Il cerchio si era chiuso.
I tedeschi avevano circondato Leningrado. Hitler aveva dichiarato che la Russia non sarebbe stata sottomessa fino a quando lui stesso non avrebbe marciato vittorioso lungo le strade della città. Poi l’Armata Rossa ricevette informazioni secondo le quali Hitler non aveva intenzione di invadere la città, di ingaggiare combattimenti corpo a corpo per conquistarne i ponti e gli edifici. Aveva dato ordine di far morire di fame gli abitanti di Leningrado. Alexander sperava che Tatiana avesse comprato cibo a sufficienza durante l’estate... farina, zucchero e il necessario per tirare avanti fino a quando l’Armata Rossa non fosse riuscita a rompere il blocco. Temeva però che la famiglia Metanov non fosse realista circa le possibilità di sopravvivenza. Aspettavano ancora notizie di Pasha. Nonostante mancasse da casa ormai da mesi, non si erano ancora rassegnati all’idea di averlo perso.
Il padre beveva sempre di più. Alexander non poteva vederlo e aveva ridotto le visite all’appartamento del Quinto Soviet: cercava di mantenere le distanze dalla famiglia. La cugina Marina si trasferì dai Metanov dopo la morte del padre, caduto nel tentativo di difendere la fabbrica Ižorsk dai tedeschi. Non appena la conobbe Alexander si rese conto che la ragazza aveva mangiato la foglia sulla farsa che lui e Tatiana avevano imbastito, ma era troppo preoccupata per la madre in fin di vita all’ospedale per occuparsi anche di quella faccenda. Ma quando Alexander andava a trovarli Marina non gli toglieva mai gli occhi di dosso. Le due stanze, che erano sembrate così vuote dopo la partenza dei nonni, si stavano riempiendo di nuovo. Dopo la battaglia di Dubrovka, al di là del fiume Neva, nonna Maya si trasferì a vivere con la famiglia. Affrontava con filosofia le vicissitudini della vita, ma non la perdita dei suoi amati dipinti, bruciati dai tedeschi durante l’attacco al villaggio. Davanti a tutto il resto, compresa la storia di Tatiana e Alexander, scrollava le spalle senza alcuna curiosità. Perché Marina non aveva ereditato un po’ di quella riservatezza?
Anche Tatiana cercava di mostrarsi distaccata, impegnata com’era a respingere gli attacchi di Dimitri e a tenersi alla larga dal padre.
Dasha aveva un unico pensiero fisso: “Siamo in guerra, Alexander. Dimmi perché non possiamo sposarci”.
Stavano fumando nell’androne del palazzo. Le passeggiate erano diventate troppo pericolose. Alexander era perso nei propri pensieri. Rifletteva sulla scena a cui aveva appena assistito e a cui assisteva da settimane. Lui e Dasha erano usciti dalla stanza per andare in cucina e avevano visto Dimitri che schiacciava Tatiana contro il muro e le teneva la bocca premuta sul collo. Tatiana cercava inutilmente di allontanarlo, sussurrando: “Ti prego, Dima, smettila. Basta!”
“Dimitri!” aveva urlato Alexander, ma Dasha, senza alzare la voce, si era avvicinata e l’aveva afferrato per l’uniforme: “Sei impazzito, Dimitri? Lascia in pace mia sorella”.
A quello stava pensando Alexander quando Dasha ripeté: “Dimmi perché non potremmo sposarci”.
“Perché no?” aveva risposto con aria stanca. Voleva solo che Dimitri lasciasse in pace Tatiana. Se Dimitri avesse visto che era fidanzato con un’altra ragazza, forse l’avrebbe dimenticata. Solo questo gli interessava. Voleva davvero sposare Dasha? Non lo sapeva. Probabilmente no. Ma allo stesso tempo Tatiana gli sembrava solo un’opportunità che si era lasciato sfuggire, una storia del passato. I sentimenti che provava per lei erano immutati, ma la sua storia con Tatiana apparteneva a un altro tempo, a un’altra vita, a un altro uomo.
Un uomo che aveva un futuro, e lui non era di certo quella persona. In quel momento voleva solo salvare Tatiana da Dimitri. Non riusciva a pensare a nient’altro.
Avrebbe voluto dare una spiegazione a Tatiana, ma non riuscì a parlare da solo con lei neppure per un minuto. Non poteva prenderla in disparte per spiegarle la sua idea, per dirle di non preoccuparsi. A quanto pareva lei non era disposta a pagare quel prezzo per togliersi di torno Dimitri.
Voleva qualcosa di più da Alexander.
Ma lui non aveva niente di più. Non aveva niente.
Quando il fidanzamento fu annunciato ufficialmente Alexander non riuscì a dare una spiegazione plausibile a Tatiana. Disgustato e frustrato si offrì volontario per la Carelia, così sarebbe stato lontano dai Metanov.
Chiese a Dimitri di andare con lui, motivando quella richiesta con il valore, le medaglie, una promozione, la lontananza dai veri campi di battaglia. Non gli fece parola della possibilità di fuggire. Non aveva con sé i soldi – erano nelle mani di Tatiana – e non aveva modo di riprenderli. Non era il momento giusto. Ma l’amico, che non riusciva a vedere più lontano del proprio naso, rifiutò. Quello che Alexander aveva evitato di dirgli era che, se non fosse andato in Carelia, lo avrebbero mandato al di là del lago, a Tichvin, ormai noto luogo di carneficine. Dimitri rifiutò di partire per la Carelia e fu immediatamente spedito a Tichvin.
Anatolij Marazov decise di seguire Alexander in Carelia. Durante il viaggio, Marazov si schiarì la voce e disse: “L’altro giorno sono venute a cercarti tre ragazze”.
“Ah, sì?” rispose Alexander senza dimostrare eccessivo interesse. “Tutte insieme o una per volta?”
