20

LA SCOMPARSA DI PASHA, 1941

“Dobbiamo parlare di Pasha”, disse Alexander. Percorrevano con calma la lunga strada che separava la Kirov da casa.

“Cosa vuoi dirmi?” ribatté Tatiana in un tono che ad Alexander parve forse troppo risoluto. Come se si aspettasse qualcos’altro.

“Devi convincere tuo padre a far tornare tuo fratello dal campo di Tolmačëvo. In questo momento il posto più sicuro per lui è Leningrado.”

Ma lei non capiva. Non capiva la strategia di guerra di Hitler, i suoi duemila carri armati, i cinquemila aeroplani, i cinque milioni di uomini con i loro cinque milioni di fucili, i quarantamila mortai e i trentamila obici e i sei milioni di mine che servivano a far saltare in aria i campi e i soldati russi dalla Crimea a Leningrado. E tra la Crimea e Leningrado c’era il campo di Pasha. Sulla strada di Hitler. Perché era così difficile da capire? Alexander cercò di spiegarglielo, le parlò della potenza della Germania, delle posizioni dell’esercito tedesco lungo i duemila chilometri di confine dall’Ucraina fino alla Prussia. Ma lei non sentiva, non capiva.

“La radio non dice le stesse cose, Alexander.”

Lui scosse la testa. “Tania, Tania, Tania.”

“Cosa? Cosa? Cosa?”

Nonostante la situazione Alexander rise. Anche lei fece lo stesso e continuarono a camminare. Ci avrebbe riprovato il giorno seguente. Il pensiero che comunque ci sarebbe stato un altro giorno per parlarne rendeva utile quella conversazione.

Mentre passeggiava con lei, sedeva sulla panchina ad aspettare il tram, osservava quel viso aperto e indifeso, Alexander provava la sensazione che Tatiana, in qualche modo, fosse troppo vulnerabile, senza alcuna barriera tra il volto e l’anima. Non poteva far altro che essere onesto con se stesso e con lei. La frase ero figlio unico continuava a ronzargli nelle orecchie e il volto di lei, confortante, comprensivo, sensibile, nuotava nei suoi occhi. Voglio quel viso nella mia vita, pensava. Prese fiato e disse: “Tania, tua sorella e io non facevamo sul serio. Le dirò che...”

Tatiana lo interruppe con un urlo acuto. “No! No, Alexander. Non è possibile. Non è possibile”, ripeté, nel caso non avesse sentito. “Per me ci saranno altri ragazzi, ma non avrò un’altra sorella.”

Alexander aprì la bocca, ma rimase senza parole. “Non sono un ragazzo”, mormorò, non trovando niente di meglio da dire. Lei parve turbata e non rispose e rifiutò con ostinazione di riprendere l’argomento.

Alexander non si sentì contrariato da quella reazione; anzi, ne fu stuzzicato. Che tipo di ragazza poteva mai essere quella, che lo guardava con occhi adoranti e poi lo rifiutava?

Presero il tram che portava a casa di lei; Alexander le chiese di scendere qualche isolato prima. Sapeva che avrebbe frainteso la sua richiesta. L’avrebbe interpretata come un diversivo per nascondersi dalla sorella. Non era quello il vero scopo di Alexander. I sentimenti di Dasha lo toccavano solo marginalmente. In realtà, voleva che Dasha non si accorgesse di nulla il più a lungo possibile per poter continuare a frequentare la loro casa.

Lungo la strada Tatiana lo guardò con un’aria di assoluta confidenza e gli chiese se i suoi genitori fossero ancora a Krasnodar. La stessa domanda che gli avevano già fatto centinaia di ragazze prima, ma questa volta Alexander non riuscì a trattenersi. Quegli occhi gli spalancarono l’anima e la bocca: “I miei genitori sono stati fucilati. Mia madre nel 1936 e mio padre nel 1937. Giustiziati dall’NKVD”.

Cosa le aveva detto? Sapeva perché aveva rivelato quelle stesse cose a Dimitri. Non aveva scelta: voleva una cosa da Dimitri e doveva fidarsi di lui. Ma cosa voleva da Tatiana?

Stranamente, dopo che glielo ebbe confessato, si sentì più leggero.

Sapeva che presto avrebbe dovuto raccontarle tutto. Era come se lei gli stesse chiedendo di mostrare il suo vero volto.

Come ci riusciva? Non gli aveva offerto nulla se non, forse... un alito di speranza per qualcosa di fresco, vivo e reale, un alito di speranza che proveniva da una ragazza onesta con gli occhi sinceri.

Più tardi, quella sera, non provò alcuna inquietudine. Sapeva ciò che avrebbe fatto il giorno seguente. Giocò allegramente a carte con gli altri ragazzi finché non ricevette una visita a sorpresa di Dasha. Passeggiò con lei per circa un’ora e permise che gli prendesse la mano. Si lasciò anche baciare. Alla fine disse che doveva rientrare.

“E non hai tempo per me, stanotte?”

“Mi dispiace, Dasha.”

“Sei sicuro? Andiamo... potremmo...” sussurrò strofinandosi contro di lui come una gatta.

“Non ho tempo, Dasha.”

