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LA MADREPATRIA, 1945

Il treno si fermò una volta, due, tre, quindici volte, lungo il viaggio. Il viaggio per dove? Alexander disse a Ouspenskij che lo avrebbero scoperto una volta a destinazione. Ma non fu così. Cambiarono treno due volte, sempre nel cuore della notte.

Ad Alexander sembrò di avere le allucinazioni, quando le sue catene tintinnarono sui binari di metallo. Non vedeva l’ora di stendersi sulla piattaforma di legno del vagone e chiudere gli occhi.

Il treno proseguì verso est. La carrozza scuoteva i corpi degli uomini incatenati di ritorno dalla guerra e diretti verso la Madrepatria, mentre Alexander e Nikolaj mangiavano una scarsa brodaglia da un’unica ciotola da cui il liquido fuoriusciva ogni volta che il treno sbandava.

Il convoglio attraversò pianure, foreste e il fiume Elba.

Alexander si coprì il viso con il braccio. Il Kama era coperto di ghiaccio. Per tutta la notte vide il volto sorridente e lentigginoso di lei.

Il treno accelerò attraverso le montagne, oltre i pini, il muschio e le cave di pietra.

Dopo giorni e giorni, notti e notti, dopo un ciclo intero della luna, ancora non erano arrivati.

La brodaglia era l’unico alimento.

Di notte, nel vagone, faceva molto freddo. Intorno a loro, si estendeva l’immenso altopiano tedesco.

Dormì.

La sognò.

Tatiana si sveglia urlando e si siede nel letto, spingendo qualcosa davanti a sé. Assonnato, Alexander si tira su accanto a lei. “Tania, Tania”, dice afferrandole un braccio. Con una forza sorprendente, lei si libera dalla presa, terrorizzata e furiosa. Poi, senza neanche voltarsi, lo colpisce sul viso con un pugno. Colto alla sprovvista, Alexander non ha il tempo di scansarsi. Il naso comincia a sanguinare. Preoccupato per lei, l’afferra per le braccia, questa volta con più forza, ed esclama: “Tania!”

Nel frattempo, il sangue gli scorre sulla bocca, sul collo e sul petto. È il cuore della notte e fuori la luna piena, di un azzurro lucente, illumina a sufficienza l’isba da permettergli di vedere il profilo nudo di lei che gli ansima davanti e le gocce scure che cadono sul lenzuolo bianco.

Tania si sveglia, respira e comincia a tremare. Alexander le lascia andare le braccia.

“Oh, Shura”, sospira Tatiana, “non crederai mai al sogno che ho fatto”, e poi si volta verso di lui e dice senza fiato: “Mio Dio, che cosa ti è successo?”

Alexander resta immobile, con la mano sul naso.

Tatiana lo scavalca, scende dal letto e si precipita a prendere un asciugamano, ritorna a letto, si siede contro il muro attirandolo a sé. “Vieni qui! Vieni, presto.” Gli appoggia la testa sulle ginocchia mantenendola appena sollevata e tampona il sangue con l’asciugamano.

“Va beglio”, dice Alexander, “ba dod riesco a respirare.” Si alza un istante, sputa il sangue e riappoggia la testa sulle ginocchia di lei, sollevando un po’ l’asciugamano dalla bocca per riprendere fiato.

“Scusa, tesoro”, sussurra Tania. “Non volevo... ma non puoi immaginare il sogno che ho fatto.”

“Spero albedo che tu bi abbia sorpreso cod un’altra dodda”, dice Alexander.

“Peggio”, replica lei. “Eri vivo, ma immobile, sdraiato davanti a me e io ti stavo mangiando, pezzo per pezzo. Loro...”

“Loro chi?”

“Non sono riuscita a vederli in faccia. Mi immobilizzavano le braccia e uno tagliava pezzi di carne dal tuo fianco e me li infilava in bocca.”

Lui la guarda. “Mi stavi mangiando vivo?” le chiede sorpreso.

Lei deglutisce.

Alexander inarca le sopracciglia.

“Un pezzo del tuo fianco” – lo tocca al di sotto delle costole – “mancava.”

“Come fai a sapere che ero vivo?”

“Perché muovevi gli occhi, battevi le ciglia, mi imploravi di aiutarti.” Tatiana chiude gli occhi. “Oh, Dio...”