“Tutte insieme, come di solito preferisci. Una di loro si chiamava Tatiana qualcosa.”
Alexander si riprese immediatamente, cercando però di mantenere un’espressione impassibile.
Marazov non aggiunse altro, ma si limitò a fissare il compagno con occhio furbo. “D’accordo, Marazov. Smettila. Chi erano le altre due?”
“La sorella Dasha e la cugina Marina.”
“Ah.”
“Sì. Dasha non è quella con cui ti sei fidanzato?”
“Sì”, borbottò Alexander odiando la vita che stata vivendo.
Il compagno ridacchiò. “Ho fatto una piccola gaffe con loro. Ero così sicuro che Dasha non era il nome che di solito sussurri durante il sonno, che mi sono rivolto a Tatiana...”
“Cosa?”
Marazov rise. “’Vieni nella mia rete’, disse il ragno alla mosca.”
“Sì, e io sono la mosca, Tolja. Continua.”
“Be’, non c’è altro. Dasha mi ha detto che mi stavo sbagliando, Tatiana non ha aperto bocca e Marina sembrava mortificata. E io mi sono scusato.”
Alexander non replicò.
Qualche minuto più tardi Marazov si schiarì di nuovo la voce e, senza alcuna traccia di allegria, riprese il discorso. “Sono venute per portarti un messaggio...” fece una pausa. “Il padre è morto. Lo avevano portato in ospedale per disintossicarlo dall’alcool. L’ospedale è stato colpito ed è bruciato.”
Alexander serrò le mani sul volante e strinse le mascelle. “Grazie, Tolja”, disse in tono piatto. Per lei sarà più facile, pensò, ora che non deve più preoccuparsi del padre. Ma si vergognò immediatamente di quel pensiero. Era pur sempre suo padre. Non essere così crudele. Non ricordi cosa vuol dire avere un padre?
Non ricordava.
Sebbene non fossero apertamente in guerra contro la Finlandia, durante l’estate i sovietici avevano respinto i finlandesi e avevano stabilizzato il confine con una difesa ferrea. Quella linea non deve essere oltrepassata, sembravano dire i due eserciti dopo mesi di battaglie e distruzioni. I finlandesi erano convinti che la Russia non avesse la forza di combattere anche contro di loro e cominciarono ad acquistare eccessiva confidenza. Mentre presidiavano il confine tra il lago Ladoga e Leningrado, divennero ancora più arroganti e cominciarono a sparare contro i camion che portavano cibo in città sostenendo che trasportavano armi. Leningrado non poteva permettersi di perdere quelle poche tonnellate di cherosene e di grano. Alexander fu inviato, a capo di un centinaio di soldati, ad allontanare i finlandesi dalla strada dei rifornimenti.
Mentre pattugliava la strada e le foreste, si trovò di fronte ai finlandesi. Alle spalle aveva le truppe dell’NKVD pronte a sparare se si fosse ritirato dalla battaglia, se si fosse allontanato da una morte certa.
Ma i soldati dell’NKVD avevano fucili a colpo singolo. Lui invece era dotato di una nuovissima mitragliatrice Špagin con tamburo tondo da 71 e un fucile semiautomatico Tokarev. Era pronto ad affrontare l’NKVD e anche i finlandesi. Non era come nella guerra del 1940.
Passarono settimane di combattimenti selvaggi e metri di territorio guadagnati a prezzo del sangue sovietico. Dopo una giornata di sparatorie che lasciò sul terreno paludoso i cadaveri di centinaia di soldati dell’Armata Rossa, Alexander andò a controllare i danni subiti e si trovò solo, in una fredda sera di settembre, in mezzo ai morti delle due fazioni. Il fronte della Carelia era tranquillo e gli uomini dell’NKVD erano a mezzo chilometro da lì, nascosti tra i cespugli. I fuochi provocati dalle bombe bruciavano ancora, la neve era macchiata di sangue e l’aria impregnata dell’odore di carne bruciata. Alexander era solo, tra qualche isolato lamento.
Tutto tranquillo, a parte il tumulto nel cuore. Si guardò alle spalle: nessun movimento. Il fucile in mano, fece un passo avanti, un altro. Stava camminando tra i corpi dei finlandesi morti, vicino ai boschi. Gli sarebbero bastati pochi minuti per indossare un’uniforme finlandese strappata a uno di quei cadaveri e impugnare uno dei loro fucili.
Buio. Silenzio. Il tumulto nel cuore non si placava. Si guardò di nuovo alle spalle. Le truppe dell’NKVD non erano in vista.
Solo qualche mese con lei. Mesi. Nel vasto panorama di una vita quelle settimane, gli istanti rubati, la notte a Luga, i minuti in ospedale, il tram, il vestito bianco, gli occhi verdi, il sorriso occupavano solo la periferia; una macchia rossa nell’angolo di un quadro. Fece un altro passo. Non poteva aiutarla. Né lei, né Dasha, né Dimitri. Leningrado li avrebbe inghiottiti tutti e anche lui sarebbe stato condannato se fosse rimasto a guardare. Un altro passo. Morte nelle strade ghiacciate e sventrate di una Leningrado che stava soccombendo alla fame.
Nessuno si muoveva in quel territorio piatto. Fece un altro passo nella direzione giusta. Un altro ancora. Facile. Ora si trovava in mezzo ai finlandesi. Cerca un uomo alto, levagli l’uniforme e il fucile e abbandona il tuo, abbandona la vita che detesti, un altro passo e via. Scappa, Alexander. Non puoi salvarla. Vattene.
Per diversi minuti rimase su terreno finlandese, tra i cadaveri dei nemici.
Nel Paese che detestava c’era l’unica cosa che non avrebbe mai potuto abbandonare.
Se soltanto...