“Non ci vorrà molto...”

Le rivolse uno sguardo annoiato.

Il giorno seguente andò alla Kirov a prendere Tatiana, guidato dal desiderio di un suo sorriso.

Scesero dal tram al Museo Russo e lui le chiese se voleva sedersi un po’. Non erano necessarie le parole: l’espressione su quel visetto era già una risposta. Tatiana entrò nel parco quasi saltellando. Si sedettero su una panchina. Quella vicinanza lo rendeva felice in modo assolutamente naturale e confortante.

Cauta, come se temesse di essere rifiutata o di potersi spingere troppo oltre, Tatiana gli toccò una spalla con le dita sottili, si schiarì la gola e disse: “Mi dispiace per i tuoi genitori. Raccontami cos’è successo”.

Il nodo che gli serrava l’anima da cinque anni cominciava a sciogliersi. Alexander prese fiato e le raccontò dell’America.

Riversò la sua vita e se stesso dentro di lei, a poco a poco, finché il nodo si allentò completamente, lasciandolo con una sensazione di crescente e sensuale sollievo davanti a quegli occhi incantati e pieni di lacrime che lo avevano inghiottito, e alla mano delicata che, nella lunga ora passata a parlare senza sosta, non si era mai fermata. Tatiana lo accarezzava con lo sguardo e con le dita ed era come se lo abbracciasse con la sua consolante presenza.

Tatiana rimase turbata dal racconto di quella vita fuori dal comune. Era così attenta a ogni parola e a ogni pausa che Alexander ebbe timore di dirle troppo: l’arresto, la fuga, il ruolo di Dimitri, i piani di fuga per tornare in America e i soldi della madre. Non voleva farlo. Si zittì, ma lei rimase attenta, assorbita dal silenzio e dal tuono che gli rimbombava nel petto. Alexander guardò l’orologio e si alzò dalla panchina. In un attimo, la storia che era rimasta a lungo chiusa nel suo cuore si era riversata in quello di lei. E ora, che ne sarebbe stato di loro? Sarebbero appartenuti entrambi all’NKVD senza neppure accorgersene.

Alexander voleva spiegarle che significato avesse avuto il loro incontro per lui. Voleva che lei sapesse che era rinato a nuova vita nel suo viso, nel suo vestito a fiori, nel suo sorriso. Che quel nuovo essere aveva fondamenta che portavano il nome di Tatiana e aveva un nuovo cielo e un nuovo orizzonte, un nuovo oceano, una nuova speranza, un nuovo sogno.

Il pomeriggio seguente, prima di andare a prenderla alla Kirov, passò dalla biblioteca pubblica di Leningrado e prese dagli scaffali il libro Il Cavaliere di bronzo. Ora sapeva qual era il posto più sicuro per i suoi soldi. Incartò il libro insieme a un dizionario inglese-russo e a una copia in inglese del saggio Sulla libertà di John Stuart Mill.

Tatiana uscì dalla fabbrica saltellando e quasi si mise a correre dopo aver salutato la scontrosa ragazza con cui lavorava. Si era messa una camicetta con le maniche corte e aveva i capelli sciolti sulle spalle. Sembrava pulita, accaldata, allegra e odorava di cherosene. Quel particolare intenerì Alexander.

Le diede il libro come regalo di compleanno in ritardo e, a giudicare dall’espressione che le si disegnò sul viso, gli sembrò che non avesse mai ricevuto un regalo prima. Poi la portò al Giardino d’Estate e le offrì da mangiare all’ombra degli alberi. Bevvero vodka e restarono seduti vicini, sulla panchina, a mangiare, chiacchierare, scherzare. “Tania?” Alexander continuava a ripetere quel nome con calma, cercando di non sorridere e di non manifestare troppo la sua emozione. “Ti piace il cibo?”

“Sì. Grazie.”

“E la vodka?”

“Buona.” Si schiarì la gola. “E dimmi, parli ancora inglese?”

“Non ho molte occasioni per farlo.”

“No, immagino. Mi dispiace. Volevo solo sapere se...” Tatiana si schiarì di nuovo la gola. “Potresti insegnarmi qualche parola di inglese?”

Guardarla mentre arrossiva era meglio di gran parte del sesso che aveva fatto negli ultimi sei anni.

Passeggiarono lungo la Neva, si sedettero e osservarono la notte bianca che diffondeva la luce su Leningrado. Camminarono lentamente, vicini, in silenzio, attraverso l’ombroso Giardino d’Estate. A volte il braccio nudo di lei sfiorava quello di lui.

Avrebbe voluto baciarla. Ma appena fuori dei giardini lei si allontanò, per quanto le era possibile senza scendere dal marciapiede. Così lontana dalle sue labbra, Tatiana gli confidò che uno dei diminutivi che preferiva era Tatia. Lui le disse che avrebbe potuto chiamarlo Shura, se voleva. Larissa non ne aveva avuto il tempo e nessun altro l’aveva mai chiamato così. Gli occhi di Tatiana si illuminarono. Alexander la osservò allontanarsi e correre, con le braccia aperte come ali.

