governatori e protettori del popolo, avremmo commesso un errore terribile e saremmo umiliati e derisi nel momento in cui la verità verrà a galla. E della verità una cosa è certa: alla fine viene sempre a galla. Lo capisce quindi che, a prescindere dal fatto che dica o meno la verità, lei rappresenta per noi un grosso problema.”
“Se mi consente, generale”, intervenne Stepanov, “stiamo combattendo una guerra folle in cui perdiamo più uomini di quanti non riusciamo ad arruolarne, perdiamo più armi di quante non siamo in grado di produrne e perdiamo ufficiali di comando che non riusciamo a sostituire. Il maggiore Belov è un soldato esemplare. Sono certo che potremmo trovargli un posto a servizio dell’Armata Rossa.” Non ricevendo obiezioni, continuò. “Potrebbe essere mandato a Sverdlovsk a costruire carri armati e cannoni. Potrebbe essere inviato a Vladivostok a lavorare nelle miniere di ferro, o a Kolyma, o nel Perm-35. In uno qualsiasi di quei posti potrà rimanere un membro attivo della società sovietica.”
Mechlis non sembrava convinto. “Abbiamo un sacco di altri uomini da mandare nelle miniere. Perché dovremmo sprecare un maggiore dell’Armata Rossa in una fabbrica di cannoni?”
Alexander scosse impercettibilmente la testa, divertito. Ottima mossa, colonnello Stepanov, pensò. Se va avanti così la pregheranno in ginocchio di farmi rimanere nell’esercito, quando solo pochi minuti fa erano pronti a farmi fucilare.
Stepanov proseguì. “Non è più un maggiore. Gli sono stati tolti i gradi al momento dell’arresto. Non vedo che problema ci sia a mandarlo a Kolyma.”
“Allora perché continuiamo a chiamarlo maggiore?” sbuffò Mechlis.
“Perché lo rimane, nonostante gli siano state strappate le mostrine dalle spalle. È stato un ufficiale in comando per sette anni. Ha guidato uomini durante la Guerra d’Inverno, ha combattuto per tenere i tedeschi sull’altra riva della Neva e ha presidiato la Strada della Vita. Ha combattuto insieme ai suoi uomini in quattro campagne sul fiume Neva, l’estate scorsa, per rompere l’assedio.”
“Conosciamo alla perfezione il suo curriculum, colonnello Stepanov”, disse Mechlis sfregandosi preoccupato la fronte. “Ora dobbiamo decidere cosa fare di lui.”
“Suggerisco di mandarlo a Sverdlovsk”, disse Stepanov.
“Non possiamo.”
“Allora reintegriamolo nell’esercito.”
“Neanche questo è possibile.”
Mechlis rimase in silenzio per qualche istante. Dopo un pesante sospiro disse: “Maggiore Belov, vicino a Volchov, nella valle tra il lago Ladoga e le alture di Sinjavino, c’è una strada ferrata bombardata in continuazione dai tedeschi che hanno occupato le colline sovrastanti. Ne ha mai sentito parlare?”
“Sì, signore. Anche mia moglie ha preso parte alla costruzione di quella ferrovia quando l’assedio è stato rotto.”
“Per favore, maggiore, non tiri in ballo sua moglie. È un tasto dolente. Comunque, quella ferrovia è di fondamentale importanza per portare cibo e carburante nella città di Leningrado. Ho deciso di assegnarla all’unità penale che si sta occupando della ricostruzione della ferrovia nel tratto di dieci chilometri tra Sinjavino e il lago Ladoga. Lei sa cos’è il battaglione penale?”
Alexander restò in silenzio. Lo sapeva. L’esercito contava su migliaia di uomini che venivano mandati a prendere d’assalto ponti e attraversare fiumi senza alcuna copertura, costruire strade ferrate sotto il fuoco nemico, buttarsi per primi in battaglia senza artiglieria di supporto, né carri armati o fucili per tutti. Nei battaglioni penali veniva consegnato un fucile ogni due soldati. Quando il compagno di battaglia veniva abbattuto, ti prendevi il suo fucile, sempre che tu fossi ancora vivo per farlo. I battaglioni penali erano muri umani che i sovietici mandavano sotto il fuoco tedesco.