Scosse le spalle, si chinò e cominciò a raccogliere le armi abbandonate sul terreno ghiacciato. Aveva le braccia cariche di mitragliatrici quando sentì una voce alle spalle e si voltò.
“Cosa sta facendo, tenente!?” urlò il soldato dell’NKVD senza alcun rispetto per il dolente silenzio di quei boschi.
“Cosa le sembra che stia facendo, sergente? Che mi stia arrampicando sugli alberi?”
“Non sono un sergente! Sono un tenente come lei! Sa benissimo che è proibito passare nei territori finlandesi.”
“Non lo sapevo. Io ho l’ordine di non lasciare armi sul terreno di battaglia. Che si tratti di armi nostre o del nemico. Perché non la smette di urlare e non mi aiuta?”
Arrivarono un altro soldato e alcuni ufficiali, tra cui Marazov. Insieme raccolsero tutte le armi e i mortai che trovarono, compreso un cannone da sbarco che sarebbe stato molto utile in futuro; tornarono indietro alla luce dei fuochi che si spegnevano lentamente. Alexander lanciò un’ultima occhiata ai boschi della Finlandia.
Alexander tornò a Leningrado e rivide il viso di Tatiana, e sperò che potesse perdonarlo per la storia di Dasha.
“Come sta Dasha?” le chiese mentre tornavano indietro dal negozio che distribuiva le razioni. “Perché non viene con te? Tieniti stretta al mio braccio.”
Tatiana non lo fece. “Sono due cose diverse, Alexander. Lei non è qui perché sono le sette e mezzo di mattina e sta dormendo, oppure sta aiutando la mamma a lavare o a cucire. E sta bene. Non mi ha parlato per una settimana dopo la morte di papà. Neanche una parola. Dà la colpa a me per averlo mandato in ospedale: se non lo avessi convinto, ora non sarebbe morto. Lo capisci?” Sospirò. Alexander la cinse con un braccio. “Tu cosa pensi? Che abbia sbagliato?”
Alexander scosse la testa. “Te l’ho consigliato io. Era la cosa più giusta. E ricordati che il tuo palazzo al Quinto Soviet avrebbe potuto essere colpito allo stesso modo dell’ospedale. E potrebbe esserlo ancora.”
Tatiana si allontanò di un passo da lui, come per mantenere le distanze. “E poi un giorno, in cucina”, continuò, “Dasha mi ha guardata divertita e mi ha detto: ‘Vieni qui, Tania, che ti lavo i capelli.’ Ero molto contenta...”
“Lo immagino”, mormorò Alexander. “Appoggiati al mio braccio.”
Lei non lo fece. “... E poi mi ha lavato i capelli nel lavandino della cucina. Con l’acqua fredda, però. Ha tenuto l’acqua calda per il tè e per la nonna, che ha preso il raffreddore in settembre e non le passa più. Quell’acqua ghiacciata sulla testa mi sembrava una specie di benedizione. L’ho detto a Dasha e lei mi ha risposto che era la mia punizione: avrei avuto i capelli puliti, ma solo a quel prezzo.”
“Perché tutto ciò che la vita ti dà deve avere un prezzo?” sussurrò Alexander. “Hai mai mandato una di loro a recuperare le razioni?”
“Non ancora”, rispose lei allegra. “Ma lo farò.”
“Avete cibo a sufficienza?”
“Non abbastanza”, ammise Tatiana con meno allegria. “Vorrei un po’ più di zucchero. E della cioccolata. Mi andrebbero bene anche pane, uova e prosciutto, ma preferirei della cioccolata. Riesci a crederci?”
Quando lui tornò a trovarla non le portò uova, pane o prosciutto, ma cioccolata. “Vieni sempre da sola al negozio? Perché? Appoggiati al mio braccio.” Questa volta Tatiana lo fece. “Sei contenta per la cioccolata, Tania?” Sorrise.
E questa volta lei ricambiò.
Quanto più le scorte di avena, orzo, farina e zucchero diminuivano, tanto più la famiglia Metanov si affollava intorno ad Alexander chiedendogli cibo, razioni o qualunque altra cosa. Tatiana stava in disparte, vicina alla porta, lontana; e quanto più divideva lo scarso cibo con la famiglia Iglenko, usciva allo scoperto sul tetto senza pensare alla sua stessa vita, perdeva peso, tanto più Alexander provava risentimento nei confronti dei Metanov e amore verso di lei. Nel mezzo di quella terribile guerra, delle armi praticamente inesistenti, dei feriti che non potevano essere curati, i sentimenti di Alexander per Tatiana fiorivano rigogliosi.
Alexander voleva passare il resto della vita con lei, voleva proteggerla quando usciva di casa sotto i bombardamenti per portare il cibo alla famiglia che continuava a dormire: un chilo di pane stantio per cinque persone, mentre lui da solo riceveva un chilo di pane buono e molte altre cose.
Alexander rubava cibo per loro dalle chiatte che attraversavano il lago Ladoga e portava loro tutto ciò che poteva, e non appena riusciva a rimanere solo con Tatiana cercava di sollevarle il morale, sempre più a terra. Quando era a Leningrado la accompagnava al negozio a ritirare le razioni. “Reggiti al mio braccio”, le ripeteva sotto la neve che fioccava e le bombe. Lei si aggrappava a lui mentre attraversavano Leningrado.
I negozi vendevano solo pane. La fame aumentava. Alexander faceva sempre più fatica a nascondere ciò che sentiva nel cuore. Quando venne a sapere che Dimitri era stato ferito e si trovava in un ospedale al di là della Neva, gli fu sempre più difficile tenere in piedi il castello di menzogne. Cosa pensava quando aveva acconsentito a sposare Dasha? “Tania, Dimitri è stato ferito”, le comunicò con gioia, sperando che anche lei potesse condividere quel suo entusiasmo. Ma lei si strinse nelle braccia e annuì con solennità, rifiutando di sollevare lo sguardo. Non dobbiamo più preoccuparci, avrebbe voluto dirle. È stato ferito, è stato dichiarato inabile, forse morirà. Non capisci ciò che significherebbe per noi?