 

Ad Alexander la guerra sembrava una cosa distante; ogni sera andava alla Kirov per vedere quegli occhi e le labbra appena dischiuse in un sorriso stupito, le gote in fiamme, le lentiggini. Percepiva la sua empatia. La sentiva sulla pelle.

Non riusciva a starle lontano. Aveva bisogno di Tatiana come del sapone sul corpo la mattina; aveva bisogno di vedere il suo volto, di sentirne la risata, il corpo esile che si appoggiava a lui quando prendevano il tram. Alexander non precipitava più. Era atterrato sulla terra di Tatiana. Una terra piena di sorgenti, fontane, pozze di limpida acqua estiva. La terra in cui si perdeva ogni sera mentre aspettava che lei accantonasse il resto della sua imperturbabile vita.

In quelle settimane continuò a incontrarsi con Dasha. Quanto più evitava di aprirsi, la allontanava, si dimostrava freddo e taciturno, si dileguava, le diceva di essere impegnato, tanto più gli occhi di lei si riempivano di sentimento. Non la vedeva spesso. Un paio di volte la settimana, e ogni tanto faceva visita all’appartamento delle ragazze insieme a Dimitri, poi andavano a fare una passeggiata o a prendere un gelato. Era un altro modo per stare vicino a Tatiana. Sperava anche che la gelosia l’avrebbe portata a riconsiderare le sue posizioni irremovibili, così lui avrebbe potuto troncare con Dasha.

Poi ci fu un giorno in cui Alexander, durante uno degli sporadici incontri con Dasha, con gli occhi chiusi e la ragazza sopra di lui sugli scalini dell’argine del canale, vide improvvisamente il volto di Tatiana e sentì il suo corpo tra le braccia. Aprì gli occhi, trafitto da una sensazione di vuoto, e si rese conto di quanto fosse impossibile e lontano dalla realtà. Ciò nonostante lo desiderava.

Dopo quella sera osservò Tania con maggiore attenzione. Si accorse del suo particolare profumo e, non appena poteva, si allungava verso di lei per assaporarlo. Avrebbe voluto avvicinarsi a sufficienza da annusare il suo respiro mentre faceva domande sulla guerra e lui rispondeva a monosillabi, perché l’unica cosa che voleva fare era respirare il suo respiro. Ma non le si avvicinò mai abbastanza. Sentì l’odore delle mani, insaponate ma ancora impregnate di petrolio e cherosene. Le annusò i capelli, lavati con sapone industriale, e la fragranza che trasudava da tutti i pori mentre camminava accanto a lui nella luce della sera. La lasciava salire sul tram per prima, si chinava su di lei per ascoltarla e per sentire la dolcezza muscosa del sapone e della pasta di pane che lo ubriacavano. Il problema non era più quello di starle lontano, ma di riuscire ad avvicinarsi.

La osservava gesticolare mentre parlava. Le dita sottili, belle. Se fossero state un po’ più lunghe sarebbe stata una pianista perfetta, un poco più corte e sarebbero state quelle di un chirurgo. Le unghie erano sempre curate. Le chiese come mai le tenesse sempre così pulite e lei rispose che una volta aveva conosciuto una ragazza con le unghie sporche che aveva avuto molti problemi. Tatiana non l’aveva mai dimenticato.

“Credi che abbia avuto problemi per colpa delle unghie sporche?”

“Ne sono praticamente sicura.”

Alexander avrebbe voluto sentire quelle mani immacolate su di lui.

Portava gonne sempre troppo lunghe. Voleva vederle le gambe, ma era impossibile. Gonne marroni, o grigie, lunghe fino alle caviglie, a portafoglio o con l’elastico in vita: il meglio che si poteva acquistare o produrre in Unione Sovietica. Le camicette erano più leggere, bianche, con le maniche corte. Riusciva a vedere il viso, parte della gola e le braccia sottili, coperte di lentiggini e di peluria color platino. A volte le toccava le braccia. Era l’unica parte di lei che riusciva a sfiorare.

La amava.

Quando se ne rese conto?

Forse già quel primo giorno in cui avevano attraversato il Campo di Marte, lei scalza, con i sandali rossi in mano. Forse quando aveva pronunciato quell’enfatico “No!” nel momento in cui le aveva annunciato che avrebbe lasciato la sorella. O forse quando rideva sul tram, incurante di chi la poteva sentire, o mentre camminavano lungo una strada deserta, diretti verso casa di lei.

“Ti andrebbe un gelato, Tania?”

“Sì, grazie!” aveva esclamato lei raggiante.

Forse allora.

Di certo nella sera al Giardino d’Estate, nella notte bianca trascorsa sotto l’olmo, con il caviale, la cioccolata, la vodka e la sua timidezza. Quando Alexander aveva consegnato nelle sue mani il denaro e la sua stessa vita senza che lei lo sapesse, quando aveva riversato la sua anima dentro di lei e le aveva dato il libro che gli avrebbe garantito la libertà. In quel momento se ne rese conto.