“Ha qualcosa da dire, maggiore?” riprese Mechlis. “Ah, dimenticavo. Le verranno formalmente rimossi i gradi.”
“D’accordo. Quindi, se ho ben capito, farò parte di un battaglione, non dovrò comandarlo.”
“Sbagliato. Lei sarà al comando degli uomini.”
“In questo caso dovrò mantenere i miei gradi, signore.”
“Non è possibile.”
“Con il dovuto rispetto, signore, non potrei comandare uno scoiattolo, figuriamoci un battaglione penale di uomini che vivono sotto costante minaccia di morte, senza l’autorità conferita dall’Armata Rossa. Se mi vuole al comando, deve darmi gli strumenti necessari per farlo. Altrimenti non servirò né all’Armata Rossa, né allo sforzo bellico né a lei. Gli uomini non mi obbediranno mai e nessuno costruirà la ferrovia e i soldati continueranno a morire. Non può chiedermi di rimanere nell’esercito...”
“Non glielo sto chiedendo. Glielo sto ordinando.”
“Signore, se mi toglie i gradi non sarò più un ufficiale, e questa è l’unica cosa che so fare. Mi mandi pure in un battaglione penale, ma non mi chieda di comandarlo. Sarò un soldato, un sergente o un caporale: qualunque cosa lei decida mi va bene. Ma se davvero mi vuole usare a vantaggio dell’esercito, allora deve lasciarmeli.” Alexander era imperturbabile. Continuò: “Di certo lei, in quanto generale, mi può capire meglio di chiunque altro. Ha dimenticato Maretskov? Si trovava nei labirinti di Mosca in attesa dell’esecuzione, invece decisero di mandarlo sul fronte di Volchov. Fu promosso generale e gli fu dato il comando di un’armata anziché di una semplice divisione. Come pensa che avrebbe potuto comandare l’armata in qualità di contadino? Quanti uomini sarebbe stato in grado di mandare ad affrontare una morte certa se fosse stato un semplice caporale? Volete che i tedeschi vengano cacciati dalle alture di Sinjavino? Lo farò, ma con i miei gradi”.
Mechlis fissava Alexander con rassegnata comprensione. “Mi ha esasperato, maggiore Belov. D’accordo. Fra un’ora verrà trasferito a Sinjavino. La guardia la scorterà in cella per recuperare le sue cose. La degraderò e le permetterò di mantenere il grado di capitano, questo è quanto. Dove sono le sue medaglie?”
Alexander avrebbe voluto sorridere, ma si trattenne. “Mi sono state requisite prima dell’interrogatorio. Ho perso la medaglia di Eroe dell’Unione Sovietica.”
“Una vera sfortuna”, disse Mechlis.
“Sì, signore. Ho anche bisogno di nuovi vestiti e nuove armi ed equipaggiamento. Ho bisogno di un coltello e di una tenda, signore. Tutto il mio vecchio equipaggiamento è scomparso.”
“Deve stare più attento alla sua roba, maggiore Belov.”
Alexander fece il saluto. “Lo terrò a mente, signore. E poi, sono il capitano Belov.”
Alexander era al Sadko, come sempre vicino al bancone. Avrebbe preferito andare al circolo ufficiali perché gli era difficile socializzare con i soldati. L’abisso tra loro gli sembrava ormai incolmabile.
Era un sabato sera di giugno e stava chiacchierando con Dimitri quando si avvicinarono due ragazze. Le degnò solo di un rapido sguardo. Poco dopo si voltò e si rese conto che una delle due lo fissava con vivo interesse. Le sorrise. Dimitri si girò a sua volta e guardò le due ragazze, poi si spostò di lato in modo da trovarsi di fronte a loro.