Tatiana teneva gli occhi fissi al suolo. “Dasha ieri ha detto che non vedeva l’ora che tu tornassi.”
“Vuole altro cibo, non è così?” disse Alexander trattenendo a stento un sospiro esasperato.
“A me è parso che volesse vedere te. Ma cosa ne posso sapere?” replicò Tania. Non si sarebbe abbandonata alla speranza. Il viso che un tempo era tondo e vivace, ora era pallido e smunto. Gli occhi infossati. Non sorrideva mentre faceva la fila e ascoltava le parole eccitate di Alexander. Metà del cibo che mi danno in un mese, lo porto a te, voleva dirle. Risparmio quasi tutte le mie razioni di carne, di verdura e la metà di quelle di farina e di grano e le porto a te. Prendo le razioni dei soldati morti e te le porto. La settimana scorsa ho rubato un sacco di riso da un camion e ho rischiato di venire fucilato quando mi hanno beccato. Ho detto che l’avevo preso per i miei uomini. E ora Dimitri è stato colpito. Ti cedo anche questo. Questo pensava, ma non glielo disse. Non aveva intenzione di dirle ciò che faceva per lei. Lei lo sapeva già. Ma avrebbe capito la situazione di Dimitri? Forse no. Forse non voleva.
Alexander cercò di parlarne ancora. “Ho sentito dire che Dimitri è messo piuttosto male. Ne avrà per mesi. Probabilmente non tornerà più a combattere.”
“Buon per lui”, replicò Tatiana. “Era quello che voleva. Dasha ieri ha detto che si sentiva molto in colpa, ma era contenta che fosse successo a Dimitri anziché a te.” Poi lasciò cadere il litro di latte di soia che le aveva portato e le razioni e i soldi e si inginocchiò piangendo per raccogliere il latte da terra. Prima che Alexander riuscisse a fermarla si leccò le dita che aveva immerso nel latte rovesciato. Non le parlò più di Dimitri.
Alexander non voleva più nascondere ciò che provava, ma Tatiana rimaneva sulle stesse posizioni di sempre e forse nascondeva il suo amore con ancora maggior determinazione. Nonostante ciò Alexander non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Osservava quel corpo sempre più magro, le parlava e la aiutava a portare le tazze del tè o la legna da ardere. Una volta si trovarono soli in cucina e lui le si parò davanti. Tatiana cercò di scansarlo. “Alexander, ti prego”, mormorò.
“Sono io che ti prego”, replicò lui. “Lasciati toccare.”
“Toccami, ma smettila con questi giochetti.”
Alexander si chinò su di lei e la baciò sulla testa. Lei gli premette il capo contro il petto, poi se ne andò.
Le lentiggini erano scomparse, e anche il sorriso. I capelli biondi erano costantemente nascosti da un berretto di lana, che non toglieva mai. Il corpo era racchiuso in strati di maglioni, giacche e cappotti, due sciarpe intorno al collo e tre paia di calzettoni. Una volta Alexander le toccò il gomito e si ritirò sgomento quando si accorse che era solo un osso.
Ciò che Leningrado dava loro – 250 grammi di pane al giorno per i lavoratori e 200 per gli altri – non era sufficiente. Le razioni di Alexander, i suoi soldi, il frutto dei furti non erano sufficienti a sfamarle. Tatiana divideva tutto in cinque parti non uguali e teneva per sé la porzione più piccola. Alexander cominciò a farle mangiare il pane che portava dalla caserma. All’inizio Tatiana rifiutò. “Tatiana, o mangi questo pane adesso...”
“Se mangio questo pane non sarò diversa da Marina.”
“Non è vero. Lei si mangia la sua parte e poi ti chiede la tua. Io non sto togliendo il pane di bocca a nessuno. Ti dico solo di mangiare le razioni che recupero dai morti.”
Tatiana non sembrava persuasa.
“Lascia che ti spieghi, Tania. La tua famiglia ha bisogno del cibo che procuro. Ma se tu, che esci tutti i giorni per prendere le loro razioni, non mangi qualcosa di più, smetterò di portare cibo per loro. Gli dispiacerà, non credi?”
“Non saresti capace di farlo.”
“Perché non mi metti alla prova?”
Tatiana non lo fece. Mangiò.
Una mattina di ottobre inoltrato stavano camminando verso casa quando una bomba si abbatté su un edificio a tre isolati da dove si trovavano. Non cercarono rifugio e continuarono a camminare.
Alexander affrettò il passo. “Riesci ad andare più veloce?”
“Perché?”
“Non vedi l’edificio che brucia? Andiamo, sbrigati!” Alexander imbracciò il fucile e insieme a Tatiana si introdusse nell’edificio attraverso un buco nel lato orientale del muro. Perlustrarono tre appartamenti finché non trovarono una dispensa con trenta scatolette di sardine e tre di funghi marinati. Aprì due lattine di sardine per Tatiana e gliele fece mangiare prima di portare a casa le restanti ventotto. Poi ci ripensò e gliene fece mangiare altre due.
Le donne della famiglia Metanov furono felici alla vista di quelle ventisei scatolette di sardine e dei funghi. Due giorni più tardi, quando tornò all’appartamento e chiese di vedere le scatolette nessuno rispose finché Tatiana disse timidamente che avevano troppa fame per risparmiare il cibo. “Non era molto. Solo cinque scatolette a testa”, disse Dasha, e la madre con una smorfia aggiunse: “E solo una per Tatiana che ha ceduto le altre alla donna che fa l’elemosina nel corridoio”.