 

La guerra procedeva a un ritmo mai sperimentato prima nella storia moderna. Hitler e i suoi avevano attraversato 1500 chilometri di suolo russo, spingendo i cingoli dei loro carri armati su Sebastopoli e Simferopol, su Kiev e su Minsk, su Riga e Tallin, la Dunkuerque sovietica. I finlandesi, come si poteva prevedere, attaccarono da nord, pensando che fosse il momento buono per spingere l’esercito verso Lisij Nos e riprendersi la Carelia. Dimitri, in qualche modo, riuscì a non farsi spedire al Nord e chiese ad Alexander di farlo trasferire in un battaglione diretto a sud di Leningrado. A sud non si combatteva ancora.

Ma Pasha non era ancora tornato e da alcuni giorni la famiglia Metanov non aveva notizie dal campo di Tolmačëvo. Tania gliene aveva accennato in tono piatto, come se avesse timore di dar voce all’indicibile.

Alexander scoprì che i tedeschi erano arrivati a Novgorod, che si trovava a centocinquanta chilometri da Tolmačëvo, e ancora non giungevano notizie di Pasha, né degli assistenti incaricati del campo. Alexander parlò a Tatiana di Novgorod, ma se ne pentì subito. Dopo una prima reazione di paura, lei si animò e gli chiese: “Forse potremmo andare a cercarlo?”

“Chi? A chi ti riferisci? Secondo te l’Armata Rossa può andare a cercare un campeggiatore perso nei boschi? O intendi io e te?”

Tatiana si morse le labbra prima di parlare. “Intendo io. Forse io posso andare a cercarlo. Per conto mio.”

“Basta così, d’accordo?” la ammonì lui. Non voleva prenderla sul serio, ma temeva che non stesse scherzando. “Sono sicuro che sta bene”, continuò. “Il fatto che non riusciate a contattarlo per telefono non vuol dire necessariamente che ci siano cattive notizie. La colpa è di certo delle linee telefoniche sovietiche. Prenditela con il Ministero delle Comunicazioni. Dimitri va tutti i giorni all’ufficio dei telefoni e del telegrafo per chiamare sua madre a Kazan, ma non ci riesce. E sono sicuro che sua madre sta benissimo.”

“Non credo che ci stia andando tutti i giorni”, disse Tatiana. “Non le parla da due anni. E non penso neppure che si possano fare paragoni tra la madre di Dimitri a Kazan, nel mezzo della Russia, con mio fratello, che è praticamente nelle grinfie di Hitler.”

“Pasha non è nelle grinfie di Hitler”, ribatté Alexander, dispiaciuto del fatto che fosse riuscita ancora una volta a strappargli di bocca la verità. “Sta giocando a calcio in un campo a centocinquanta chilometri dal nemico.”

Tatiana non sembrava persuasa. “Non c’è modo di arrivare a Tolmačëvo?”

“No. A meno che tu non ti arruoli nell’esercito”, sentenziò Alexander, stufo di quella assurda conversazione e vagamente preoccupato, non solo per Pasha, ma anche per la determinazione di Tatiana. “Te l’ho detto, Tania. Pensa a te stessa, per una volta. Lascia Leningrado.”

“E io ti ho detto che la mia famiglia non se ne andrà senza Pasha.”

Alexander non replicò e continuarono a camminare.

“Sei stanca?” le chiese calmo. “Vuoi passeggiare fino al Ponte Palazzo? Penso che laggiù, da qualche parte vicino al fiume, vendano ancora gelati.”

 

Solo Tatiana era reale. Dasha e Dimitri erano fantasmi. Di lì a poco sarebbero scomparsi.

Era ridicolo. Quanto ancora sarebbe andata avanti quella storia?

Non troppo a lungo.

Quando tornò alla Kirov era più che determinato a porre fine a quella messinscena. Ma le prime parole di Tatiana furono: “Devi smetterla di venirmi a prendere”.

Cercò di persuaderla con tutte le sue forze, ma lei era irremovibile. Aspetta un momento... Cos’è successo alla tua diffidenza? Alla timidezza? E sai una cosa? Non te lo sto chiedendo, voleva dirle. Dobbiamo mettere fine a questo gioco.

Usò parole tenere e parole dure. Si dimostrò supplichevole e arrabbiato, tenero e capriccioso. Fu tutto ciò che sapeva essere.

Non era abituato ad avere a che fare con gente che non lo ascoltava o che non era d’accordo con lui. Di solito dava ordini ad altri uomini. Uomini che imbracciavano fucili. Ed essi rispondevano: “Sì, signore”. E ora davanti a sé c’era quell’esserino minuto che gli diceva di no. No. Senza dargli speranza per il futuro. Non gli proponeva di aspettare. Non voleva ferire la sorella, né in quel momento né mai. Non avrebbe scelto Alexander in cambio di sua sorella, a prescindere da ciò che provava per lui.

Non si sarebbe lasciata persuadere. E alla fine Alexander rimase solo con la sua rabbia.

“D’accordo, Tatiana. Ma farò le cose a modo mio, non a modo tuo. Troncherò con tua sorella e tu non mi rivedrai mai più. Ora vattene. Va’ da tua sorella Dasha. Voltati e vattene.”

In realtà voleva che lei si girasse e gli andasse vicino e, con la mano posata sul suo petto, gli confessasse che ciò che gli aveva detto non era quello che pensava, e che neanche lei poteva andare avanti così; che avrebbero detto la verità a Dasha e a Dimitri e ne avrebbero subito le conseguenze.