“Quindi cercavi di aiutarmi prendendo a pugni i tuoi aguzzini?”

Lei annuisce e lo guarda con occhi velati di lacrime. “Che cosa ti ho fatto?”

“Mi hai rotto il naso, credo”, risponde Alexander con nonchalance.

Tania scoppia a piangere.

“Sto scherzando”, la rassicura lui accarezzandola. “Sto scherzando, Tatia. Mi esce solo un po’ di sangue. Sta’ tranquilla! Presto si fermerà.”

Alexander nota la sua espressione di rimorso. I residui del sogno sono ancora impressi nella sua mascella squadrata, nell’espressione tesa del viso.

“Sto bene”, la consola. “Tania, sto bene.” Volta la testa e le bacia il seno, quindi preme la guancia contro di lei, che lo stringe a sé e gli tiene stretto il naso con una mano mentre con l’altra gli accarezza i capelli.

“Eri vivo”, sussurra, “e io ti stavo mangiando pezzo per pezzo. Capisci?”

“Molto bene”, risponde lui. “E sto sanguinando, per dimostrartelo.”

Tatiana gli bacia la testa.

Poco dopo Alexander non sanguina più. “Vado a sciacquarmi. Domani penseremo alle lenzuola.”

“Aspetta... non andare. Prendo qualcosa con cui pulirti. Vieni giù, ce la fai? C’è dell’acqua. Vuoi che ti aiuti? Su, appoggiati al mio braccio.”

“Tania”, dice Alexander prendendole il braccio, scendendo dal letto e sedendosi sulla stufa. “Mi esce solo un po’ di sangue dal naso. Non sto morendo.”

“No, ma domani avrai un bel livido.” Dopo aver inumidito un asciugamano, Tatiana si siede sulla stufa e gli pulisce dolcemente il viso, il collo e il petto. “Sono pericolosa”, mormora. “Guarda che cosa ti ho fatto.”

“Mmm. Devo ammettere... che non ti avevo mai vista così. Eri in un tale stato... A volte, in guerra, mi capita di vedere uomini la cui forza normale diventa pari a quella di dieci persone. Non sono riuscito a immobilizzarti le braccia e tu mi hai colpito con molta forza.”

“Lo vedo. Mi dispiace. Sei pulito, ora. Non fare un brutto sogno su di me, Shura, prometti?”

“Uno in cui tu sei distesa davanti a me e io ti mangio?” chiede lui sorridendo. “Sarebbe un sogno orribile.”

“Né quello né nessun altro. Vieni su. Hai bisogno di aiuto?”

“Credo di farcela.”

Tatiana lo rassicura che sarà subito di ritorno ed esce, per rientrare qualche attimo dopo con l’asciugamano lavato nelle acque gelide del Kama. “Tieni, mettilo sul viso così non si gonfia. Forse domani non sarai blu e nero.”

Lui si distende supino con l’asciugamano freddo e bagnato sul volto. “Non riesco a dormire, così”, borbotta con voce sommessa.

“E chi vuole dormire?” la sente dire mentre Tatiana s’inginocchia fra le sue gambe. Alexander geme attraverso l’asciugamano. “Che cosa posso fare per farmi perdonare?” la sente chiedere con voce suadente.

“Non mi viene in mente niente...”

“No?”

Tatiana mormora, mentre con le dita sottili lo accarezza e con la bocca calda respira su di lui. Lui è nella sua bocca e l’asciugamano gli copre il volto.

 

Il treno si fermò, i passeggeri scesero e furono incolonnati fuori dalla piccola stazione diroccata. Alexander s’infilò gli stivali, ma era certo che non fossero i suoi. Erano troppo piccoli per lui. Restarono lì, al buio, appena illuminati da una torcia tremolante. Un tenente estrasse un foglio di carta da una busta e, in tono stentoreo, lesse ad alta voce che i settanta uomini davanti a lui erano accusati di crimini contro lo Stato.

“Oh, no”, sussurrò Ouspenskij.

Alexander rimase impassibile. Voleva solo tornare nel vagone. Niente lo sorprendeva più. “Non ti preoccupare, Nikolaj.”