Quella donna era Nina Iglenko, la madre di Anton, il migliore amico di Tatiana che era stato ferito da una bomba qualche settimana prima. Alexander osservò Tatiana senza dire una sola parola, ma lei non incrociò il suo sguardo e non aprì bocca.
La pretesa che Alexander fosse il ragazzo di Dasha non reggeva più. Marina aveva capito subito tutto. La nonna ci aveva messo un po’ di più. Alla madre non importava nulla. Solo Dasha restava cieca.
Non era cieca. Stava pian piano perdendo la vita e non aveva occhi per guardare Tatiana. Le forme rotonde del suo corpo erano sparite, il viso era scavato e aveva cominciato a perdere i capelli. La famiglia si stava disintegrando e Alexander non poteva salvarla. Se soltanto avesse avuto il coraggio di lasciare la Russia, quella notte di settembre, di inoltrarsi nei boschi della Finlandia, non avrebbe dovuto sopportare quel peso. Si sentiva svuotato, ma non provava paura.
A novembre, il mese del grande freddo, delle tormente di neve e di vento, le razioni furono ridotte ulteriormente per tutti. Anche per Alexander, che ora riceveva solo 800 grammi di pane. Il prosciutto in scatola era finito, così come la farina, l’avena, l’orzo. Era rimasto un po’ di zucchero e del tè. Ma non si poteva mangiare lo zucchero e nemmeno il tè.
Marina lo faceva. Mangiava le foglioline di tè e i granelli di zucchero. Mangiò anche i crostini di pane che Tatiana aveva abbrustolito tanto tempo prima e leccò l’interno del sacco che una volta conteneva la farina. Una sera Alexander la trovò inginocchiata per terra che perlustrava il pavimento con i palmi delle mani alla ricerca di qualche briciola caduta, mentre il resto della famiglia scrutava il fondo delle tazze vuote e la ignorava. Alexander si accese una sigaretta, inspirò il fumo e lo trattenne in gola per qualche secondo e, anche lui, la ignorò.
Diventava sempre più difficile rubare dai camion: non c’era cibo neanche lì e quello che trasportavano era protetto come se fosse oro. I soldati dell’Armata Rossa non portavano più addosso i cartoncini delle razioni. Alexander aveva il sospetto che li barattassero prima di essere mandati a morire lungo il fiume Neva.
Le vie di Leningrado erano disseminate di cadaveri. Sembrava di essere al fronte, con la sola differenza che lì non c’era sangue. No, neanche quello era vero. I cinque corpi adagiati sulla prospettiva Grečeskij e mezzo mangiati, sanguinavano. I tre colpiti da una bomba, sanguinavano. Ma gli altri corpi, allineati lungo le strade e coperti da lenzuoli bianchi, erano integri.
Alexander rimase lontano per settimane e quando tornò al Quinto Soviet gli corsero tutte incontro per salutarlo. L’unica che voleva vedere era Tatiana, ma fu anche l’unica che non riuscì a toccare. Il contatto o anche solo la vista di quel corpo scheletrico gli provocava un dolore insopportabile. Si limitò ad abbracciare le altre.
Il giorno successivo, dopo aver accompagnato Tatiana a recuperare le razioni, Alexander cominciò a sgridarla. Come puoi fare questo, come puoi fare quello? Perché continui ad andare sul tetto a spegnere fuochi o a dare la tua farina a Nina Iglenko? (“Non più”, rispose Tatiana. “Nina e Anton sono morti”). Perché continui ad andare al negozio da sola? Perché esci durante i bombardamenti? Perché non vai più veloce? Perché, perché, perché stai morendo?
Cosa c’era che non andava? Perché si era messo a sgridarla quando si rendeva conto di quanto fosse faticoso per lei anche solo reggersi in piedi? Non era colpa della farina che regalava né del resto. Erano le menzogne che lo stavano facendo impazzire. La vita si stava portando via anche la loro stessa carne e si ritrovavano sempre al punto di partenza: a dover mentire, imbrogliare, fingere e a tradirsi l’uno con l’altra.
Tatiana non aveva bisogno di spiegazioni. Nemmeno del cibo di Alexander, della sua rabbia, della sua comprensione o della morte di Dimitri. Voleva solo che lui le promettesse di non spezzare il cuore della sorella. “Sono le nostre ultime ore su questa terra. Voglio solo la pace per lei. Non mi sembra di chiederti troppo, non è così? Puoi farlo, vero? Smettila di litigare con me e di sgridarmi e smettila di chiedermi cose impossibili. Regala la pace a mia sorella, che ti ama. Sposala, se devi. Come le hai promesso. Ma dalle consolazione.”
“Ti prometto”, disse Alexander, “che se tu sopravvivi, non spezzerò il cuore di tua sorella.” Ma lascia che ti stringa a me, finché riesci ancora a stare in piedi.
I giorni della rabbia, dell’ansia, delle urla, non cessarono. “All’inizio ero stupefatto nel vedere come servivi la tua famiglia, poi deluso e infine arrabbiato. E adesso non ne posso proprio più. Ti proibisco di uscire da sola, capito? Te lo proibisco. Mio Dio, ma cosa devo fare per fermarti?” Alexander le diede una pistola, una P. 38 di produzione tedesca a caricamento automatico. “E voglio che tu la usi.”
“Alexander, ti prego, non so usare una pistola.”
“Invece puoi farlo e lo farai. Basta sganciare la sicura, tirare il cane, impugnare l’arma con due mani, puntare e sparare. Si ricarica da sola. Poi puoi sparare ancora, per altre otto volte. Alla fine rimetti la sicura e te ne vai. La prossima volta ti porterò altri caricatori.”
“Alexander!”
“Cosa c’è? Non ricordi il gioco che facevi con Pasha al lago Ilmen? Giocavi o no per vincere? Bene, adesso è il momento di giocare per vincere. La posta è molto alta.”