Ma Tatiana non disse nulla di tutto ciò che lui aveva immaginato o sperato. Rimase immobile per qualche secondo, con gli occhi fissi su di lui nel tentativo di nascondere i sentimenti che provava. Poi si voltò e si allontanò.

Tutta la sua vita sovietica era costruita su menzogne. E anche la sua storia con Tatiana nasceva da una menzogna.

Alexander smise di andare alla Kirov.

 

Per i primi giorni Alexander non riuscì quasi a dominare la rabbia. Riprendeva in continuazione le reclute volontarie, urlava contro l’intero plotone di giovani cadetti, perse le staffe anche con l’affabile Marazov che cercava di organizzargli una serata con una delle sue ragazze. “Tolja”, disse Alexander. “Quante volte te lo devo ripetere? Non mi interessa. Lasciami in pace.”

Nel buio della notte, dopo decine di sigarette, partite di carte e bicchieri di vodka fino a stordirsi, Alexander sdraiato sulla sua branda sentiva la mancanza di Tatiana. Non riusciva a smettere di pensare a lei che usciva dalla Kirov sola e che magari lo cercava, e camminava fino alla fermata del tram. Ogni sera desiderava andarle incontro, ma non lo faceva.

Non era certo il tipo pronto a supplicare e non avrebbe messo da parte l’orgoglio, neppure per lei. Determinato a concludere quella parentesi della sua vita e a eliminare ogni cosa che potesse ricordargli il fallimento, una sera invitò Dasha a fare una passeggiata. Non la portò al Giardino d’Estate, ma tornò sulle rive del canale Mojka dove lei si sedette ancora una volta sopra di lui.

Quando ebbero finito Alexander disse: “Penso che dovremmo smettere di vederci, Dasha”.

“Cosa?”

“Sono in una brutta situazione, al momento, e con questa guerra che avanza... non voglio iniziare una cosa che non potrò portare a termine.”

Fu sorpreso dalla reazione di Dasha, che cominciò a piangere. Alexander detestava vedere le donne piangere. Le sussurrò qualcosa, le sistemò il vestito, le asciugò le lacrime e cercò di consolarla dicendole che era una brava ragazza.

“Non ti vergogni, Alexander”, ribatté Dasha. “Sono ancora sopra di te e mi dici che non vuoi più vedermi?”

La sollevò con delicatezza e non aggiunse altro.

Dopo che si fu risistemata, Dasha si asciugò il viso e disse: “E perché non possiamo portarlo a termine?”

“Cosa?”

“Quello che abbiamo iniziato. Perché non potremmo?”

“Perché? Perché ci sono troppe cose che ci impediscono di andare avanti.”

“Cosa, per esempio?”

“Oh, Dasha.” Distolse lo sguardo. “È un brutto periodo per me.”

“Non capisci cosa provo per te, Alex? Cos’è successo al ragazzo che mi ha portata a Peterhof? Domenica scorsa a Peterhof è stata una delle giornate più felici della mia vita. Ti sentivo così vicino.”

Alexander non commentò. Quella domenica Tatiana aveva fatto la ruota per lui. Era tutto quello che ricordava.

“Non è forse così?”

Alexander allontanò l’impulso di scuotere la testa. Suo padre aveva ragione. Era quello il succo di tutti i rapporti umani. Lui voleva stare con Tania e Dasha voleva stare con lui, mentre Tania lo aveva rifiutato.

Dasha continuava a piangere, seduta poco lontano, sui gradini di pietra. Alexander si sentiva in colpa per quelle lacrime. “Non ti capisco”, continuò lei. “Cambi atteggiamento così spesso con me. Un attimo sei caloroso e l’attimo dopo sei scostante e imbronciato. Non so qual è il vero Alexander.”

“Ha importanza?”

“Certo. Io non voglio quello scostante e imbronciato.”

“Posso capirlo”, borbottò Alexander. “Chi lo vorrebbe?” Abbassò la testa e sentì la risposta nel cuore: Tatiana.

“Non ti diverti con me? Stiamo così bene insieme. Perché non dovremmo continuare?”

“A che scopo, Dasha? Cosa ti immagini che possa succedere tra noi?”

Lei sorrise maliziosa. “Quello che è successo anche stasera?” “Non hai bisogno di me per quello.”

“Ma io lo voglio da te. Non ti chiedo molto. Solo quando passi di qui. Mi accontento. Tutto quello che vuoi. Ti prego...”

“Non posso. È il momento che è sbagliato. Adesso non posso.”

Quell’ultima frase sembrò darle speranza e smise di piangere. “Allora quando?”

“Oh, mio Dio!”

“Alexander, ti prego”, mormorò Dasha. “Sai che mio fratello è scomparso. Scomparso, Alex! Non abbiamo più notizie di lui. Io e la mia famiglia siamo confusi. Non sappiamo cosa fare, a chi rivolgerci per avere informazioni o un po’ di conforto. Non hai nemmeno idea di quanto io abbia bisogno di te in questo momento. Ti prego, non farlo... non abbandonarmi ora.” E ricominciò a piangere. Alexander la riaccompagnò a casa senza dire una parola, con il braccio appoggiato sulle sue spalle.