“Possiamo offrirvi qualcosa da bere?” esordì.
“Certo”, rispose la più alta, quella che aveva continuato a fissare Alexander. Černenko aveva già attaccato bottone con la più piccola, che era anche la meno carina delle due. Era difficile parlare al bancone. Alexander chiese alla ragazza se voleva fare una passeggiata. Lei sorrise. “D’accordo.”
Uscirono nel tiepido crepuscolo estivo. Era da poco passata la mezzanotte, ma il cielo conservava ancora una certa luminosità. La ragazza canticchiava, poi gli prese la mano e rise. “Devo indovinare”, chiese, “o me lo dici tu come ti chiami?”
“Alexander”, rispose, ma non le fece la stessa domanda perché aveva una certa difficoltà a ricordare i nomi.
“E non mi chiedi come mi chiamo?”
“Sei sicura di volere che io lo sappia?”
Lei lo guardò sorpresa. “Se voglio che tu conosca il mio nome? Siete davvero arrivati a questo punto, voi soldati? Non chiedete neanche più il nome alle ragazze?”
“No, senti”, le disse appoggiandole una mano sulla spalla. “Non so come si comportino gli altri soldati, ma per quanto mi riguarda so che io tendo a dimenticare i nomi.”
“Be’, forse dopo questa notte non ti dimenticherai più del mio”, sorrise lei aggressiva.
Alexander scosse leggermente la testa. Avrebbe voluto dirle che doveva fare qualcosa di davvero straordinario perché non si scordasse del suo nome, ma non aggiunse nulla. “D’accordo. Come ti chiami?”
“Daria”, rispose, “ma tutti mi chiamano Dasha.”
“Va bene, Daria-Dasha, c’è un posto dove preferisci portarmi? C’è qualcuno a casa tua?”
“Qualcuno? Da dove vieni? Certo che c’è qualcuno! Non sono mai sola, nemmeno per un secondo. Ci sono tutti a casa: mamma, papà, la nonna, il nonno, mio fratello. E mia sorella dorme nello stesso letto con me.” Inarcò un sopracciglio e rise. “Penso che anche un ufficiale avrebbe qualche difficoltà con due sorelle nello stesso letto.”
“Dipende”, mormorò cingendole una spalla. “Com’è tua sorella?”
“È una ragazzina”, replicò Dasha. “C’è qualche posto in cui tu vorresti portarmi, invece?”
Alexander la portò in caserma. Quella sera era il suo turno.
Dasha gli chiese se era il caso che si svestisse. “Non vorrei che entrasse qualcuno mentre siamo qui.”
“Be’, questa è una caserma”, ribatté Alexander, “non l’hotel Europa. Se vuoi fallo pure, ma a tuo rischio e pericolo.”
“Tu ti spoglierai?”
“Loro mi hanno già visto”, le fece notare Alexander.
Dasha si spogliò e lui fece lo stesso.
Gli piacque come con qualsiasi altra ragazza. Aveva il tipico corpo delle donne russe: fianchi larghi e seni grossi; il tipo che faceva impazzire uomini come il suo compagno di stanza Grinkov. Quello che però gli piacque di Dasha fu la sensazione di familiarità e semplicità che gli comunicava il suo modo di fare. Come se si conoscessero da tempo. Anche le sue reazioni furono leggermente diverse dal solito. “Oh, mamma... Alexander. Ma da dove vieni?” gli chiese.
“Da dove vengo?” Si sollevò sui gomiti e la osservò.
“Sì. Mi piace... come ti muovi.”
“Mmm. Grazie.”
Rimasero insieme per un’ora, fino a quando arrivò Grinkov con una ragazza e non volle sentire ragioni sul fatto che non era il suo turno.
Si rivestirono e Alexander accompagnò Dasha al cancello. “Allora dimmi”, gli chiese, “pensi che ti ricorderai ancora il mio nome la settimana prossima, quando ci rivedremo?”