“Silenzio!” urlò il soldato. “Tradimento, collusione con il nemico, azioni contro la Russia nei campi di prigionia tedeschi, servizio nelle cucine del nemico, costruzione per il nemico, pulizia delle armi nemiche. La legge è molto chiara al riguardo. Siete tutti rimandati alle disposizioni dell’articolo 58, codice 1B, e resterete in arresto per almeno quindici anni nei campi correttivi di lavoro della Zona II per poi finire a Kolyma. L’arresto avrà inizio non appena comincerete ad alimentare il treno con il carbone. Accanto ai binari troverete il carbone e le pale. La prossima fermata sarà un campo di lavoro della Germania orientale. Adesso muovetevi.”

“Oh, no, non Kolyma”, disse Ouspenskij. “Dev’esserci un errore.”

“Non ho ancora finito!” urlò la guardia. “Belov, Ouspenskij, fate un passo avanti!”

I due avanzarono di qualche passo, trascinandosi dietro le catene. “Oltre a essere caduti nelle mani del nemico, che di per sé prevede quindici anni di prigionia, siete anche accusati di spionaggio e sabotaggio. Capitano Belov, lei viene privato di rango e titolo, come anche il tenente Ouspenskij. Capitano Belov, lei è condannato a venticinque anni di prigione. E lei, tenente Ouspenskij, a venticinque anni.”

Alexander rimase impassibile, come se non avesse udito quelle parole.

Ouspenskij invece disse: “Mi ha sentito? Ci dev’essere un errore. Non ho intenzione di restare in prigione per venticinque anni, parli con il generale...”

“Gli ordini sono chiari! Vede?” la guardia gli sventolò il foglio di carta davanti al naso.

Il tenente scosse la testa. “Allora non capisce. C’è sicuramente un errore. Lo so per certo...” Lanciò un’occhiata ad Alexander, che lo guardava allibito.

Ouspenskij rimase zitto mentre riempivano di carbone la fornace del treno e i vagoni merci, ma quando fecero ritorno alle brande ribolliva di una collera che Alexander non riuscì a comprendere.

“Arriverà mai il giorno in cui sarò libero?”

“Sì, tra venticinque anni.”

“Intendo dire libero da lei”, spiegò Ouspenskij, cercando di voltarsi dall’altra parte. “Il giorno in cui non sarò più incatenato a lei, non dormirò più con lei, non l’assisterò più e non mangeremo più dalla stessa scodella di metallo.”

“Perché sei così pessimista? Pare che i campi di Kolyma siano misti. Magari ti trovi una moglie.”

Si sedettero insieme sulla panca. Alexander si sdraiò all’istante e chiuse gli occhi. Ouspenskij si lamentò di stare scomodo e di non avere spazio accanto a un uomo robusto come lui. Il treno partì e lui cadde a terra.

“Che c’è che non va?” domandò Alexander, tendendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi. Ouspenskij si tirò su da solo.

“Non avrei dovuto darle retta. Non mi sarei dovuto arrendere, avrei dovuto farmi gli affari miei e ora sarei un uomo libero.”

“Allora non hai capito. I rifugiati, gli operai dei campi di lavori forzati, quelli che vivevano in Polonia, in Romania, in Baviera! In Francia, Italia, Danimarca, Norvegia. Sono stati rimandati tutti a casa, alle stesse condizioni. Cosa ti fa pensare che tu, tra tutti, saresti un uomo libero?”

Ouspenskij non rispose. “Venticinque anni! Anche lei è stato condannato a venticinque anni. Non gliene frega più niente?”

“Oh, Nikolaj. No, non più. Ho ventisei anni. È da quando ne avevo diciassette che non fanno che condannarmi alla Siberia.” La prima volta Alexander era stato destinato a Vladivostok e quella condanna ormai stava per scadere.

“Esatto! Lei, lei. Cristo, c’è sempre lei. Dal dannato giorno in cui la mia cattiva stella mi ha costretto a dormire accanto a lei, a Morozovo, la mia vita è passata in secondo piano. Perché dovrei beccarmi venticinque anni solo perché una maledetta infermiera mi ha messo nel letto vicino al suo?” Inveì e fece tintinnare le catene. Gli altri prigionieri, che cercavano di dormire, gli intimarono senza mezzi termini di chiudere il becco.

“La maledetta infermiera”, momorò Alexander, “era mia moglie. Perciò come vedi, caro Nikolaj, il tuo destino è inesorabilmente legato al mio.”