“Ti prego...” gli disse Dasha con voce esitante sulla porta del Quinto Soviet.

“Mi dispiace, Dasha. Siamo andati avanti anche troppo.” Le diede un bacio frettoloso sulla guancia e, prima che lei potesse scomparire dietro la porta, Alexander si era già allontanato.

Ma Dasha non perse la speranza, confortata dalle stesse parole di Alexander: “Non adesso”. Determinata a non farselo sfuggire continuò a bazzicare intorno alla caserma e al Sadko, alla ricerca di un’altra soluzione, a chiedere ad Alexander ciò che lui non poteva darle.

Alexander aveva smesso di andare alla Kirov. La guerra non sembrava giungere al termine e nessuno conosceva il destino di Pasha. Poi una mattina Dasha andò da lui in lacrime e disse: “Non ci crederai... Tania è partita per Luga!”

Tatiana aveva lasciato un biglietto in cui diceva che si arruolava nell’esercito dei Volontari del Popolo per andare a cercare suo fratello Pasha, scomparso senza lasciare traccia insieme agli altri ragazzi del campo.

“Ti prego, Alexander. Puoi aiutarci?” piagnucolò Dasha stropicciandosi le mani. “Non possiamo perdere anche Tania. Puoi farlo... per me?”

Tatiana. Che ragazza impossibile.

Ad Alexander non piaceva chiedere aiuto al colonnello Stepanov. Il suo diretto superiore adesso era il maggiore Orlov, ma nessun altro, a parte Stepanov – che aveva il comando di tutti gli uomini della guarnigione di Leningrado – poteva autorizzare Alexander a prendere un camion dell’esercito per portare armi sul debole fronte di Luga. E senza quel camion e una ragione per andare a Luga, Alexander non sarebbe potuto partire alla ricerca di Tatiana.

Stepanov non l’avrebbe mai abbandonato, ma era proprio quella la ragione per cui non gli piaceva chiedere aiuto a lui, a meno che non avesse altra scelta. Come in quel momento.

Stepanov gli concesse l’autorizzazione senza esitare e prima di salutarlo gli disse: “Cerchi di tornare indietro, tenente Belov”, fece una pausa. “Come sempre.”

Rimasero un istante in silenzio.

“Farò del mio meglio, signore”, rispose Alexander congedandosi.

Prima di partire Alexander andò da Dimitri e gli offrì un posto nella squadra, ma lui rifiutò. “Dovresti venire, Dima.”

“Io vado dove mi mandano”, rispose Dimitri scuotendo la testa. “Ma non mi butterò volontariamente nella bocca dello squalo. Hai sentito cosa sta succedendo a Novgorod?”

“Sì. Ma ogni tanto faresti bene a metterti in mostra. Il comando approva, ti appiccicano una bella medaglia sul petto, ti danno una piccola promozione e improvvisamente non sei più in prima linea.”

“Grazie, non mi interessa. Per questa volta passo. Magari al prossimo giro.”

“E se non ci fosse un’altra volta?” disse Alexander con calma. Con altrettanta calma Dimitri rispose: “Be’, mi sembri tu lo specialista in questo campo. Stiamo ancora aspettando la prossima volta, dopo le tue buffonate in Finlandia”.

“Vieni con me a Luga”, insistette Alexander.

Dimitri scosse la testa. “Non sapevo che Luga fosse vicino a un altro paese. A meno che tu non abbia in mente di arrenderti ai tedeschi, tenente Belov.”

“Non ho nessun piano, soldato Černenko.”

Quando Alexander e i suoi uomini arrivarono a Luga il fragore del fuoco dell’artiglieria non era più così lontano. La terra era piatta e all’orizzonte c’erano fumo e tuoni. Quei rumori non significavano nulla, pensò Alexander. Erano tuoni di rabbia e di morte.

Arrendersi o morire.

Fumo nero, fuochi sparsi, esseri umani che si lamentavano. Era una scena apocalittica. I corpi galleggiavano nelle acque del fiume Luga. Sulle rive, lungo le trincee e le buche fortificate, i feriti si contorcevano al suolo.

Camminò attraverso decine di corpi, rastrellò i campi con metodo guardando in faccia ogni persona che lavorava per estrarre le patate o scavare trincee. Non la trovò.

I tedeschi stavano cercando di uccidere i soldati in prima linea, prima di attaccare con le truppe da terra. Era solo questione di giorni, poi sarebbe cominciata la seconda fase della guerra lampo. Alexander doveva trovare Tatiana in fretta, altrimenti sarebbe rimasto bloccato a Luga a fronteggiare i carri armati nemici.

Con il cuore pesante camminò lungo il fiume, alla sua ricerca.

Passò un altro giorno. La terribile sensazione che gli opprimeva il petto non smetteva di tormentarlo. Pasha era perso. Ovvio. Ma dov’era Tatiana? Perché non riusciva a trovarla?

Cominciò a perdere la speranza.