Quella sera Alexander parlò a Marina. “Io parto domani per il fronte”, le disse, “ma se quando torno tua cugina Tania mi dice che ti sei mangiata tutte le tue razioni senza dividerle con il resto della famiglia, chiedendo dell’altro cibo, ti giuro che prendo la pistola e ti sparo. Ne ho abbastanza di te. Ci siamo intesi?”
“E cosa credi che succeda qui, Alexander”, rispose Marina, “mentre stai fuori nel tuo mondo dorato? Cosa credi che succeda a tutte noi? Chi credi che potranno salvare le mie misere razioni? Me o la tua cara Tanechka?”
C’erano solo Tatiana e Marina nel corridoio insieme ad Alexander, che si avvicinò a Marina e continuò: “Te no di sicuro, se continui così. Le tue minacce possono funzionare con Tatiana, ma non con me. Qualunque cosa tu creda di nascondere...”
“Io? Non sono certo io quella che nasconde le cose qui, non lo credi anche tu, Alexander?”
Tatiana tentò di allontanarlo. Lui non aveva alcuna intenzione di assecondarla, anche se gli piaceva sentirsi le mani di lei addosso.
“Ci risiamo! Ti ho detto che con me non funziona, mi hai sentito? Di’ pure a tutti quello che pensi di sapere, ma sta’ lontana dal pane degli altri.”
Marina non lo fece.
Quando tornò, Alexander chiese a Tatiana come si stesse comportando la cugina. “Bene”, rispose. “Davvero bene. Porta sempre a casa tutto il suo pane.”
“Non sei capace di mentire. Guarda, ti ho portato un piccolo extra.”
“Grazie, ci farà molto comodo.”
“Non è per loro o per qualcun altro. È per te.”
Stavano percorrendo la prospettiva Nevskij, diretti verso l’ufficio postale. Tatiana era aggrappata al braccio di Alexander. Lui si chinò e le diede un bacio sulla testa.
“Va tutto bene”, sussurrò Tatiana sotto la neve che turbinava. “Tu sei qui e va tutto bene.”
Alexander se ne andò e, quando tornò, nonna Maya se ne era andata. Non disse nulla. Marina aveva ragione. Duecento grammi di pane in più non sarebbero serviti a salvarle tutte e cinque. Ora erano rimaste in quattro.
Tania smise di chiedergli come gli andavano le cose e se aveva fame. Era un bene che non avesse la forza di fare domande, perché Alexander era davvero affamato, come non lo era mai stato in vita sua. Se trovava cibo nei camion abbandonati o negli accampamenti, se riusciva a rubare qualcosa alle truppe dell’NKVD che venivano ancora nutrite, se trovava qualche cartoncino delle razioni addosso ai soldati morti, metteva da parte qualcosa per i Metanov, ma si mangiava quasi tutto il pane nero o le cipolle. Dava ai Metanov la metà del suo stipendio mensile perché si comprassero qualcosa al mercato nero e spendeva il resto in sigarette e cibo extra per sé. Ma non c’era più cibo, neppure al mercato nero. Alexander aveva mille rubli da spendere e trovò uno dei fornitori dell’Armata Rossa pronto a vendergli un tozzo di pane nero e un po’ di burro per duemila rubli. “È pane nero di quello buono. Non quelle schifezze fatte di segatura e cartone che danno ai civili. Pane nero vero e burro vero.”
“Cosa posso comprare con mille rubli?”
“Puoi comprare della merda con mille rubli. Sei un ufficiale. So benissimo che i soldi li hai. Ti vendo quello che ho per duemila rubli. Non un copeco di meno.”
Prima che Alexander avesse il tempo di contrattare, arrivò un altro ufficiale che comprò il pane per duemila rubli e se lo mangiò sulla strada verso la sua tenda.
Novembre finì. A Leningrado le strade bianche e piene di buche a causa delle bombe erano ancora disseminate di cadaveri che nessuno riusciva a spostare o seppellire. Tutti i becchini e i trasportatori erano morti. Non c’era elettricità. Non c’era cherosene per accendere i forni per cuocere il pane, e comunque non c’era farina per fare il pane. I sovietici avevano perso la città di Tichvin in novembre e avevano impiegato il resto del mese e la prima settimana di dicembre, e decine di migliaia di soldati, per riprendersela. Senza Tichvin i camion di rifornimenti non potevano arrivare al lago Ladoga e raggiungere infine Leningrado. Nessuna perdita umana era considerata eccessiva pur di riprendere Tichvin.
Alexander fu risparmiato da morte certa. Grazie alle vittorie riportate in Carelia fu inviato sul lato settentrionale della Neva, vicino al lago Ladoga. Una volta respinti i finlandesi, gli fu ordinato di difendere il confine tra Finlandia e Unione Sovietica; in seguito gli fu ordinato di andare al lago Ladoga per difendere le chiatte cariche di rifornimenti dagli aerei tedeschi. Gli fu assegnato il suo primo Zenith, un potente lanciamissili contraereo. Abbattere gli aerei della Luftwaffe fu la parte che preferì in quella orribile guerra, anche se doveva rimanere per ore appostato nella neve con i piedi, le mani e il viso resi insensibili per il freddo. Nonostante tutto c’era qualcosa che gli dava soddisfazione in quella missione. I tedeschi costruivano gli aerei e lui glieli distruggeva con estremo piacere.
La superficie del Ladoga ghiacciò e Alexander lo attraversò su una slitta trainata da cavalli per provare se potesse reggere camion pieni di grano e carburante. Alla fine di novembre il ghiaccio non era ancora abbastanza resistente; si rompeva e i camion affondavano; i tedeschi bombardavano i camion, e quelli bruciavano. A poco a poco il ghiaccio si ispessì e Alexander migliorò le sue prestazioni con lo Zenith. Non fece ritorno a Leningrado per cinque settimane. Rimase a consolidare e proteggere la strada ghiacciata sul Ladoga, che chiamavano la Strada della Vita.