Per un po’ Ouspenskij tacque. “Non lo sapevo”, disse infine. “Certo, l’infermiera Metanova. Ecco dove avevo sentito quel nome. Non riuscivo a capire perché il cognome di Pasha mi suonasse familiare.” Dopo una pausa chiese: “Dove si trova, adesso?”

“Non lo so.”

“Le ha mai scritto?”

“Sai bene che non ricevo lettere. E non ne scrivo. Ho solo una penna di plastica che non funziona.”

“Ma com’è possibile che all’improvviso sia scomparsa dall’ospedale? È tornata dalla famiglia?”

“No, sono tutti morti.”

“E i suoi?”

“Idem.”

“Allora dov’è?” chiese con voce stridula.

“Che cos’è, tenente, un interrogatorio?”

Ouspenskij tacque.

“Nikolaj?”

Ouspenskij non rispose.

Alexander chiuse gli occhi.

“Mi avevano promesso”, sussurrò il tenente, “mi avevano giurato che tutto sarebbe andato bene.”

“Chi?” chiese Alexander.

Il tenente non replicò.

Alexander aprì gli occhi. “Chi?” ripeté, tirandosi su.

Ouspenskij cercò di allontanarsi da lui, ma le catene glielo impedirono. “Nessuno, nessuno”, mormorò. Poi, con un’occhiata furtiva ad Alexander, scrollò le spalle.

“È una storia vecchia come il mondo”, continuò fingendo indifferenza. “Vennero da me nel 1943, subito dopo l’arresto, e mi dissero che avevo due alternative: essere giustiziato da un plotone di esecuzione per i crimini previsti dall’articolo 58. Questa era la prima. Ci pensai su e chiesi quale fosse la seconda. Loro mi dissero”, proseguì con il tono piatto e pacato di uno a cui non importa più di niente, “che lei era un pericoloso criminale, ma che era indispensabile allo sforzo bellico. Era sospettato di atroci crimini contro lo Stato, ma poiché la nostra è una società che si attiene alle leggi della Costituzione e salvaguarda i nostri diritti – dissero proprio così – le avrebbero risparmiato la vita abbastanza a lungo da indurla a impiccarsi.”

Ecco perché Ouspenskij non l’aveva mai lasciato solo! “E ti chiesero di essere il mio cappio?” domandò Alexander afferrandosi i ceppi intorno alle gambe.

Ouspenskij non rispose.

“Oh, Nikolaj”, disse Alexander con voce strozzata. “Oh, Nikolaj.”

“Aspetti...”

“Non voglio sapere più niente.”

“Mi ascolti...”

“No!” urlò Alexander scagliandosi contro di lui. Impotente e furioso, lo afferrò per la collottola e gli sbatté la testa contro la parete del vagone. “Non voglio sapere più niente.”

Rosso e ansante, Ouspenskij non tentò di liberarsi, ma ripeté con voce roca: “Mi ascolti...”

Alexander gli sbatté di nuovo la testa contro la parete.

Molto debolmente, qualcuno disse: “Piantatela, voi due”. Nessuno voleva immischiarsi. Un uomo in meno significava un tozzo di pane in più per qualcun altro.

Ouspenskij ansimò senza fiato. Gli usciva il sangue dal naso per il colpo alla testa e non reagiva.

Alexander gli sferrò un pugno sul viso e lo fece cadere dalla branda, quindi gli sferrò un calcio. “Ho passato ogni giorno con te per due anni”, disse con una voce talmente rotta da far paura persino a se stesso. Era sul punto di uccidere un suo simile a sangue freddo. La collera che nutriva non assomigliava affatto a quella provata per Slonko, immediata e inarrestabile. La collera per Ouspenskij si tingeva della rabbia nei confronti di se stesso, per aver abbassato la guardia, e anche del dolore per essere stato tradito così a lungo dalla persona che credeva più vicina. Tutto ciò lo rendeva debole, non più forte, perciò si allontanò e si lasciò cadere sulla branda.

Alexander e Ouspenskij rimasero incatenati l’uno all’altro.