Quella sera il colonnello ordinò ad Alexander di rimuovere le macerie sparse sulla ferrovia dopo il bombardamento della stazione di Luga, in modo che i binari potessero essere riparati. Alla stazione di Luga, Alexander e i suoi uomini usarono lampade a cherosene per controllare i danni: il vecchio edificio in muratura era crollato e almeno cinquanta metri di binari erano stati distrutti.

Sotto i mattoni e le travi bruciate trovarono un corpo. Poi due. Poi tre. Poi una pila di cadaveri disposti a piramide. Alexander pensò che erano troppo ordinati. Non potevano essersi impilati da soli. Erano stati messi così di proposito. Rimase ad ascoltare e sentì un lamento. Spostò il corpo di un uomo, quello di una donna e avvicinò con ansia la lanterna a cherosene. Un altro gemito.

“Tatia...” mormorò incredulo.

Alexander spostò con forza cadaveri e detriti. Tatiana era semicosciente e, nella debole luce gialla della lampada, non sembrava neppure viva, ma quel lamento continuo proveniva dalla sua bocca.

I vestiti, l’elmetto verde, le scarpe, il viso erano coperti di polvere e sangue. “Forza, Tania”, disse strofinandole le guance, inginocchiato sopra di lei. “Coraggio.” Il viso era caldo. Buon segno.

Erano le undici di sera quando Alexander, dopo aver camminato per tre chilometri con Tatiana in braccio, raggiunse l’accampamento e andò a cercare un dottore, ma trovò solo un assistente.

L’assistente le tagliò i pantaloni. “La tibia è rotta”, constatò. Le sbottonò la camicia e le tagliò anche il corsetto per esaminare petto, costole e ventre. “Costole rotte”, disse.

Il fragile corpo era coperto di sangue. Ma era viva.

“Non so cosa potremo farne di lei domani”, sospirò Mark. “Ha bisogno di un vero ospedale. Bisogna ricomporre la frattura e ingessarla al più presto. Qui non possiamo farlo.” Portò tre asciugamani e qualche benda.

Alexander trasferì Tatiana nella sua tenda. La adagiò su un lenzuolo, le chiuse la camicia e andò al fiume a prendere un po’ d’acqua con un secchio. Quando tornò tagliò uno degli asciugamani in otto piccoli pezzi, li immerse nell’acqua fredda e le lavò il viso e i capelli. Si era tagliata la lunga chioma bionda quasi a zero.

Tatiana aprì gli occhi e si guardarono senza dire una parola.

Lei sollevò le mani e si toccò la pelle sotto i vestiti slacciati. Alexander distolse lo sguardo. Il cuore era sul punto di esplodergli. La aiutò a sedersi. “Lascia che ti tolga i vestiti. Sono inzuppati di sangue.”

Lei scosse la testa.

“Voglio solo pulirti, per evitare infezioni. Se ci sono delle ferite aperte si infetteranno. Prima ti laverò via il sangue dai capelli, poi ti benderò le costole e la gamba. Ti sentirai meglio, vedrai.”

Tatiana scosse la testa e si appoggiò a lui.

“Non avere paura, Tania”, mormorò Alexander. La strinse a sé e, dopo qualche istante, visto che non diceva niente, le tolse la camicia e il corsetto. “Lascia che mi occupi di te, Tatia.” Si fermò per prendere fiato. “Ti prego. Non avere paura. Non ti farò del male.”

“Lo so”, sussurrò lei, senza aprire gli occhi.

Le lavò i capelli, le braccia, il ventre e la parte alta del petto alla flebile luce della lampada a cherosene appoggiata in un angolo della tenda. Tatiana si lamentò solo quando le toccò il torace tumefatto.

Con gli occhi ancora chiusi e le mani sul seno, Tatiana sussurrò con voce rotta: “Ti prego... non mi guardare”.

“D’accordo, Tatia”, le rispose lui con voce ugualmente rotta. Si chinò e le baciò la parte superiore del petto, appena sopra la mano. “D’accordo.” Le labbra rimasero per qualche istante appoggiate sulla pelle di lei, poi si sollevò. La girò e la mise seduta per asciugarla. La bendò standole alle spalle in modo che il viso non si avvicinasse ai seni, che Tatiana continuava a coprirsi. “Perché ti sei tagliata i capelli?” le chiese sorreggendole la testa. Chiuse gli occhi per evitare di guardarla.

“Non volevo che mi fossero d’impiccio”, disse. “Ti dispiace?” Sollevò gli occhi indifesi.

“No”, disse Alexander con voce rauca. Dovette far ricorso a tutta la forza di volontà per non chinarsi su di lei e baciarla. La distese sulla coperta e uscì dalla tenda. Andò al fiume, poi le preparò un po’ di tè e rientrò. Tatiana era in uno stato di dormiveglia semicosciente. Purtroppo il dottore non aveva morfina per lei.

“Ho della cioccolata. Ne vuoi un pezzo?”

Tatiana si appoggiò sul fianco sano e succhiò la cioccolata, mentre Alexander sedeva sull’erba, accanto a lei.

“Perché hai fatto una pazzia del genere, Tania?”