Quando tornò in città, alla fine di dicembre, erano rimaste solo in due. Dasha e Tatiana. Marina non c’era più. La madre non c’era più. L’appartamento era gelido. Un vetro si era rotto e la finestra era stata tamponata con le coperte. Non avevano più legna da bruciare nella piccola stufa.
Dasha lo abbracciò e Tatiana rimase sul letto a fissarlo con gli occhi sempre più spenti.
Marina era morta poche settimane prima, ma non era lì. Il cadavere della madre invece giaceva sul divano da cinque giorni. Le ragazze non erano riuscite a spostarla. Alexander la portò fuori e la trasportò fino alle porte del cimitero, dove la adagiò su un cumulo di neve. Non poteva scavare una fossa nella terra ghiacciata. Ma in qualche modo la seppellirono. In piedi davanti a quel corpo si ritrovò a pregare in inglese. “Prendi con te la sua anima e proteggila dal fuoco dell’inferno”, sussurrò rivedendo un’immagine di sua madre che si piegava su di lui per dargli il bacio della buona notte.
Segò i mobili della sala da pranzo dei Metanov e raccolse i pezzi di legno in mucchietti, li legò e accese il fuoco, poi si sedette davanti alla stufa insieme a Tatiana e Dasha. Per qualche istante provò un po’ di calore.
Tatiana gli offrì una zuppa d’orzo con olio di lino. Poi mise un piatto davanti a Dasha. Non aveva più l’energia per fingere. Non c’era più nessuno che la guardava e poteva servire Alexander per primo, se voleva. Lui, invece, voleva solo che lei mangiasse. Tatiana prese per sé la porzione più scarsa, dicendo che andava bene così, perché era la più piccola e aveva meno bisogno di cibo degli altri. Dasha, che aveva già mangiato tutta la sua zuppa, le diede ragione. Alexander invece versò qualche cucchiaiata della sua nel piatto di Tatiana, che non ebbe la forza di rifiutarla. La mangiò e lo ringraziò.
Pochi giorni più tardi il 1941 finì e cominciò il 1942. Quel giorno ad Alexander sembrò di dover dire addio non solo al 1941, ma anche al 1942.
Il primo giorno dell’anno Alexander aiutò Tatiana a raggiungere l’ufficio postale. Non capiva come riuscisse ancora a reggersi in piedi. Avrebbe voluto portarla in braccio. Chinò il capo e le sussurrò: “Vorrei poterti portare in braccio”. Ma il vento fischiava forte e lei non lo sentì.
Non glielo ripeté e lei si aggrappò con più forza al suo braccio. Davanti alle scale ghiacciate dell’ufficio postale le sistemò la sciarpa e il berretto, poi la guardò salire. Doveva tornare in caserma, ma prima voleva assicurarsi che andasse tutto bene.
Quando si voltò per andarsene vide Dasha, che lo guardava allibita dall’altro lato della strada. Alexander non aveva voglia di addurre scuse, ma ricordava ancora la promessa fatta a Tatiana. Lei era ancora viva e lui non poteva ferire Dasha.
“Ciao”, le disse avvicinandosi. “Cos’è successo?”
Dasha lo fissò senza parlare.
“Cos’è successo?” le chiese di nuovo sfiorandole il viso.
Lei non rispose, ma continuò a fissarlo con aria interrogativa. Cos’era successo? Aveva troppo freddo per ricordare. La stessa cosa che succedeva da mesi. Lui e Tatiana avevano camminato nella neve, lei aggrappata al braccio di lui e poi si erano guardati, oltre il vento, oltre le sciarpe, oltre la fame e il freddo, oltre Dasha e Dimitri, e quella volta Dasha li aveva visti. Non aveva né il desiderio né la forza di parlarne.
“Hai accompagnato mia sorella all’ufficio postale?”
“Sì. Lo sapevi che sarei andato con lei. Ci hai mandato tu.”
“Sì.” Lo guardava con aria triste.
“Dasha, perché sei uscita da sola? Devo scappare. Devo preparare tutta la mia roba entro le dodici. Non posso accompagnarti a casa.”
“Non ce n’è bisogno. Aspetterò che Tatiana esca”, replicò, poi si allontanò da lui e vomitò. Ma non aveva nulla nello stomaco, neppure la bile o i succhi gastrici.
Riluttante, ma incapace di fare altrimenti, Alexander la lasciò lì e fece ritorno alla caserma. Passò l’intera giornata a chiedere se ci fosse un camion in partenza dalla guarnigione e diretto al lago Ladoga. Ce n’era uno, ma era pieno. Pieno di armi e altra gente, parenti di altri maggiori, capitani e colonnelli. Non c’era posto per Dasha e Tatiana. Sapeva di non avere molto tempo. Doveva riuscire a trasportarle al di là del lago Ladoga, a Kobona. Da lì avrebbero potuto proseguire verso Molotov. Ma per farle arrivare a Kobona, doveva prima portarle a Kokkorevo, sulla riva più vicina del lago. E per farle arrivare lì ci voleva un camion. Non aveva un cavallo su cui caricarle e percorrere quei settanta chilometri e neppure una slitta, che avrebbe trascinato lui stesso. Di certo non poteva caricarsi le ragazze sulla schiena, come aveva fatto con Tania a Luga, e camminare per settanta chilometri.
Se avesse aspettato ancora sarebbe stato troppo tardi. Non avrebbe più avuto nessuno da trasportare. Chiese se ci sarebbe stato un camion in partenza il giorno successivo. Sapeva che ogni notte ne partiva uno carico di armi e persone. Ma il camion era piccolo e tanti volevano andarsene. La gente partiva con tutti i mezzi e Alexander li aveva visti, morti lungo la strada. Non sul ciglio della strada, proprio in mezzo.