Per qualche minuto il tenente tacque e cercò di riprendere fiato e di pulirsi il viso. Quando parlò, lo fece in tono pacato. “Non volevo morire”, disse. “Mi riferisco ad allora. Mi offrirono una via di fuga, promisero che se gli avessi dato informazioni sul suo conto – se avesse aiutato sua moglie a fuggire o se era davvero americano, come sospettavano – io sarei stato finalmente libero. Avrei riavuto la mia vita e sarei tornato dalla mia famiglia.”

“Ti hanno offerto un bel po’”, constatò Alexander.

“Non volevo morire!” esclamò Ouspenskij. “Sono certo che lei è in grado di capirlo meglio di altri! Ogni mese dovevo fornire un resoconto di tutto quello che lei diceva e faceva. Erano molto interessati alla nostra discussione su Dio. Una volta al mese, l’NKGB mi chiamava al comando e m’interrogava. Sospettavo qualcosa? Aveva fatto un passo falso? Usava frasi o parole inaccettabili o straniere? In cambio, mia moglie riceveva una razione in più al mese e una quota maggiore del mio stipendio. E io qualche rublo in più da spendere in...”

“Mi hai venduto per qualche pezzo d’argento, Nikolaj? Mi hai venduto per comprarti le puttane?”

“Non si è mai fidato di me.”

“Al contrario”, replicò Alexander con i pugni stretti. “Non ti ho raccontato niente. Ma ti ritenevo degno della mia fiducia. Ti ho difeso davanti a mio cognato.” E fu allora che capì. “Lui ha subito sospettato di te e non ha fatto che ripetermelo.” Pasha aveva intuito come Tatiana, per le persone. Gemette a gran voce. Non gli aveva dato retta ed ecco cos’era successo. Aveva desiderato confidarsi con il tenente, ma non voleva metterlo in pericolo rivelandogli informazioni che potevano costargli la vita.

Dopo una pausa, Ouspenskij proseguì: “Gli ho detto tutto quello che sapevo di lei. Che a Colditz ha parlato con gli americani in inglese. Che a Katowice ha parlato con gli inglesi. Che voleva consegnarsi. Tutto quello che sapevo. Perché mi hanno dato venticinque anni?”

“Prova a immaginarlo.”

“Non saprei. Perché?”

“Perché”, urlò Alexander, “hai venduto il tuo fottuto animo mortale per una fantomatica libertà! Sei davvero sorpreso di non avere né l’uno né l’altra? Che cosa vuoi che gli importi delle promesse? Credi di stargli a cuore solo perché gli hai dato qualche inutile informazione? Non hanno ancora trovato mia moglie. E non la troveranno mai. Mi sorprende che ti abbiano dato solo venticinque anni.” Abbassò la voce. “Di solito le loro ricompense sono perenni.”

“La sta prendendo troppo sul personale! Io andrò in prigione e lei...”

“Nikolaj, sono incatenato a te da due mesi”, replicò Alexander. “Incatenato! Da quasi tre anni tu e io abbiamo mangiato dallo stesso elmetto al fronte, abbiamo bevuto dalla stessa borraccia.”

“Ho giurato fedeltà allo Stato”, borbottò Ouspenskij con voce flebile. “Volevo essere fedele. Volevo che mi proteggessero. Mi dissero che lei sarebbe morto con o senza il mio aiuto.”

“Perché me lo dici adesso? Perché raccontarmi tutto?”

“Perché non farlo?” ribatté Ouspenskij in un soffio.

“Dio, quando imparerò! Non parlarmi più”, gli intimò Alexander. “Mai più. Se lo fai, non ti rispondo. Se insisti, conosco dei modi per costringerti a stare zitto.”

“Allora mi costringa.” Ouspenskij aveva abbassato la testa.

Alexander diede uno strattone alla catena e si allontanò il più possibile da lui. “Non sei degno neppure di morire”, sibilò voltandosi verso la parete.

Era difficile capire dove stessero andando. Era estate, faceva caldo e non pioveva, e l’aria notturna che filtrava dalle fessure profumava di alberi. Alexander chiuse gli occhi e si sfregò il naso, richiamando alla mente l’asciugamano bagnato sul volto e la bocca di Tatiana intorno a lui. Durante il viaggio, il ricordo divenne talmente vivo che per poco non emise un gemito alla sensazione del sangue che gli colava dal naso sulle lenzuola bianche e di Tatiana che gli cullava la testa sul seno, mormorando: “Ti stavo mangiando vivo, Shura”.