“Per trovare mio fratello.” Gli rivolse un rapido sguardo, poi cominciò a tremare senza riuscire a fermarsi. “Ho tanto freddo. Potresti darmi il tè prima che mi addormenti?”

Le tenne la testa sollevata e le portò la tazza alla bocca.

“Sono così stanca”, sussurrò Tatiana mentre si sdraiava di nuovo.

Alexander si spostò.

“Dove vai?” gli chiese lei.

“Da nessuna parte.”

“Avrai freddo sull’erba”, sussurrò. “Vieni qui.”

Alexander scosse la testa.

“Ti prego, Shura”, disse Tatiana con voce dolce e le braccia tese verso di lui. “Ti prego, stammi vicino.”

Alexander non riuscì a dirle di no, anche se avrebbe voluto. Spense la lampada, si tolse gli stivali e l’uniforme sporca, cercò una maglietta pulita nello zaino, si sdraiò sul pastrano, di fianco a Tatiana, e si strinsero sotto la stessa coperta.

Era buio pesto nella tenda. Lui giaceva supino e lei sul fianco sinistro, con la testa appoggiata nell’incavo del braccio di lui. Alexander restò ad ascoltare il canto dei grilli e il respiro delicato di Tatiana. Sentiva quel respiro tiepido sulla spalla e sul petto. Il corpo nudo tra le sue braccia, premuto contro il fianco. Non riusciva a respirare.

“Tania?”

“Sì?” La voce le tremava.

“Sei stanca? Vuoi parlare?”

“Non sono troppo stanca.”

“Comincia dall’inizio e non fermarti fino al tuo arrivo alla stazione di Luga. Cosa ti è successo?”

Alla fine del racconto, Alexander rimase un attimo in silenzio. “E ti sei nascosta sotto un mucchio di cadaveri prima che la stazione crollasse?” le chiese incredulo.

“Sì.”

Alexander rimase in silenzio ancora. “Eccellente manovra militare, Tatia.”

“Grazie.”

Rimasero immobili per un po’. Poi la sentì piangere. La strinse a sé. “Mi dispiace per tuo fratello.”

“Dobbiamo trovarlo, Shura.”

“Oh, Tania.”

“Dobbiamo, Shura. Non posso tornare a casa senza averlo trovato. Non posso fallire in questo modo. Ti prego. Tu non conosci la mia famiglia.”

“Lo so, Tania. Ma dovranno imparare a vivere con ciò che è rimasto.”

“Non dire così. Neppure io posso vivere senza di lui.”

“Mi dispiace, Tania.” Non riusciva quasi a parlare.

“Non posso. Tu non capisci. Lui è il mio...” Scoppiò a piangere e non riuscì a terminare la frase. Dopo qualche istante riprese, con voce incerta: “E se Pasha fosse da qualche parte che mi aspetta e io non arrivo? Se si sta chiedendo perché ci metto così tanto tempo ad arrivare? Perché non arrivo? Forse perché è troppo scomodo?”

“Perché non c’è traccia di lui. Perché ci sono due milioni di soldati tedeschi tra te e Pasha. Perché non sei in grado di camminare. Sei distrutta. Lascialo stare. Lascia che se ne vada nelle braccia di Dio.”

Tatiana piangeva. “Ma chi altri dovrebbe venire a salvarti dal nemico se non la tua famiglia? Chi altri? Oh, Alexander, sono così triste a pensarlo da solo, senza di noi.” Rimase in silenzio. Anche lui non disse nulla e restò ad ascoltare il respiro di lei che riprendeva il ritmo normale. È solo senza di te, Tania, pensò Alexander.

Tatiana trattenne il fiato per un istante, come se volesse chiedere qualcosa. Lui continuò ad accarezzarle i capelli per farle coraggio. “Cosa c’è, Tatia?”

“Stai dormendo?”

“No.”

“Mi sei mancato... alla Kirov.”

“Anche tu mi sei mancata”, disse Alexander sfiorandole i capelli di seta dorata con le labbra.

Tatiana non aggiunse altro, ma continuò a muovere la mano sul petto di lui, con delicatezza. Emise un lamento di dolore, poi un altro ancora.

I minuti passarono.

Minuti.

Poi ore.

“Shura, stai dormendo?”

“No.”

“Volevo solo dirti... grazie, soldato.”

Alexander e Tania erano sdraiati nella tenda; non avrebbero voluto essere in nessun altro posto e lo sapevano entrambi. Nonostante l’esercito di Hitler a poche centinaia di metri da lì, nonostante le costole e la gamba rotte di Tatiana, nonostante lo spirito a pezzi, nonostante la perdita di Pasha. E la mattina seguente, soli nei boschi sotto le bombe, mentre le faceva scudo con il proprio corpo, Alexander non riuscì a trattenersi e la baciò. Sarebbero potuti morire in quei boschi, attaccati dai tedeschi. Quasi lo avrebbe preferito al pensiero di ciò che li attendeva: la disperazione, l’inganno, Dasha, Dimitri, la guerra. Alexander desiderò di poter rimanere per sempre giovane, sotto quegli alberi in fiamme.

In nessun altro luogo se non a Luga con Tatiana.

In nessun altro luogo se non a Luga con Alexander.