“Certo... Dasha, vero?” Sorrise.
La settimana seguente Dasha arrivò di nuovo con la sua amica; purtroppo Dimitri si era già allontanato con un’altra e lei non voleva piantarla in asso. Fecero una passeggiata lungo la prospettiva Nevskij tutti e tre insieme. Alla fine l’amica prese un autobus per tornare a casa e Alexander si portò Dasha in caserma. Ma non era il suo turno e la camerata era già piena.
“Hai due possibilità”, le propose Alexander. “O te ne torni a casa, o vieni dentro con me e ignori gli altri soldati.”
Dasha lo guardò, ma lui non riuscì a capire cosa le passasse per la testa. “Bene. Perché no? Mia madre e mio padre ci hanno sempre ignorati e noi abbiamo sempre fatto finta di dormire. Credi che stiano dormendo anche loro?”
“Direi proprio di no.”
“Oh. Forse è un po’ troppo strano per me.”
Alexander annuì. “Vuoi che ti riaccompagni a casa?”
“No, fa lo stesso.” Gli si avvicinò. “Ma la settimana scorsa mi sono proprio divertita.”
Alexander rimase un attimo in silenzio. “Anch’io. Andiamo ai giardini dell’Ammiragliato.”
Quando si incontrarono per il terzo sabato consecutivo trovarono un posto tranquillo sull’argine del canale Mojka, dove attraccavano le barche. Era un luogo abbastanza riparato. Dasha non aveva posto in cui sdraiarsi, ma Alexander ne trovò uno in cui sedersi. Lei non fece alcun rumore e anche lui si era allenato parecchio a non emettere suono.
“Alex... ti dispiace se ti chiamo Alex?”
“No.”
“Raccontami qualcosa di te, Alex.” Gli sorrise. “Mi sembri un tipo interessante.”
Avevano finito e Alexander sperava di poter tornare in caserma. Voleva andare a dormire. La domenica per lui iniziava alle sette, a prescindere da quanto le ragazze riuscissero a tenerlo sveglio. “Perché non mi racconti qualcosa tu?”
“Cosa vuoi sapere?”
“Hai frequentato molti soldati prima di me?”
“Non molti”, sorrise Dasha. “Ma non credo che tu voglia parlare di queste cose. Altrimenti devo farti la stessa domanda.”
“D’accordo.”
“Molte donne prima di me?”
Sorrise. “No.”
Lei scoppiò a ridere.
Anche lui rise.
“Sai cosa ti dico, Alex? Da quando ti ho conosciuto, tre settimane fa, non ho fatto altro che pensare a te.”
“Davvero?”
“Davvero. E non sono stata con altri uomini da allora.” Fece una pausa. “Puoi dire anche tu la stessa cosa?”
“Certamente. Non sono stato con altri uomini da quel giorno.”
Dasha gli assestò una spintarella. “E smettila! Hai tempo per un altro giro?”
“No.” Non voleva dirle che non aveva più preservativi. “Vieni a trovarmi la prossima settimana.”
“Dai”, sussurrò lei in tono provocatorio. “Ti prometto che farò presto.”
“No, Dasha. La settimana prossima.”
Quando Dasha se ne fu andata Alexander tornò in caserma. Nel corridoio incontrò una ragazza con cui era stato a maggio. Era simpatica, ubriaca e attraente e disse che non se ne sarebbe andata finché lui non si fosse sbottonato i pantaloni. Alexander si sbottonò i pantaloni.
La settimana fu lunga e ad Alexander toccarono due turni di guardia che, tra le altre cose, prevedevano la compagnia di un paio di ragazze reclutate da Dimitri. Il sabato andò al Sadko senza troppa voglia di vedere altre donne. Ma quando arrivò là cambiò idea. Ne incontrò una che non vedeva da tempo e dopo un paio di bicchieri la portò nel vicolo dietro al bar e la sbatté contro il muro. Quando lei gli chiese: “Non butti nemmeno via la sigaretta?” si sorprese di averla ancora in bocca. Congedò la ragazza e tornò al Sadko.