Il giorno dopo e il giorno dopo ancora. “Quante famiglie di maggiori e colonnelli che vogliono andarsene ci sono ancora?” chiese all’attendente che gli dava le informazioni in cambio di qualche bicchiere di vodka.
“Non si preoccupi, capitano. È solo questione di tempo. Troveremo un posto sul camion anche per lei. Fra qualche settimana. Un mese al massimo.”
“Caporale! Non abbiamo un mese! Ci resta solo qualche giorno. E poi, fra qualche giorno, avrò anche finito la vodka. Veda se può fare qualcosa per me.”
Il giorno dopo il caporale gli disse che il camion era di nuovo sovraffollato. Avrebbe trasportato venti persone anche se ce ne stavano solo dieci.
Poi Tatiana andò da lui in caserma a chiedergli cibo per Dasha. Alexander capì che non le restavano molti giorni. Forse solo qualche ora. La portò a mangiare in mensa, senza il coraggio di chiederle come stesse Dasha. Voleva sapere se era successo qualcosa dopo che lei li aveva visti insieme davanti all’ufficio postale. Era preoccupato per Tatiana, sola ad affrontare la rabbia e la tristezza della sorella. Ma lei non parlava e Alexander non aveva il coraggio di chiedere.
Mentre la riaccompagnava fuori, Tatiana cadde e non riuscì più a rialzarsi.
Alexander la caricò su una slitta e la trainò fino al Quinto Soviet: non aveva neppure la forza di stare seduta. Si sdraiò e Alexander non riusciva a voltarsi verso di lei, nel timore di sentire il suo ultimo respiro.
Tatiana tenne duro fino a casa, ma non riuscì ad alzarsi dalla slitta.
Alexander si inginocchiò accanto a lei. “Ti amo, Tatiana. Mi senti? Ti amo come non ho mai amato nessuno in tutta la mia vita. Alzati, ti prego. Fallo per me. Alzati e occupati di tua sorella. E io mi occuperò di te.”
Tatiana aprì gli occhi e sospirò. Lo guardò per alcuni istanti, poi, sorretta da lui, si alzò.
Raggiunse la stanza e trovò Dasha che la aspettava, affamata e ammalata. Alexander sentì la tosse catarrosa. Tubercolosi. Lo sapeva. Doveva portarle via, doveva quanto meno provarci. Tornò in caserma e cercò il caporale Tugalič con l’intenzione di non lasciarlo in pace finché non gli avesse trovato posto in un camion. Ma Tugalič lo stava aspettando davanti alla porta della caserma. “Capitano, lei non ci crederà! Finalmente ho buone notizie. Stasera mancano all’appello diciassette persone. Sono tutte morte.”
“Non posso crederci.”
“È vero. Ci saranno solo tre persone sul camion. Porti la sua fidanzata, ma si ricordi: il camion parte all’una esatta. Faccia in modo di essere qui per quell’ora. E se a lei sta bene, accetto la vodka che le resta.”
Ad Alexander andava bene.
Riuscì a portare fuori le ragazze, nel cuore della notte. Dasha non era in grado di camminare. Lui e Tatiana la adagiarono su una slitta e la trascinarono. Alexander non capiva come Tatiana potesse ancora reggersi in piedi. Sembrava già un cadavere, con la pelle bianca e trasparente che aderiva alle ossa del viso.
Tatiana si stava dimenticando il libro che Alexander le aveva regalato. Anche se non era il momento di pensare ai libri, le chiese di prenderlo con sé. “Da’ un’occhiata alla copertina del libro di Puškin quanto sentirai che la fortuna ti ha abbandonata”, le disse, nella speranza che capisse. Lei sollevò gli occhi confusi. Anche se in quel momento non capiva, lo avrebbe intuito più tardi, quando avrebbe potuto servirle. Alexander non voleva che trovasse i diecimila dollari nascosti nella copertina, ma voleva che trovasse i quattromila rubli. Con quei soldi avrebbe potuto comprare un cavallo per attraversare il Volga.
Si sedettero sul camion che li avrebbe portati fino al lago, alla Strada della Vita. Dasha era sdraiata sulle loro gambe, appoggiata a loro due che si scambiavano occhiate furtive. Alexander era esausto, chiuse gli occhi e si addormentò. Quando si svegliò vide gli occhi sgranati di Tatiana che gli parlavano dei suoi sentimenti, della sua vita.
Arrivati al Ladoga le aiutò a salire su un altro camion. Le aveva salutate e stava per abbassare il telone del camion quando Dasha, davanti a Tatiana, chiese: “Alexander, da quanto tempo ami mia sorella?”
Alexander lanciò un’occhiata a Tatiana. Cos’aveva fatto? Stava mandando le due ragazze a Molotov dove nessuno avrebbe protetto Tatiana dalla sorella col cuore infranto. Guardò Tatiana per capire se fosse pronta ad assolverlo. Gli occhi erano tristi e lucidi. Tatiana gli stava chiedendo qualcosa per sé, non di infrangere la promessa. E nonostante tutto lui era pronto a dire a Dasha che era dispiaciuto, ma che amava la sorella dal primo giorno in cui l’aveva vista. Ma Dasha tossì e sputò sangue e Alexander chiuse la bocca. Stava morendo. “Non ho mai amato tua sorella”, le disse, senza guardare Tatiana. “Amo te. Lo sai cosa c’è tra noi.”
Alexander dovette raccogliere tutta la forza rimasta per non guardare Tatiana, per non dirle nulla. Sapeva che, se l’avesse guardata, Dasha avrebbe capito che stava mentendo. Non sarebbe più riuscito a nascondersi.