Qualcuno lo abbracciò da dietro. “Indovina chi è?”
Quando si girò vide Dasha. Sorrise. Era sola.
Per lui la serata era finita, ma quella di Dasha era appena cominciata e si sentì obbligato a offrirle qualche birra e a fare due chiacchiere. Fumarono, scherzarono e poi lei lo trascinò fuori dal bar. “Si sta facendo tardi, Dasha”, disse. “Domani mi devo alzare alle sette.”
“Lo so”, mormorò lei accarezzandogli il braccio. “Vai sempre di fretta. Devi sempre scappare. Ma che fretta c’è, Alex?”
Alexander sospirò e la guardò con esausto divertimento. “Cosa proponi?”
“Non so”, sorrise. “La stessa cosa della settimana scorsa?”
Lui cercò di ricordare. Per qualche ragione il tempo gli era sfuggito di mano dalla mente e si rese conto che se non se ne fosse ricordato Dasha si sarebbe offesa. Ci provò... ma nelle ultime due settimane c’erano state... cercò di concentrarsi. Si era parlato molto della guerra imminente.
“Non ti ricordi? Lungo la banchina del canale Mojka?”
Ora ricordava. L’aveva portata lungo il canale. “Vuoi tornare ancora là?”
“Più di ogni altra cosa.”
“Andiamo.”
Quando finirono era quasi l’una. “Alexander”, mormorò Dasha seduta sopra di lui, ancora ansimante, “devo ammettere che sei un amante piuttosto... resistente.”
“Grazie.”
“Ti sei divertito?”
“Certo.”
“Non sei di molte parole.”
“Di cosa vuoi parlare?”
Lei rise. “Credi che ci siamo già detti tutto?”
“Abbiamo detto tutto il necessario.”
“Vuoi che ci vediamo la settimana prossima?”
“Certo.”
“Hai anche un giorno libero? Magari potresti venire a cena a casa mia. Non vivo troppo lontano. Al Quinto Soviet. Potresti conoscere la mia famiglia.”
“Non ho molti giorni liberi.”
“Che ne dici di lunedì o martedì?”
“Di questa settimana?”
“Sì.”
“Vediamo. No, aspetta... devo... forse è meglio la settimana prossima.”
“Non possiamo continuare a vederci così.”
“No?”
“Be’, potremmo... potremmo anche andare da qualche parte.”
“Dove vorresti andare?”
“Non so. In un posto un po’ più bello. Magari a Tsarskoe Selo, o a Peterhof.”
“Si potrebbe”, replicò Alexander senza troppo entusiasmo. La sollevò, poi si alzò stiracchiandosi. “Si sta facendo tardi, Dasha. Devo tornare in caserma.” Tornò alla base e prima di rientrare in camerata si fermò a fumare una sigaretta e a bere una vodka con il sergente Petrenko che era di sentinella.
“Crede che le voci che si sentono in giro siano vere, tenente? Pensa che entreremo in guerra contro Hitler?”
“Lo ritengo inevitabile, sergente. Sì.”
“Ma com’è possibile? È come se l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Francia. La Germania e l’Unione Sovietica sono alleate da due anni. Abbiamo firmato un accordo.”
“E ci siamo divisi la Polonia come vecchi amici”, aggiunse Alexander con un sorriso. “Tu ti fidi di Hitler?”
“Non lo so. Non credo che sia così stupido da invaderci.”
“Spero che tu abbia ragione”, borbottò Alexander spegnendo la sigaretta. “Buona notte.”
Voleva solo andarsene a letto. Era forse chiedere troppo? Ma sia Marazov sia Grinkov erano nelle loro brande in compagnia di ragazze, nascosti sotto le lenzuola. Alexander sviò lo sguardo mentre saliva sulla sua branda, poi si coprì la testa con il cuscino.
“Alexander”, sibilò una voce di donna. “Sei un bastardo.”
Sospirando spostò il cuscino e aprì gli occhi. La ragazza che fino a poco prima era nella branda di Grinkov ora era in piedi davanti alla sua. In sottofondo Alexander sentì il commilitone che sghignazzava.
“Cos’ho fatto?” chiese stanco. Riconobbe il viso leggermente gonfio e lo sguardo annebbiato dall’alcool.
“Non ti ricordi? La settimana scorsa mi hai detto di venire qui stasera. Ti ho aspettato per tre ore a quel maledetto cancello! Alla fine ci ho rinunciato e sono andata al Sadko. E cosa vedo? Che ti stavi divertendo con una ragazza che non ero io!”
Alexander non aveva nessuna voglia di alzarsi, ma intuiva che si sarebbe beccato uno schiaffo da un momento all’altro e non voleva prenderlo da sdraiato. “Mi dispiace. Davvero”, borbottò alzandosi, con le gambe penzoloni giù dalla branda. Si ricordava solo vagamente di lei. “Non era mia intenzione.”
“No?” ribatté lei. Grinkov soffocò una risata nel cuscino. Marazov e la sua ragazza erano impegnati in altre faccende e non erano di certo interessati alla scena. Non lo era neppure Alexander.
Non ricordava il nome della ragazza. Voleva dirle di andarsene, ma non voleva offenderla davanti agli altri. Scese dalla branda e non appena lo fece lei tentò di sferrargli un pugno in faccia. Le afferrò il polso e la respinse scuotendo la testa. “Non sono in vena.”
“Siete tutti uguali, vero?” mormorò lei. “Odiate le donne. Siete solo dei puttanieri. Non ve ne importa niente di noi.”
“Non odiamo le donne”, ribatté Alexander con una certa sorpresa. “Per lo meno, io no. Ma...” come diavolo si chiamava? “Se siamo solo puttanieri, voi cosa sareste?”
La ragazza restò senza parole.
“Oh, ascolta...” continuò lui. “Sono stanco. Cosa vuoi da me?”
“Un po’ di rispetto, Alexander. Tutto qui. Solo un minimo di considerazione.”
Alexander si sfregò gli occhi. Era assurdo. “Senti, mi dispiace...”
Lo interruppe. “Non ti ricordi nemmeno come mi chiamo, vero?” Alzò di nuovo la mano e Alexander quasi non la fermò. Ma alla fine lo fece. Detestava essere colpito.
“Mio Dio! Mi dispiace per quella ragazza che si innamorerà davvero di te, brutto bastardo. La farai a pezzi, brutto porco senza cuore!” urlò.
“Ora mi ricordo... sei Elena”, disse mentre lei si avviava lungo il corridoio, verso le scale.
“Vaffanculo”, disse Elena scomparendo nell’ingresso.
Un commiato interessante, pensò Alexander tornando in camerata. Voleva fumare e fumare ancora tra le pareti di quella prigione e desiderava una stanza tranquilla dove poter rimanere solo e in pace anche soltanto per un attimo, dove sanare l’orgoglio ferito e pensare a se stesso e a come era arrivato a quel punto, lontano da Krasnodar e da Larissa che gli aveva concesso un po’ della sua dolcezza prima di morire, e dalla compagna Svetlana Visselskaja, l’amica di sua madre, che gli aveva detto: “Alexander, i tuoi doni sono così abbondanti, non sprecarli”. Bene, pensò, un giorno o l’altro una di quelle che hai scaricato arriverà in caserma con un fucile e ti farà saltare le cervella e sulla tua tomba scriveranno: “Qui giace Alexander, che non riusciva a ricordare il nome delle ragazze che si scopava”.
Nonostante la rabbia che provava cercò di addormentarsi. Erano le tre del mattino del 22 giugno 1941.